Umberto giudica suo padre
di Luigi Cavicchioli
“Penso che dopo l’uccisione del parlamentare socialista il Re avrebbe potuto liquidare Mussolini ma ritenne di non doverlo fare. Io mi limiterò a ricordare che non esistevano le premesse costituzionali per creare una crisi di governo”
Vittorio Emanuele III ebbe fama di uomo arido, egoisticamente attaccato al trono, diffidente anche col figlio che tenne sempre all’oscuro degli affari del regno. Umberto reagisce con un’ombra di amarezza a una mia domanda in proposito, dice: « Mio padre non fu certo un uomo di facile comunicativa, anche per una forma di timidezza o pudore che gli vietava l’abbandono sentimentale. Ma dietro le sue brusche maniere nascondeva una profonda umanità. Il suo non era attaccamento egoistico al trono: era viceversa, rigido attaccamento ai doveri e alle prerogative inerenti al mestiere di re, che gli impediva, ad esempio, di accordare eccessiva confidenza al principe ereditario. Quando, dopo avere abdicato, partì per l’esilio, il nostro commiato non uscì dai binari del cerimoniale. Avvertii in lui una più palese timidezza, compresi che aveva, di fronte al re suo figlio, lo stesso rispetto che fino a poco tempo prima avevo io davanti a lui: un timoroso rispetto che, badi, non andava alla persona, ma al la tremenda responsabilità che il ruolo comportava. Eppure, mi creda… ».
Si interrompe bruscamente, si alza e fa qualche passo in direzione della veranda, esita ancora un attimo e poi, vincendo una certa riluttanza, mi dice: « Un piccolo episodio insignificante può farle intendere… Fu dopo il referendum, dopo che avevo lasciato l’Italia… appena fu possibile mi recai in Egitto a visitare mio padre. Mi accolse, ruvido e accigliato, con una stretta di mano. Mi chiese con tono impersonale se avevo fatto buon viaggio. Poi a un tratto mi fissò bene in viso, lo vidi pallido e turbato. Balbettò: “Ora che… non c’è più ragione … … Non finì la frase: con impeto mi abbracciò, premendo la fronte contro il petto, scosso da un singhiozzo breve e aspro. Per la prima e ultima volta in vita mia sentii fra le braccia quel piccolo uomo, così fragile e vecchio, così solo e orgoglioso. Fu un attimo: si staccò bruscamente, indispettito per quella debolezza. Si allontanò borbottando qualcosa che solo in parte compresi: ” Due ex re, insieme, in esilio tutti e due… un caso raro per una dinastia, una bella coincidenza… “. Non disse altro, riacquistò tutto il suo abituale controllo: fu forse l’unica volta che tentò, in mia presenza, una facezia, sia pure dì sapore amaro: non amava le facezie, non aveva il senso dell’umorismo ».
Umberto è di nuovo seduto al tavolo di lavoro, dice con tono sbrigativo: « Non divaghiamo, riprendiamo pure l’argomento che le interessa ».
« Ammettiamo – gli chiedo che il tribunale della storia possa assolvere il re, almeno per insufficienza di prove, per i fatti del 1922. Ma come giudicare il suo comportamento nella seconda metà del 1924, dopo il delitto Matteotti? ».
« Mi limiterò – risponde Umberto – a fare delle considerazioni personali, non pretendo di esprimere giudizi, quando si tratta di valutare col senno di poi azioni e conseguenze. Io ritengo che la data chiave, nella storia del fascismo, non sia il 28 ottobre 1922, ma il 10 giugno 1924. Quel giorno accadde il tragico evento che doveva, io penso, determinare la svolta decisiva per la sorte di Mussolini e del fascismo, del parlamento democratico, del paese, dell’istituto monarchico. Io credo che soltanto nella seconda metà del 1924 Mussolini, per incalzare di eventi, abbia accolto in sé l’idea della dittatura. Egli fu uomo ambizioso, ma non freddamente ardimentoso: la paura di perdere quel che aveva acquistato di prestigio e di popolarità fu l’ossessione di tutta la sua vita, la causa dei suoi errori incredibili, dei suoi repentini e illogici mutamenti di rotta. La dittatura, nei primi tempi della sua ascesa politica, gli incuteva spavento: sapeva che è un gioco d’azzardo nel quale basta un colpo sfortunato per perdere tutto irrimediabilmente. Non amava il gioco d’azzardo, anche se talvolta, dibattuto fra ambizione e smarrimento, si ficcava nel rischio avventato di una grossa puntata o tentava un plateale bluff. In realtà la sua segreta speranza, fino a un certo momento, fu di essere accolto al tavolo dell’onesto e pacifico gioco democratico, nel quale le benemerenze acquisite nei periodi di fortuna politica non si sperperano in un sol colpo ».
