Skip to main content
Vittorio Emanuele III

Vittorio Emanuele III di fronte alla Storia – II parte

By Agosto 22, 2014Ottobre 24th, 2021No Comments

DI ALBERTO BERGAMINI

Articolo pubblicato su “Il giornale d’Italia” del 28 Dicembre 1948

seconda parte

Foto originale della collezione privata del Cav. Marco Lovison, pubblicata grazie alla sua cortesia.

Sorrise dunque a V. E. III all’alba del suo Regno, una innegabile popolarità che diventò poi vastissima, una rarità, innalzando la Monarchia alla più luminosa altezza. Come, da quella altezza, è precipitata? E’ una domanda che spesso mi rivolgo, è un problema molto interessante per la Storia, non sufficientemente, non profondamente studiato – mi sembra – e non agevole a risolversi. Per capirlo bene occorre una obbiettività non comune: ma non è facile prescindere dal nostro spirito di parte. Non certo io pretendo avere questa rara e lodevole virtù: anzi, per vari motivi io sarò sospetto, sebbene io mi proponga di discutere serenamente e sappia che vi sono nobili verità oltre quella della propria passione.

Molti risolvono o credono risolvere   il problema affermando che gli «errori» di V. E. III nella seconda parte del suo Regno hanno condotto alla disaffezione da lui ed allo sfacelo della Monarchia. Io intendo a quali «errori» si allude: vorrei vedere se sono sicuramente imputabili al Re.


Intanto come mai una linea così diritta, cosi savia per un lungo corso di anni, e poi, a un tratto, tanta stortura? Anche questo è strano e fa pensare e va studiato e spiegato in maniera non superficiale.  Logicamente gli «errori» attribuiti a V. E. III si riducono o si ricongiungono a uno solo iniziale: non avere nel 1922 (questa la rampogna maggiore) sbarrata al fascismo la via della marcia su Roma e impedita la conquista violenta dei potere. Dalla visione politica che il   Monarca prima perplesso finì allora per avere (o gli fu imposta) e dalla risoluzione che ne seguì deriva tutto il resto, derivano tutte le disavventure.

Compiuto il primo passo, erano fatali gli altri. Il Re si trovò stretto in  una catena indissolubile: tentò più volte di strapparla, non poté. Per ciò bisogna indagare, innanzi tutto, se fu uno sbaglio la visone politica che aprì al   fascismo la strada di Roma e del Governo a giudicare dal senno del poi (senza ironia) bisogna dire che fu uno sbaglio per il male che e venuto al paese. Ma se io riesco a dimostrare che lo sbaglio è stato in grandissima parte della nazione italiana più che del suo Re trascinato, obbligato a commetterlo, allora sarà onesto giudicare questo Re con minore severità.


Va tenuto presente che VE. III era un Sovrano rigidamente costituzionale (a modo come egli intendeva), professava  diritto costituzionale e cioè si è sempre preoccupato di interpretare la volontà  della maggioranza della Camera e del Senato o, mancando i due organi parlamentari, della opinione pubblica. Il diritto divino della tramontata monarchia assoluta – tramontata in fondo con Carlo Felice, – sic volo sic  jubeo – era lontano, estraneo al suo spirito. Egli si è attenuto alla sua norma costituzionale con un rigore, una coscienza stimata virtù in vari paesi, specialmente in Inghilterra, culla della   libertà e della sovranità parlamentare consacrata dalla formula «il Re regna e non governa».


Con questa coscienza con questa scrupolosa volontà costituzionale V. E. III nel 1922 ascoltò e seguì il monito quasi unanime del paese. La situazione era molto aggrovigliata e penosa: il ministro Facta si era dimesso tra un’agitazione, uno sciopero, un disordine perché non aveva più la maggioranza alla  Camera. Dopo un mese e tre giorni di consultazioni, di manovre politiche di incarichi di    tentativi falliti – lungo amaro snervante stillicidio politico – non si riuscì a comporre un qualsiasi Ministero nuovo: e si dovè tornare a Facta pure sapendo che non disponeva della maggioranza necessaria a governare. Pareva uno scherzo, certo era la prova più dolente della decomposizione parlamentare.


