DI ALBERTO BERGAMINI
Articolo pubblicato su “Il giornale d’Italia” del 28 Dicembre 1948
terza parte
Il Re Umberto II con il Re Suo Padre Vittorio Emanuele III ad El Alamein
Un giorno viene la cabala del Patto a quattro che doveva assicurare la pace europea. Ma quale garanzia poteva dare all’Europa un patto che non aveva l’adesione della Russia? Eppure si affannarono e si agitarono le Cancellerie: specialmente il filofascista ambasciatore a Roma M. Henri de Jouvenel e il Ministro De Monzie a Parigi – arcades ambo – stancarono il telegrafo e il telefono per indurre a firmare il Presidente Daladier riluttante per la sua sfiducia in quella fatta passare per un capolavoro diplomatico. Ramsay MacDonald era già acquisito, Hitler nicchiava e fece ritardare l’evento. L’accordo non durò l’espace d’un matin, nè meno fu rammentato, nonché invocato a Locarno a Monaco quando giunsero le, ore calde. Non impedì l’assalto di Hitler all’Austria e ad altri paesi. Ma la montatura fu grande: a Montecitorio il lirismo non ebbe limite: al Senato qualcuno, prima della seduta propose di scendere addirittura in piazza Madama ad incontrare e ringraziare il Duce che avanzava: l’aula al suo apparire risonò acclamazioni interminabili. Uno che in quel fervore avesse osato qualche umida riserva su la consistenza del capolavoro o insinuato il dubbio che il genio del suo autore non superasse non oscurasse quello di Cavour, di Bismarck, di Metternich, di Richelieu, sarebbe stato creduto scriteriato, fazioso, pazzo da manicomio.
Qualche anno dopo, l’apoteosi per l’Impero etiopico avvolse tutta la penisola di sfavillante retorica: l’Italia fascista aveva ritrovato la sapienza, il valore, la gloria, la via di Roma antica. Colui che in piazza Venezia o in Galleria a Milano avesse mormorato: Respice finem, correva un rischio.
L’emballement interno ebbe validi rinforzi dall’estero. Il Premier inglese Mac Donald capo dei laburisti superò i conservatori nell’onorare Mussolini: si scomodò a venire da Londra a Roma per fargli visita una prima volta nel 1923 (tornò per il patto a 4) ed ebbe non pochi dispiaceri da parte dei suoi laburisti e del socialismo temperato, internazionale.
Egli scrisse una lettera a Fritz Adler per Filippo Turati come per scusarsi, lettera ben povera di ragionamento dalla quale sì apprende che Turati non volle riceverlo.
Il Duce aveva del resto a Londra, una bonne presse. Si pubblicavano interi volumi su di lui, apologetici.
Oltre gli articoli Winston Churchill disse che Mussolini era «il più grande legislatore vivente» e che se lui Churchil, fosse stato italiano sarebbe stato fascista. Sir Samuel Hoare che era un grande uomo, con gli occhi di aquila. L’arcivescovo di Canterbury, supremo dignitario della chiesa anglicana, anche lui, scrisse, che era una «figura gigantesca». Una colta signora, lady Margot Oxford and Asquith moglie del Premier venne a Roma e scrisse un libro: «Places and persons» dove è un capitolo che un panegirico su Mussolini. Un’altra intellettuale dama, lady Chamberlain, moglie del ministro degli esteri venne pure a Roma e conobbe il Duce: quando tornò a Londra, disse al nostro ambasciatore Marchese Della Torretta: «What a man! I have lost my heart».
(Che uomo! Io ho perduto il mio cuore!|). Un libro di Mister J.R. Marriot ha per titolo: « The Makers of Modern Italy: Napoleon, Mussolini ». (I creatori dell’Italia moderna. Napoleone e Mussolini). Un altro libro inglese sul Duce è intitolato: « He is not a man, is a flame » (Non è un uomo, è una fiamma).
Potrei continuare il florilegio: il confronto più insistente è con Cesare, Augusto, Napoleone: non manca che Alessandro, almeno non l’ho trovato. La nota anche insistente è il contributo recato dal Fascismo alla civiltà nel mondo. Potrei continuare, ma mi fermo perché mi coglie un senso di tristezza.