« Eppure – osservo – questo giocatore di scopone, aveva in precedenza, dato prova di essere anche un giocatore di poker, capace cioè di bluffare. Come mai suo padre non se ne accorse? ».
« Consideriamo – risponde Umberto – il comportamento di Mussolini dopo le elezioni dell’aprile 1924: ormai ha una solida maggioranza in parlamento, la partita non può essere che sua, sarebbe, il momento migliore per lanciare il gioco forte della dittatura. Nel 1922, quando aveva in parlamento uno sparuto gruppetto di deputati fascisti, 47 in tutto, tentò il bluff della marcia su Roma, il bluff del discorso tracotante dell’aula sorda e grigia. Ma nel 1924 si ritrova in parlamento con una maggioranza assoluta di 374 deputati. Il 7 giugno pronunciò alla Camera un discorso che fu un atto di umiltà e di fede nei principi democratici».
«Ma mentiva! ».
«Può darsi. Ma tutto faceva credere il contrario. Rivolgendosi direttamente all’opposizione disse che per governare non aveva bisogno dei suoi voti, ma per governare bene aveva bisogno della sua collaborazione vigilante e critica, più che del plauso della maggioranza, poiché non presumeva di essere infallibile. I suoi avversari, da Amendola a Turati, da Giolitti a don Sturzo, giudicarono onesto e rassicurante quel discorso; ci fu chi lo giudicò preoccupante, ma fra i deputati fascisti. Mussolini sembrava ansioso di eliminare gli strumenti della dittatura. “Dovrò trovare un’altra occupazione per te perché il gran consiglio sarà sciolto, disse a Giunta che ne era segretario generale. Con Balbo si consultò sull’opportunità di sciogliere la milizia o almeno di incorporarla nell’esercito. Diramò ordini severi per stroncare ovunque le illegalità squadriste: destituì prefetti che avevano chiuso un occhio sulle malefatte delle camicie nere. Vagheggiava un governo di “pacificazione nazionale” con uomini di ogni partito, dai socialisti ai liberali, dai cattolici ai nazionalisti. Fece sapere in via ufficiosa al sovrano che aveva già in pectore una lista di ministri: il socialista D’Aragona al lavoro, Amendola all’istruzione, un popolare, Meda o De Gasperi, alla giustizia eccetera. A Giunta confidò che aveva in mente il socialista Zaniboni per gli interni e aggiunse: “E’ un valoroso, più volte decorato in guerra, anche il re sarà contento”. Questo accadeva nei primi giorni del giugno 1924. Il 10 giugno fu assassinato Matteotti: e fu quel tragico evento, io credo, che mutò il destino d’Italia ».
Il paese fu percorso da un brivido di sgomento e di orrore. Mussolini sembrò sinceramente sconvolto, e in parlamento affermò: “Soltanto un nemico che da lunghe notti avesse meditato qualcosa di diabolico contro di me, poteva compiere questo delitto che ci percuote di orrore”. Promise che i colpevoli sarebbero stati inesorabilmente colpiti. I cinque esecutori materiali furono arrestati, infatti, pochi giorni dopo: più tardi la stessa sorte toccò a due gerarchi di primissimo piano, Rossi e Marinelli, sospettati d’essere i mandanti.