Intanto il fascismo si preparava, si organizzava, si armava e il paese era in grande apprensione, sconvolto afflitto da tumulti, anche sanguinosi. Lo Stato non aveva alcuna autorità, non funzionava, corroso, minato schiantato dalle fazioni estreme di una parte o dell’altra parte. Scioperi a catena, ordine pubblico turbato, strappi alla legge, movimenti insurrezionali. Vi erano come due governi, quello legale, apparente, e quello della piazza, efficiente. Il governo della piazza condannava disfaceva, annullava un’ora dopo, ciò che aveva deliberato l’altro governo. Situazione intollerabile. A breve andare, prevalse con forza irrompente travolgente il fascismo.    Perché non dire, la verità anche se è incresciosa? In quell’ora tutta l’Italia apparve dominata dalle camicie nere. E si invocava un governo stabile  solido, à poigne con un uomo forte. E l’uomo  «forte»  che si voleva era Mussolini.


Questa è la Verità: il mio ricordo è vivo e sicuro. Tutti a Montecitorio come a palazzo Madama (alcuni, ma pochi, a malincuore) si adattarono come a un fato inesorabile tutti si piegarono ad esso, volenti o nolenti salvo si capisce, i Deputati di estrema sinistra. Gli altri pensarono, cedettero, sperarono che il rimedio fosse provare la nuova forza che si presentava alla ribalta politica. Tutti, in modo diretto o indiretto, blando o vivace espressero questa opinione e ci meraviglieremo  e grideremo se questa compatta    opinione pubblica fece presa su di lui? Del parlamentare più autorevole, il Giolitti  e del suo spirito non contrario al fascismo nascente (che considerava giovevole a ristabilire l’ordine) parlano giornali, riviste e libri numerosi:
ne discorre Giovanni Mariotti in un suo volume recente, riassuntivo (1) il quale
descrive la prima perplessità dello statista liberale e ammira poi l’atteggiamento di lui contro la sopravvenuta Dittatura.

Perfino Luigi Albertini (che poi si levò anch’egli con lodevole energia a combattere a viso apertole leggi liberticide) della estenuante  crisi Facta ebbe l’impressione che tutto si dissolveva e pregò il Prefetto di Milano, Lusignoli di telegrafare al Generale
Cittadini, Primo Aiutante del Re, raccomandando di lasciar svolgere l’esperimento Mussoliniano che Milano attendeva.

Dunque, per tutte le vie con tutti i modi fu fatta pressione al Re che cedette.

I critici spietati di V. E. III dovrebbero spiegare come egli – a parte il diritto costituzionale  – poteva opporsi a così impressionante e incalzante opinione pubblica: e che cosa sarebbe conseguito al rifiuto del Monarca in quella Italia – perché non dirlo – inquieta, fremente, ardente, esultante di fascismo. Fu telegrafato dal Quirinale  a Mussolini: venisse a    Roma per consulto». Rispose egli (è una rivelazione, storica che scrivo per la prima volta): «Verrò non per essere consultato ma per fare un Ministero, anzi lo ho già fatto»  (prima dell’«Incarico», cosa da strabiliare) e diceva i nomi che sono quelli componenti il suo primo Ministero  meno il Lusignoli escluso, deluso all’ultima ora. E Mussolini partì da Milano. A Civitavecchia ebbe il primo saluto trionfale: ringraziò altero e drastico. Disse che aveva il suo ministero pronto, anzi « non un ministero ma un governo » che poi fu annunciato da una edizione del Giornale d’Italia uscita a mezzanotte, che svegliò Roma dal sonno, e la sconvolse. In questo oltre Mussolini e i suoi erano alcuni liberali come Diaz, Thaon di Revel, Teofilo Rossi, Carnazza non ancora indossanti le camicie nere, un democratico sociale, Cesarò, perseguitato poi con accanimento         e vari democratici cristiani , (popolari): Tangorra al tesoro, Cavazzoni al lavoro, Gronchi sottosegretario all’Industria e al commercio, Milani sottosegretario alla Giustizia e un altro sottosegretario alle Terre Liberate. Non ho mai saputo se costoro avevano il consenso di Don Sturzo.

