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Umberto giudica suo padre di Luigi Cavicchioli

Umberto giudica suo padre – di Luigi Cavicchioli – 1966 – 4

By Novembre 24, 2019Gennaio 24th, 2022No Comments

Umberto giudica suo padre

di Luigi Cavicchioli

 

La guerra fu dichiarata il 10 giugno 1940: e la dichiarazione fu firmata da Vittorio Emanuele III. Ora, prendiamone pure atto, Vittorio Emanuele III era contrario alla guerra al fianco dei tedeschi ne prevedeva l’esito catastrofico, avrebbe voluto evitarla: di ciò non possiamo dubitare, esistono testimonianze inconfutabili, lo stesso Ciano, il 27 dicembre 1943, pochi giorni prima di essere fucilato, scrisse al re, dal carcere di Verona, una lettera drammatica in cui diceva fra l’altro: «Affidato alla martoriante custodia delle SS attendo un giudizio che non è altro che un premeditato assassinio. Vostra Maestà conosce da tempo le mie idee e la mia fede. Così come io posso testimoniare davanti a Dio e davanti agli uomini l’eroica lotta sostenuta dalla Maestà Vostra per impedire quell’errore e quel crimine che è stata la nostra guerra al fianco dei tedeschi». E l’inedita rivelazione di Umberto sul colloquio del 14 marzo 1940 fra Acquarone e Ciano, riportata nella puntata precedente, ha un indiscutibile interesse storico, ci dice che fino all’ultimo il sovrano si adoperò in modo concreto per trovare una soluzione che salvasse il paese dalla guerra. Sta bene, prendiamo atto di ciò. Ma proprio questa chiarezza di idee e questi tentativi compiuti febbrilmente in extremis, non rendono più sconcertante e grave il fatto che poi, al momento fatale, il re abbia accettato di porre la propria firma in calce alla dichiarazione di guerra? Perché lo fece? Non avrebbe potuto, comunque, negare sdegnosamente la propria firma, scegliendo se necessario la via dell’esilio, ma denunciando in tal modo davanti al mondo la criminosa politica di Mussolini?

« Questo – dice Umberto è un punto sul quale io non posso e non voglio esprimere un giudizio. Fu, quella del 10 giugno 1940, una decisione terribile: il popolo italiano pagò un prezzo altissimo di sofferenze e di sangue, di lutti e rovine, di umiliazione e di rancore, per quella decisione, per quella guerra insensata. Ogni italiano, quindi, ha il diritto di giudicare secondo coscienza. Tutti, ma non io. Io non posso e non voglio minimizzare la responsabilità del sovrano, mio padre, in quel momento, né la situazione effettiva del nostro paese, quali rapporti esistevano fra il re e il capo del governo, di che libertà d’azione disponeva ancora l’istituto monarchico. Di tutto ciò deve tener conto chi voglia emettere un sereno giudizio. Perdoni se la tedierò con un’ennesima citazione. E’ una testimonianza dello stesso Mussolini, un brano che egli scrisse in “Storia di un anno” durante la Repubblica di Salò: “Mentre il re aveva resistito con abbastanza decisione alle manovre aventiniane nella seconda metà del 1924, anche quando più o meno direttamente era stato chiamato in gioco, non apparve invece molto soddisfatto dell’azione del 3 gennaio 1925, attraverso la quale, con la soppressione di tutti i partiti, si gettavano le basi dello stato totalitario. Fu quello il primo scontro della diarchia. Il re sentì che da quel giorno la monarchia cessava di essere costituzionale nel senso parlamentare della parola. Non vi era più alcuna possibilità di scelta. Il gioco dei partiti e la loro alternanza al potere finivano. La funzione della monarchia si illanguidiva… Durante una crisi ministeriale la sfilata dei papabili al Quirinale era un avvenimento al centro del quale stava il re. Dal 1925 tutto ciò finiva. Da quell’anno in poi il cambio dei dirigenti avrebbe rivestito il carattere di un movimento di ordine interno nell’ambito del partito… Da quel momento si cominciò a parlare di una monarchia prigioniera del partito fascista, e si compassionò il re, ormai relegato al secondo piano, di fronte al Duce”. E’, questa, una testimonianza di un certo interesse… ».