Questo non placò i gruppi di opposizione (socialisti liberali, popolari, comunisti, repubblicani eccetera) che decisero di abbandonare il parlamento e di non partecipare più ai lavori fino a quando fosse rimasto in carica il governo Mussolini: fu un’azione senza precedenti nella storia parlamentare (con riferimento alla storia romana qualcuno la definì “ritirata sull’Aventino”). Certo scaturì da nobile impulso la decisione di dare battaglia a oltranza al governo Mussolini dopo il delitto Matteotti: ma il sistema adottato, fuori di ogni consuetudine, non fu felice, anche molti aventiniani, alla fine, lo riconobbero. Erano partiti con molto ottimismo: si pensava che l’esilio sarebbe durato pochi giorni, poi Mussolini, sotto il peso della “questione morale”, sarebbe caduto, e con lui il fascismo. Purtroppo non fu così: passavano i mesi e la politica italiana stagnava nelle acque morte di una situazione assurda, il governo non sapeva che pesci pigliare, gli aventiniani benché ormai consapevoli della sterilità dell’azione intrapresa, non volevano o non potevano fare marcia indietro, mentre nel paese si riaccendeva 1a sopita violenza. Alcuni aventiniani esercitarono pressioni sul re, perché sbrogliasse lui la faccenda, liquidando Mussolini con un intervento di autorità. Il re non volle agire in tal senso. Molti, perciò, lo tennero, poi responsabile dello sfacelo del parlamento democratico.
Domando: « Dopo il delitto Matteotti, il re non avrebbe potuto licenziare Mussolini d’autorità? ».
« Sì – dice Umberto – penso che nella seconda metà dei 1924 il re avrebbe potuto, con un atto di. forza, liquidare Mussolini. Lui stesso ebbe momenti di sconforto in cui apparve ai suoi collaboratori “smarrito e barcollante come se la responsabilità del governo fosse ormai un peso insostenibile”. In dicembre, mentre la stampa democratica continuava a reclamare le sue dimissioni, egli dichiarò in, Senato: “Se S.M., al termine di questa seduta, mi chiamasse e mi dicesse che devo andarmene, mi metterei sull’attenti e obbedirei: dico S.M. il Re Vittorio Emanuele III, ma quando si tratta di S.M. il ‘Corriere della Sera’ allora no”. Certo non è da credere che fosse proprio così docile e rassegnato alla volontà del sovrano: fu senza dubbio un suo ennesimo bluff. Tuttavia ritengo che se il re, a un certo momento, gli avesse chiesto bruscamente le dimissioni, le avrebbe ottenute senza troppa difficoltà. Mio padre non ritenne di doverlo fare. Libero ognuno di giudicare se ciò fu giusto o sbagliato, se fu il peggio o il meno peggio. Io mi limiterò a ricordare che non esistevano le premesse costituzionali per creare una crisi di governo in quel momento. Il governo Mussolini era sostenuto da una larga maggioranza parlamentare, democraticamente eletta. Solo i gruppi di opposizione, esigua minoranza, ne chiedevano le dimissioni (che l’opposizione chieda – e non ottenga le dimissioni del governo in carica è un fatto che non suscita particolare emozione) motivate da una accusa di responsabilità specifica del governo Mussolini nel delitto Matteotti: accusa, però, non provata. E’ da notare, poi, che proprio gli oppositori, i quali chiedevano con insistenza l’intervento del re, si erano posti fuori della legittimità costituzionale, avevano dimostrato di tenere, in spregio le funzioni dei parlamento, abbandonandolo proprio in quel momento drammatico, quando la battaglia parlamentare avrebbe assunto enorme importanza e fornito elementi dì valutazione all’opinione pubblica. Alle pressioni degli aventiniani il re rispondeva: ” Tornate in parlamento, esprimete un voto, e anche se sarà di minoranza se ne terrà il giusto conto: ma se le vostre ragioni me le venite a urlare sotto la finestra, io sono sordo” ».
« La legittimità costituzionale – replico – è il leitmotiv che ricorre sempre nelle decisioni di Vittorio Emanuele III. Ma dopo il giugno 1924 anche molti che, fino a quel momento, avevano considerato con fiducia il fascismo, cominciarono a nutrire serie apprensioni: una occasione migliore per liquidare la dittatura, forse non si sarebbe mai più presentata. Non valeva la pena di agire anche a costo di un piccolo strappo nella prassi costi tuzionale? ».