 

Appena annunciato il nuovo governo, il povero Giacomo Matteotti quasi presago scrisse una melanconica lettera a Filippo Turati (primi di nov. 1922). Diceva: «Viltà generale alla Camera: tutti salvo il vecchio Cocco (Cocco-Ortu) tutti pronti a entrare nel ministero con lo strazio nel cuore». Testimonianza del clima che incombeva anche nei settori più insospettati e insospettabili. (Il povero Matteotti sapeva – ne parla in altra lettera al Turati – che vi erano state trattative di Mussolini anche con il socialista Baldesi della Confederazione del Lavoro.

V. E. III fu sospinto, fu costretto a darsi nelle mani del fascismo ma darsi al fascismo con quel suo seguito crescente, con quel favore pubblico con quella sua presunzione voleva dire anche per un Re, farsi  suo succube.

E le cose volsero presto al male il fascismo mostrò le unghie, si avviò a un sistema totalitario in disprezzo della libertà e della democrazia. Alcuni liberali (pochi) si ritrassero: altri (i più) non batterono ciglio, rimasero imperterriti al fianco di Mussolini: per frenare – dicevano – le sue già palesi intemperanze, per dominarlo. Vano sofisma nel quale hanno perseverato fino al giorno che egli, seccato, sciolse il partito liberale.

“O con me o contro di me”. Avrebbe voluto, ma non poteva, liberarsi del Re vittima più vera e maggiore del fascismo. E cominciò quella crudele diarchia di 20 anni, la quale ha dato a V. E. III inauditi dolori  ignorati manda su di essi un poco di luce il  Diario Ciano ma la verità intera si conoscerà quando apparirà il Diario del Re. Fu uno scontro quotidiano senza tregua: V. E. III doveva convalidare una politica opposta al suo desiderio, al suo istinto, alla sua educazione:  c’era l’assurdo di un Ministro dittatore e di un Capo dello Stato avverso ad ogni forma di tirannia. A mano a mano che crescevano la forza e il Prestigio del fascismo – e salirono alle stelle – più ardua e amara diventava la convivenza del Re con il  Duce, aspro di natura ed imbaldanzito dal successo. Nell’urto frequente il Re doveva piegare perché l’altro era più forte, più audace e spregiudicato: disponeva delle sue dense schiere, della piazza, delle adunate oceaniche, forse anche dell’esercito: poteva scatenare la guerra civile che il Re paventava come il flagello più funesto. in questo conflitto il Re non poté appoggiarsi su nessuna forza e nessun  gruppo. Quale segno di solidarietà gli venne, quale conforto, quale aiuto dalla Camera o dal Senato o dalla opinione pubblica? Nessuno.

Anche nei momenti più critici. Su tutti, critico il momento Matteotti: vi fu bensì la rivolta della coscienza nazionale per il sacrificio di un Deputato reo di compiere il suo dovere e di rimanere fedele al suo partito. La scossa al regime fu        tale che poteva farlo cadere e sarebbe caduto se la opposizione e di oltre 150 deputati, invece  di non muoversi dall’aula ed ivi chiedere ogni giorno, ogni ora, conto del delitto, non avesse creduto moralmente più «ammonitore» lo sdegnoso abbandono dell’aula stessa.

Ma, così il Duce fu padrone del campo, incontrastato del campo, ed ebbe quanti voti di fiducia volle. E’ stata l’ora più difficile del fascismo: passata quella, il regime non ebbe, più nulla da temere: e fece a suo talento, senza né meno il disturbo, la fatica di abbattere qualche ostacolo.

Il colpo di Stato fu la trasformazione della Camera dei Deputati in Camera dei fasci e delle corporazioni snaturante lo Statuto. La trasformazione passò liscia; non un movimento ostile nel paese, non una voce discorde non un grido di protesta. E si sgretolava, si annullava lo Statuto, del resto già molto offeso. La Camera approvò alla unanimità. In cuor suo il Sovrano era contrario: ma che poteva contro la massiccia votazione dei rappresentanti del popolo e la indifferenza messianica del paese?