Ammettiamolo: non può essere una testimonianza compiacente e addomesticata per giustificare il re davanti al tribunale della storia, poiché Mussolini scrisse questo brano animato da fiero risentimento contro Vittorio Emanuele III e l’istituto monarchico (un risentimento spinto a tale ingenuo eccesso da fargli scrivere re con la lettera minuscola e Duce con la maiuscola).

« Comunque – prosegue Umberto – fu soltanto nel ’38 che i rapporti fra il re e Mussolini si inasprirono fino a raggiungere momenti di vera drammaticità. Negli anni precedenti, anche se non vi fu mai vera stima o simpatia reciproca, si trovò un modus vivendi abbastanza pacifico. Dei resto, dobbiamo ammetterlo, per quanto amara possa apparirci oggi questa verità, ci fu un lungo periodo durante il quale Mussolini godette di un notevole prestigio, in Italia e all’estero, né si immaginava che potesse poi diventare l’artefice di eventi storici tanto funesti: ciò è vero al punto che anche qualche antifascista fuoruscito a un certo momento gli scrisse lettere di plauso per la sua politica. Fu nel 1938 che il re cominciò a preoccuparsi per la vocazione di “condottiero di eserciti” che il duce andava sempre più sconsideratamente rivelando e che sarebbe stato difficile frenare, se la situazione politica internazionale fosse precipitata, poiché ormai, grazie ai poteri e alle prerogative che il Parlamento gli aveva liberamente attribuito, il capo del governo poteva tenere saldamente in pugno l’esercizio della dittatura. Alla fine del marzo 1938 Mussolini si fece nominare, a insaputa del sovrano, dalla camera dei Fasci e delle Corporazioni e dal Senato, comandante assoluto di tutte le forze di terra, di mare, di cielo e primo maresciallo dell’Impero e il re fu “automaticamente” equiparato allo stesso grado. Mussolini si recò quindi dal re per metterlo di fronte al fatto compiuto e sollecitarne l’approvazione postuma. La reazione del sovrano per quella inaudita violazione della norma costituzionale, perpetrata per conseguire un risultato che fra l’altro appariva come una tragica farsa, fu molto dura. Lo stesso Mussolini, più avanti, al tempo della repubblica sociale, riferì l’episodio, nel libro già citato, in questi termini: Il re era pallido di collera. Il mento gli tremava. – Questa disse il re, è la più grossa di tutte: data l’imminenza di una crisi internazionale non voglio aggiungere altra carne al fuoco, ma in altri tempi, piuttosto che subire questo affronto avrei preferito abdicare”. A Mussolini interessava dare un’immagine del re “pallido e tremante”, sia pure di collera. Ma va rilevata qualche inesattezza, sia nel ritratto sia nella frase pronunciata. Il re, calmo, almeno in apparenza, disse: Il mio primo impulso sarebbe di respingere questo inqualificabile affronto e abdicare: ma il popolo italiano non saprebbe certo rassegnarsi a una simile infamia e saprebbe come reagire: solo per questo, per evitare un tragico conflitto nel paese, subisco l’affronto” ».

Era un minaccioso ammonimento che sarebbe stato forse opportuno ripristinare più avanti, alla vigilia della dichiarazione di guerra: perché il re, vedendo che l’irreparabile stava per accadere, non fece appello al popolo italiano che forse avrebbe saputo come reagire?