«Non so cosa avrebbe risposto mio padre al quale ripugnava il solo pensiero che da un arbitrio possa venire il bene del paese – risponde Umberto – e che un’azione rigorosamente legale possa recare infamia e sventura. Io ho voluto fermare l’attenzione sullo insanabile contrasto esistente tra l’azione o meglio la non azione degli aventiniani e la legittimità costituzionale, perché questo è l’unico elemento concreto, in via di diritto, che si possa portare a difesa del re, per quanto riguarda il 1924 ».
« Ma lei ha ammesso che il re, nella seconda metà del 1924, poteva liquidare d’autorità Mussolini! ».
« Sì, ma non ho detto e non me la sento di dire che avrebbe potuto liquidare anche il fascismo! Mussolini, per quanto una simile affermazione, oggi, possa apparire paradossale, se non addirittura provocatoria, per tutto il 1924 fu ancora, o almeno si poté pensare che fosse… sì, il più efficace baluardo in difesa della legalità e libertà democratica ».
« Quale libertà? ».
« Per lo meno la libertà dalla paura di un ritorno dello squadrismo, della violenza…
Mussolini nominò ministro dell’interno il nazionalista Federzoni, il quale ordinò subito ai prefetti (e sostituì tutti quelli che non furono solleciti nell’esecuzione) di considerare i fascisti, qualunque benemerenza potessero vantare, cittadini come gli altri, vietando loro, non solo di trasgredire la legge, ma anche di imporre il rispetto al prossimo sostituendosi alle autorità. Era, in pratica, la fine di un privilegio dello squadrismo, fondamentale e largamente sfruttato. Le disposizioni di Federzoni suscitarono malumore, in tutta Italia, fra gli squadristi della prima ora. Tre mesi dopo il delitto Matteotti, nel settembre, un sovversivo uccise su un tram di Roma il deputato fascista Casalini. Da tutta Italia gli squadristi telegrafarono al duce chiedendo “libertà di azione per vendicare il caduto”. Ma Mussolini e Federzoni ordinarono a tutti “silenzio e mani in tasca “, minacciando di punire duramente ogni atto di rappresaglia. A Roma si riunirono tremila fascisti decisi a “ripulire ” il quartiere Tiburtino, considerato un covo di sovversivi. Federzoni si precipitò sul posto e arrestò il corteo dichiarando che per proseguire bisognava passare sul suo corpo. Qua e là per l’Italia diversi fascisti che disciplinatamente avevano accolto l’ordine delle “mani in tasca”, subirono aggressioni e pestaggi da parte di elementi sovversivi. Ma ben presto i fascisti tolsero le mani di tasca e attuarono rappresaglie. Lo squadrismo cominciava a rivoltar contro Mussolini. I ras periferici reclamavano e si prendevano maggiore autorità. Farinacci, il più bellicoso di tutti, lanciava un ultimatum al capo del governo, scrivendo sul suo giornale: “Prima che i fascisti si vedano costretti ad agire, come sanno e vogliono, agire, per fare piazza pulita nel paese, provveda lo Stato se può, a mettere in galera i sovversivi, a sopprimere la stampa avversaria, a porre fin, alla farsa dell’Aventino: se non basterà la scopa si dovrà usare la mitragliatrice” ».