Quella Inghilterra inesorabile che così duramente, così spietatamente ha fatto scontare alla Monarchia Sabauda e all’Italia i legami con il fascismo avrebbe, potuto ricordare la ammirazione le veementi simpatie per il Duce e il suo regime di non poche personalità britanniche non di secondo ordine: ricordare che da quella furiosa ammirazione da quei cocenti entusiasmi, Mussolini ha tratto prestigio e autorità per la conquista e la lunga conservazione del potere o per le sue imprese: di che noi abbiamo dovuto rispondere come di una colpa nostra soltanto nostra, tutta nostra.
La Monarchia e l’Italia hanno pagato anche per i signori inglesi spasimanti per Mussolini da essi glorificato e rafforzato al governo. Uguale discorso si potrebbe fare alla Francia..
Il coro estero, dunque, non meno del coro interno deviò il Re. I più ammettono questo ma dicono che il Re non doveva dichiarare la guerra tanto più che egli non desiderava. Giusto in apparenza So che incedo per ignes ma anche la critica è più facile che fondata. Non consentire la guerra preparata, strombazzata voluta dal partito totalitario era scatenare l’inferno, produrre una situazione assurda e tragica. Nulla dì più inverosimile e funesto che un conflitto fra il Capo del Stato e il Capo del governo al momento di combattere. Le Forze Armate si sarebbero divise. Il Duce, autoritario, non avrebbe mollato. E se vinceva la Germania?
Quando all’angoscia della guerra ormai perduta, rovinosa sterminatrice apparve uno spiraglio di luce cioè quando il Gran Consiglio organo costituzionale del fascismo, votò un ordine del giorno di sfiducia a Mussolini il Re non esitò un minuto: aveva finalmente un organo costituzionale dalla sua parte, aveva finalmente l’arma lungamente e sospirata ed esonerò Mussolini dal potere: atto di coraggio, di energia, di coscienza, che dovrebbe riscattare e che riscatterà nella storia tutti gli errori veri o presunti, responsabili o imposti, evitabili o inevitabili.
Vittorio Emanuele III aveva certamente una natura riservata, chiusa, schiva di onori: questa natura, alquanto fredda, desiderosa di quiete lo ha condotto a vivere isolato con qualche danno della sua alta funzione. Egli aveva consuetudine con i suoi ministri finché erano ministri e quando cadevano, li vedeva di rado così finiva col sentire una campana sola e sempre quella. Mi raccontava l’on Sonnino che dal 1909 al1915 quando non fu Ministro non incontrò mai il Re: così l’on. Giolitti, non frequentava il Quirinale se non era Ministro. Lo stesso on. Sonnino mi riferì che quando era Capo del governo ebbe dal Re una sola preghiera personale: ottenere dal direttore del Giornale d’Italia che non gli mandasse attorno cronisti, reporters, fotografi.
Aveva una sua regalità atavica ma le sue tendenze i suoi gusti erano di umile borghese Ai sontuosi saloni del Quirinale preferì più raccolta e modesta Villa Savoia poteva evitare un ricevimento fastoso era felice. Una volta andò a Piacenza per l’inaugurazione di un grandioso ponte sul Po costruito dalla ingegneria ferroviaria italiana, magnifica si interessò ad essa vivamente come era suo costume per tutte le cose serie e importanti, fece domande, acute ma studiò di abbreviare la cerimonia per sfuggire a banchetti per tornare a Roma nello stesso giorno. Tale il carattere di Vittorio Emanuele III che sarà stato manchevole perché gli ha fatto il vuoto attorno; non aveva circolo di amici, non convegni abituali da cui trarre lumi e impressioni e si limitava ai ragionamenti con i suoi ministri. Difetto della sua natura, forse esagerazione di scrupolo, costituzionale? Comunque non colpa.