« Il re, come ho detto, preferì aggrapparsi all’unica speranza di una soluzione costituzionale, conseguenza di un voto di sfiducia del gran consiglio del fascismo: ingenua speranza, oggi possiamo riconoscerlo. Ma esistevano altre concrete possibilità? Dalla primavera del 1938 in poi i sentimenti di Mussolini verso il sovrano divennero sempre più ostili. Egli risentiva di. un complesso di inferiorità nei confronti di Hitler, a causa della monarchia. Quando il Fuhrer visitò Roma, nella primavera dei 1938, concepì una immediata avversione, del resto largamente contraccambiata, per il re d’Italia. Non mancò di “compiangere” Mussolini perché – gli disse – un dittatore e condottiero, per quanto audace e geniale, non potrà mai realizzare in pieno il proprio destino di grandezza, se a ostacolargli il cammino ha la palla al piede di una monarchia pavida e conservatrice. Mussolini restò colpito da queste opinioni del Fuhrer e soprattutto dal senso di superiorità che a lui derivava dal non avere la palla al piede. Di qui la sua crescente insofferenza verso il re e i suoi propositi di sbarazzarsene alla prima occasione: propositi che nel 1939-40 andava sbandierando a tutti i suoi collaboratori, spesso con apprezzamenti volutamente grossolani. Col re, viceversa, non osò mai assumere un atteggiamento di scoperta insolenza. Anzi, tutte le volte che, in udienza, era fatto bersaglio di qualche sarcasmo da parte del re, cosa che accadeva abbastanza di frequente, si mostrava alquanto impacciato salvo dare sfogo alla collera e ai minacciosi propositi appena uscito dal Quirinale. Così accadde, ad esempio, quando, in periodo di persecuzioni razziali, disse al re, durante una udienza: “Ci sono ventimila italiani con la schiena debole che si commuovono per la sorte degli ebrei. E il re rispose gelido: ‘Tra quei ventimila italiani con la schiena debole ci sono anch’io”. Al che Mussolini, senza rendersi conto, nella confusione del momento, della singolare incongruenza, balbettò: “Certo, maestà, sono sentimenti che onorano vostra maestà”. Ma più tardi disse a Bottai: “Peccato che il re non sia di razza ebraica: sarebbe un buon pretesto per spedirlo in un campo di concentramento, e liberarci così di questa palla al piede”. A Ciano confidava: il re è un irriducibile nemico del regime, ma stia attento; per liquidarlo basta un manifesto appiccicato alle cantonate: un giorno o l’altro lo farò stampare, questo manifesto, che gli solleverà contro tutta l’Italia” ».

Una ragione di più per tentare di prevenirlo, giocando il tutto per tutto pur di strappargli il potere dalle mani, senza scrupoli di legittimità costituzionale, anche se il rischio, era tutt’altro che lieve.

«Il sovrano non credeva nel 1939-40, di poter imporre una soluzione d’autorità senza conseguenze funeste per il paese. Io, lo ripeto, non intendo esprimere un giudizio. Giudichi da sé, secondo coscienza, ogni italiano. E’ un fatto, comunque, che mio padre non vide altra via di salvezza al di fuori della prassi costituzionale: la sola speranza che coltivò fu un voto di sfiducia del gran consiglio del fascismo. Rispetto a quanto avvenne poi nel 1943, la crisi di governo, se il voto di sfiducia del gran consiglio fosse giunto nella primavera del 1940, si sarebbe imposta con identica prassi, ma avrebbe avuto un diverso sviluppo. Il re non aveva neppure lontanamente considerato la eventualità dell’arresto di Mussolini, né di un qualsiasi provvedimento che limitasse la sua libertà o diminuisse il suo prestigio: si trattava, in sostanza, non di abbatterlo alla maniera forte (cosa tanto più difficile in quanto Mussolini nel 1940 non aveva ancora perduto la guerra e conservava intatto il suo prestigio di “uomo del fato”, fondatore dell’impero e arbitro di pace tra le grandi potenze), ma di giubilarlo, sostituendolo, secondo la prassi costituzionale, come ho già detto, con un uomo più giovane, Ciano o Grandi, stimato sia all’interno sia all’estero, il quale avrebbe tenuto a bada Hitler con una politica iniziale di platonica fedeltà ai patti e si sarebbe schierato con gli alleati se costretto a difendere il paese da una aggressione nazista. Questo era il piano (o diciamo pure il bel sogno, se preferisce) che Vittorio Emanuele III sperò di realizzare nella primavera del 1940 quando la minaccia della guerra incombeva ormai sul nostro paese. Questa fu la sua scelta, la sua sola speranza o la sua ingenua illusione ».

