DI ALBERTO BERGAMINI
Articolo pubblicato su “Il giornale d’Italia” del 28 Dicembre 1948
Moriva oggi è un anno, tristemente, nell’esilio sopportato con dignità, con dolore contenuto e silenzioso. E fu moderatamente pianto in quell’ora torbida di passione e di rancori suscitati dalla battaglia istituzionale. Posso sbagliare, ma credo che il tempo renderà a Vittorio Emanuele III maggiore e migliore giustizia: muterà radicalmente il giudizio sulla Sua Opera di Sovrano. Come è avvenuto per Carlo Alberto, l’« italo Amleto», che a poco a poco la Storia ha sollevato e posto nella meritata luce di vero e nobile iniziatore del Risorgimento, per il quale « trasse la spada »: e fu grande ardire, ma egli, fra le esitazioni i dubbi i travagli della sua natura tormentata, aveva saldo e ardente il supremo ideale della Patria libera.
Così io credo, a Vittorio Emanuele III sarà riconosciuta la pura anima italiana, l’intelligenza nutrita di molta cultura, il senso rigido del dovere e la austerità della vita esemplare! Egli con il pensiero costantemente teso alla grandezza della Nazione, desiderò, vagheggiò la guerra 1915-18 per «piantare il tricolore su le terre sacre che la natura diede ai confini d’Italia»: così diceva il suo proclama, bello, interamente suo (non di Ferdinando Martini, come si credette) che io lessi una lontana mattina di maggio, sul Corso Umberto. Lanciato il proclama, partì per il fronte verso le linee del, fuoco ove si combatteva e si moriva: e tra i suoi fanti e i suoi artiglieri divise disagi ansie, pericoli, dal primo all’ultimo giorno. L’esempio destò ammirazione: la parola del Monarca sereno, alacre ed intrepido fu incitatrice e consolatrice, il suo consiglio la sua fede giovarono, specialmente dopo. Caporetto, a tenere su gli animi: vide subito la strada buona. ch’era la resistenza al Piave disposta dal Cadorna e nel memore convegno di Peschiera parlò oltre un’ora di questa resistenza, meravigliando con la pacata fermezza e il vigore degli argomenti, Fox e Lloyd George (leggere i Ricordi dell’uno e dell’altro) e determinò la continuazione della guerra ad oltranza e l’assalto (giugno 1918) all’esercito nemico, assalto che decise della vittoria.
Questa è cronaca di fatti certi, narrata a me da un ministro che assisteva al convegno: uomo di sobria parola di retto criterio, non facile agli engouments, nè meno per il suo Re.
Molta fu allora la popolarità di Vittorio Emanuele III dalle Alpi al mare e spontanea in ogni classe la Monarchia irradiata da quella popolarità parve fiorire di nuova giovinezza piantata su basi solide, granitiche eterne. Le ultime pregiudiziali ideologiche languivano e tacevano: i repubblicani storici, Barzilai, Chiesa, Comandini avevano combattuto per l’Italia, vicino al Re.
Diciotto anni prima, Vittorio Emanuele III aveva raccolto, la Corona in condizioni drammatiche egli navigava nel Mediterraneo quando ebbe come un fulmine la notizia che il Padre suo era stato ucciso.
«Assunto dalla Morte fosti Re sul mare» cantò il poeta. E dal mare giunse all’Urbe salutato da una inquieta emozione scrutato interrogato da sguardi ansiosi: salì al trono, non: ridente, non splendente di liete promesse, ma avvolto come, da un’ombra di infausti presagi.
Ora grigia per quel trono Nella quale si presumeva si aspettava dal giovane Re una politica a di reazione, una dura politica di leggi eccezionali incoraggiata dall’orrore del regicidio, dalla concorde sconfessione, e riprovazione di esso, dalla repugnanza che ne avevano tutti i partiti, anche i più accesi; tutti, sinceramente rammaricati che la follia anarchica avesse, armato oltre l’oceano la mano di un, criminale che viaggiò fino a Monza per sopprimere la vita del più buono e gentile e leale Re che si fosse mai conosciuto e che l’Italia amava; Il delitto pur non avendo assolutamente alcuna complicità, era indizio per quotidiane polemiche, per il recente ostruzionismo parlamentare e i suoi strascichi d’una situazione turbata. Ma avvenne il contrario di quanto si aspettava dal nuovo Re: con qualche sorpresa degli spiriti tepidamente liberati non molto temperati alla scuola del liberalismo Vittorio Emanuele III mantenne il ministero dei Saracco, vecchio uomo di Stato piemontese all’antica (raccontavano che si cibava con quattro noci) che non aveva origini di destra, succeduto al Pelloux (giugno 900) per «Pacificare le fazioni politiche». Il Saracco cadde pochi mesi dopo per un grande sciopero a Genova: non era chiara l’indicazione del successore per il modo come era avvenuto il voto e perché la Camera si divideva in due parti quasi uguali. Vittorio Emanuele III con il suo schietto impulso democratico, risolse la prima crisi del suo Regno, affidando il Governo all’on: Zanardelli, uomo di sinistra un poco togata, ma sana, colta onesta: il quale chiamò all’Interno il Giolitti, anche egli di sinistra pura, rimasto in, disparte, vari anni dopo le vicende del 1892 e risorto con la sua forte personalità.
Un giornale riuscì a pubblicare una lettera dei giovane Re al «Caro Presidente» (Zanardelli) fiduciosa, cordiale, quasi espansiva, significante il pieno accordo anche di tendenza politica, oltre che di programma, fra il Sovrano e il suo primo Governo il quale ha lasciato memoria della sua pratica liberale e larga traccia di riforme sociali: le classi lavoratrici, oggetto di più sollecita cura, di più umana legislazione, migliorarono materialmente e moralmente.
Fu una, rapida trasformazione accentuata negli anni successivi, dovuta a una più illuminata giustizia, sociale. Ora è doveroso dire che le suddette riforme furono, non solo secondate ma stimolate, volute qualche volta promosse da Vittorio Emanuele III non meno che dai suoi Ministri.
Il grande sogno di questo Re silenzioso e pensoso era che il proletariato italiano fosse sempre più civile e cosciente e progredito nel benessere. Anche più tardi anche quando si era già fatto notevole cammino, citava al Ministro Sonnino (e trovava fervidissimo consenso) paesi invidiabili ove le classi lavoratrici erano più evolute: e ambiva che l’Italia non rimanesse indietro a quei fortunati paesi.
Fece la sua prima visita ufficiale all’estero allo Zar delle Russie, non senza motivo: era il primo passo del giro di valzer (come disse il Principe di Bulow al Reighstag) che l’Italia si apprestava a compiere per svincolarsi dalla Triplice Alleanza, la quale aveva reso grandi servigi ma si andava logorando . L’accoglienza dello Zar fu perfetta di cortesia e di amabilità: al ritorno da Peterhof, residenza imperiale a Pietroburgo, il Re Vittorio, parlando, con, il, suo seguito si compiaceva della bella accoglienza, e aggiunse: «Ma in questo grande paese, vi è un’atmosfera politica quasi cupa, vi è un incubo poliziesco che opprime.
Troppi gendarmi; si respira male. Se fossi nato in Russia, sarei rivoluzionario».