Un giorno dell’autunno ’45 andai a Posillipo ove Re Vittorio risiedeva dopo la Via Crucis dì Bari e Salerno e dopo ben tristi vicende: la Monarchia mandava ancora luce ma pallida a traverso la luogotenenza: era nell’aria l’abdicazione del vecchio Sovrano. Mi accompagnava il compianto Duca d’Acquarone alla Villa Rosbery luogo incantevole per il sorriso del cielo e del mare per la bellezza e :il fascino perenne della terra napolitana. Villa modesta bianca, nel verde i diffuso, lo studio del Re, era disadorno ed angusto. Egli era vestito in modo dimesso a lui consueto, ma che quel giorno spiccava di più come se tutte le insegne regali fossero abbandonate, obliate. Il Duca d’Acquarone fece la presentazione e mi lasciò solo con Vittorio Emanuele III al quale parlavo per la prima volta.
Era molto invecchiato quasi consunto: nell’ampia fronte passava una nube malinconica dissimulata da un sorriso non gaio, stanco. Nella conversazione che si svolse mostrò grande serenità ed equanimità di giudizi sugli uomini e su le cose. E quali cose! Non nascondeva la tristezza delle sue calamità, della sua sorte. Non disse una parola di recriminazione, di sdegno, di rancore per chicchessia: pareva uno spirito distaccato dalla terra e dalle sue miserie, assorto in una visione alta, superiore. In qualche, momento del suo dire trapelava una leggera ironia quasi per allontanare dolenti pensieri. L’esordio fu questo.
– Lei è quello, che mi mandava tanti redattori incaricati di ovunque, indiscreti (scusi ) e audaci: una ossessione.
– Maestà, le chiedo scusa in ritardo.
– Il curioso è che quando pregai l’on. Sonnino di liberarmi credendo che avesse potere su di lei mi accorsi che egli era un poco imbarazzato a rispondere: in sostanza non ottenne nulla .
– Maestà egli era proprietario del giornale, ma con una delicatezza, una finezza, una signorilità, un garbo che io benedico la sua memoria. E io ero un reprobo.
– Oggi, tornerebbe a dare gli stessi ordini ai suoi redattori?
– Non ho più ordini da dare Maestà. Bei tempi quelli, « Sol nel passato è il bello».
– Ah, lei si rifugia sotto le ali del poeta.
La conversazione cambiò tono salì ad elevati argomenti dei quali non posso dire finché non sarà pubblicato il Diario di Vittorio Emanuele III. che è voluminoso, vergato con calligrafia nitida, grande, uguale. Vari fogli sono aggiunti e recano segni in rosso in bleu e nero.
Con difficoltà non poca: anzi molta ebbi per alcune ore e potei leggere questo Diario che il Re tolse da una cassaforte ove era custodito salvo due fogli freschi riempiti al mattino, ch’erano sul, tavolo. Il Re mi lasciò solo nel suo Studio a leggere fui interrotto alcuni minuti quando egli rientrò con la Regina Elena (inferma ad un occhio che aveva fasciato) alla quale mi presentò bonariamente, gentilmente come un vecchio amico di casa e fui molto commosso di quella generosa affabilità.
Quando si avvicinò l’ora della mia partenza, egli tornò diede uno sguardo al fogli del Diario che io avevo accumulato da una parte.
– Maestà è un Diario molto importante per la storia: chiarisce, rettifica, illumina; mette a posto vario cose male conosciute sconosciute.
– Vedo che ha letto buona parte.
– No, appena un terzo. Ogni pagina fa meditare. Si legge avidamente: spesso si rilegge. Maestà sono come la lupa di Dante ho « più fame che pria».
– Ritorni e leggerà il resto.
Su la soglia della villa, stringendomi la mano disse «saluti Roma per me». La voce era quasi tremola, commossa dal presentimento che non avrebbe riveduto mai più la città adorata del suo lungo Regno.
Io non ritornai alla Villa Rosbery. Di lì a poco Vittorio Emanuele III abdicava e partiva per l’Egitto ad aspettare il Referendum, cioè altri dolori, altri tormenti di speme. Non lo vidi più. In Egitto continuò a scrivere il suo Diario fino ai suoi giorni estremi. Aprì l’anno 1947 con queste parole in alto della pagina: 1 Gennaio 1947: “Viva l’Italia ora più che mai”.
Questo suo grido della sua anima, questo grido d’amore perseverante per la sua patria, dopo vuotato l’amaro calice e compiuto interamente il fato avverso, questo grido dice l’uomo, il Re, l’Italiano: come io l’ho conosciuto, come è nella memoria reverente e affettuosa.