Speranza o ingenua illusione; sta bene. Ma quando anche questa illusione cadde, quando Mussolini gli chiese di firmare la dichiarazione di guerra, perché Vittorio Emanuele III chinò il capo rassegnato? Poteva opporre un rifiuto, costasse quello che costasse: tanto, ormai, sciagura peggiore della guerra non poteva abbattersi sull’Italia.

Ho rivolto a Umberto questa domanda: « Lei, maestà, come avrebbe agito, se fosse stato al posto del re, il 10 giugno 1940? Perdoni questo modo di porre la domanda: mi sono espresso in termini infelici. Ma volevo dire questo: lei, maestà, con quale stato d’animo assistette al precipitare degli eventi che trascinarono il paese in quel conflitto di cui aveva previsto le disastrose conseguenze? ».

« Io – dice Umberto – ero angosciato: non avevo, lo confesso, i nervi d’acciaio di mio padre, la sua capacità di considerare le cose con freddo realismo, senza cedere a impulsi emotivi. E’ doloroso e mortificante per me riandare col ricordo a quei giorni terribili, al mio stato d’animo. Credetti di dovermi arrogare un diritto che non avevo: volli parlare a mio padre, esporgli le mie convinzioni, esternargli le mie apprensioni. Gli parlai, infatti, con orgasmo, forse con voce alterata: gli dissi che non si poteva andare rassegnati verso la catastrofe, che bisognava fare qualcosa, qualunque cosa, a qualunque prezzo. Mio padre ascoltò in silenzio, senza sollevare gli occhi da un fascio di carte che aveva davanti: poi sì alzò di scatto, mi congedò senza una parola. Oggi io ricordo con infinita tristezza quell’episodio. Mio padre non mi disse nulla. Ma pochi giorni prima che l’Italia entrasse nel conflitto, mia madre, con voluta noncuranza, mi disse che aveva trovato “per caso” un foglietto di appunti del re e che, di propria iniziativa, aveva pensato potesse interessarmi prenderne visione. Me lo mostrò infatti: appunti telegrafici, buttati giù in fretta, una specie di pro-memoria, riflessioni che il re – così sembrava volesse far credere aveva fermato sulla carta soltanto per sé, per meditarci su. Ma credo di non sbagliare pensando che fosse ben altro il patetico espediente di un padre ansioso di essere “compreso” dal figlio, un atto di umiltà e di amore che, essendo disgraziatamente il re, non poteva fare parlando a cuore aperto al figlio, che disgraziatamente era anche il principe ereditario…».

Di quel foglietto di appunti possiamo ricostruire il testo, precisando tuttavia che Umberto non intende assolutamente presentare questo episodio, così intimamente personale, come una indicazione che possa avere un qualsiasi valore per altri, anche se per lui fu illuminante.

Eccolo comunque: «La guerra è ormai inevitabile. Mussolini ha deciso. Nessuno lo può fermare. E’ questione di giorni. L’Italia va verso la disfatta: magari sbagliassi. Il re deve prendere una decisione. Meditare a lungo, poi decidere, e che Dio ci assista. Il re ha tre possibilità di scelta. Non ne vedo altre: magari qualcuno ne suggerisse una quarta migliore. Prima possibilità: dire no alla guerra, destituire Mussolini, che se ne infischia, resta al suo posto e destituisce il re. Il re lancia un appello all’esercito fedele. E’ la guerra civile: al duce non mancano, in questo momento che la guerra va bene per Hitler, sostenitori pronti a tutto. Mentre il paese è dilaniato dalla guerra fratricida, arriva l’alleato tedesco a dare man forte a Mussolini: a occupare militarmente l’Italia. Il re è catturato, deportato o messo al muro. Mussolini e Hitler proseguono la guerra insieme. La perderanno. Gli alleati renderanno omaggio al re caduto nella lotta contro i tiranni: il re avrà i suoi monumenti sulle piazze e il plauso della storia. Ma i morti della guerra civile provocata dal re saranno un prezzo equo per quei monumenti e quella pagina di storia? Seconda possibilità: il re non firma la dichiarazione di guerra che Mussolini gli sottopone. Ma non vuole provocare la guerra civile. Abdica e scioglie l’esercito dal giuramento. Va in esilio: se non parte di sua spontanea volontà, vengono i moschettieri del duce a sfrattarlo dal Quirinale, come un inquilino che non ha pagato l’affitto. il re va esule in Inghilterra o negli Stati Uniti o in qualche altro paese libero e democratico. A ogni modo in un luogo ameno: aria buona, bel paesaggio, tempo libero per pescare. Intanto, mentre il re pesca, Mussolini e Hitler fanno la guerra. La perdono. Gli eserciti alleati arrivano in Italia da conquistatori: dietro viene il re, con una bella cera, per la vita sana che ha condotto in tutto quel tempo. il re viene accolto da trionfatore, in patria, riprende il trono che gli spetta: gli italiani che hanno combattuto la guerra di Mussolini, perché non potevano rifiutarsi e andare in esilio a pescare, si sentono in colpa, sconfitti, e hanno molta venerazione per il re che ha preferito andare in esilio, piuttosto che f are la guerra di Mussolini. Ma il re lo merita tutto quel rispetto? Terza possibilità: viene Mussolini con la dichiarazione di guerra a chiedere la firma del re. Il re firma senza dire niente. Ci sono tanti italiani che non vogliono la guerra, ma la faranno lo stesso, magari da valorosi, magari lasciandoci la vita. Il re decide di stare qui, con gli italiani, di fare la guerra, come loro, di affrontarne i rischi e pagarne il prezzo, come ogni altro italiano. Potrebbero anche vincere i tedeschi: in questo caso Mussolini e Hitler, a vittoria ottenuta, approfitteranno del momento favorevole per dare una pedata al re, che ha fatto la guerra senza averne voglia: proclameranno la repubblica. Se invece, come credo, Mussolini e Hitler, alla fine, perderanno la guerra, allora è probabile che i vincitori e forse anche gli italiani, tengano responsabile il re della guerra dichiarata e perduta, come e più di Mussolini: forse lo manderanno via, con Mussolini, sarà proclamata la repubblica. Ma potrò dire che hanno torto? Non potrò dire che hanno torto. Queste sono le tre possibilità di scelta che ha il re: non ce ne sono altre, bisogna scegliere una delle tre. La prima è da scartare senz’altro: la più scellerata azione che un re possa commettere ai danni del proprio paese è gettarlo in una guerra fratricida. La seconda: non ci sono dubbi, basta un pizzico di buon senso per capire che la seconda è la scelta migliore, c’è tutto da guadagnare, una bella vacanza all’estero, un ritorno trionfale, l’ammirazione del mondo libero,  il rispetto dei sudditi. E’ questa la strada da scegliere: se ho un briciolo di cervello deciderò in questo senso. Ma voglio ancora pensarci su: per quanto possa sembrare strano, ho ancora dei dubbi. La terza possibilità… lo so… ma ci voglio pensare… ».

Umberto dice: « Di questo non è nemmeno il caso di parlare: non vuole e non può essere, ripeto, una testimonianza o anche solo una indicazione di qualche valore storico. E’ un ricordo personale, una “spiegazione fra padre e figlio “, che ha un valore per me e soltanto per me. Fu, per me, una lezione sul tema: come si esercita in umiltà l’ingrato mestiere di re ».