« E invece Mussolini – prosegue Umberto – continuava con slancio democratico o sottile ipocrisia che fosse, a cercare la comprensione degli aventiniani e per meritarsela non esitò a colpire qualche gerarca fra i più autorevoli. Costrinse Balbo a dimettersi da comandante della milizia, quando la stampa di opposizione pubblicò una lettera che egli aveva mandato, molti mesi prima, a un camerata ferrarese, raccomandandogli di “bastonare senza esagerare ma fino a convincersi della necessità igienica di cambiare aria e trasferirsi in altra provincia “, certi sovversivi assolti in un processo per l’uccisione di quattro fascisti. E fu Mussolini a esigere che le dimissioni di Giunta da vicepresidente della Camera, quando egli si trovò sotto accusa per l’aggressione ai danni di un antifascista, fossero accettate dal parlamento che avrebbe voluto respingerle. In dicembre i fascisti toscani, esasperati per 1a tolleranza del duce verso gli avversari e la sua intransigenza verso i camerati “, votarono un ordine del giorno per “riaffermare ” la fedeltà al duce, ma condizionando obbedienza e disciplina a un’azione decisa del governo e se necessario a un’azione dittatoriale”. Era un’aperta minaccia di ammutinamento. Gli episodi del genere si moltiplicavano di giorno in giorno. A Roma, durante una riunione di capi della milizia, un deputato fascista, Edoardo Torre, se ben ricordo, propose di imitare i pretoriani romani e destituire il duce, liquidandolo con un colpo di rivoltella se avesse opposto resistenza. A questo si giunse sul finire del 1924. Questo era lo stato d’animo di moltissimi squadristi, i più sfegatati, che ormai consideravano Farinacci il loro capo effettivo e scalpitavano ansiosi di fare con lui la seconda marcia su Roma: “e questa volta sul serio”, aggiungevano. Vede? Io ho detto che il re, sul finire del 1924, avrebbe potuto, senza troppe difficoltà, licenziare Mussolini, forse senza nemmeno suscitare reazioni di particolare ampiezza e violenza da parte dei fascisti, molti dei quali erano pronti a seguire con rinnovato entusiasmo un duce più deciso con gli avversari e più riconoscente coi vecchi camerati. Licenziare Mussolini: ma sarebbe stato, per ciò che si poteva prevedere, in quel momento, un bene o un male? Non c’era pericolo che un uomo più violento e pericoloso di Mussolini (di come appariva allora Mussolini) salisse al vertice del potere, questa volta sì mediante la guerra civile? ».
« Certo – osservo – questa perplessità dovrà sorgere, a rigore di logica, considerando i fatti che lei ha citato. Eppure, che devo dire?, io non riesco a immaginare un Farinacci che per vent’anni tiene in pugno la dittatura e riesce a combinare tanti disastri».
« Ha perfettamente ragione: io stesso sono convinto che un Farinacci non sarebbe giunto, non poteva giungere, dove giunse Mussolini. E qui, anzi credo che mio padre abbia commesso un errore di valutazione psicologica. Io penso che mio padre, nel 1924, ritenesse calamità maggiore lasciare il paese in balia di un Farinacci, che nelle mani di Mussolini. Ma Farinaccí era uno sfegatato impulsivo e di modesta intelligenza. Mussolini, al contrario, era un megalomane apprensivo. Non amava il gioco d’azzardo: ma per il semplice fatto che la paura di perdere era in lui, sia pure di poco, più forte dell’avidità di vincere. L’errore di mio padre, forse, fu di non intuire che giocatori di questo tipo, se finiscono fra le grinfie di qualche biscazziere, se cominciano a giocare, sia che vincano, sia che perdano, non smettono più: il demone del gioco si impadronisce veramente di loro, dopo aver vinto una somma, presi da facile euforia, vogliono raddoppiarla, triplicarla. E se perdono un colpo, presi dal panico e da una gelida furia, tentano e ritentano ancora, commettendo errori madornali, E questo, purtroppo, accadde a Mussolini, che nel 1924 aveva ancora paura del gioco d’azzardo. Comunque, fra gli aventiniani che agivano fuori della legalità costituzionale. Mussolini che andava affermando con apparente sincerità, “preferiamo fare le vittime che gli assassini “, e Farinacci, il quale, viceversa, voleva usare la mitragliatrice per levarsi di torno i fastidiosi deputati di opposizione, lei che avrebbe fatto, al posto del re, nella seconda metà del 1924? ».
« Per carità – rispondo vorrei chiedergli: … E lei?, ma poi mi trattengo) – sono ben felice di non essere stato il re, nel 1924, né in un altro momento qualsiasi. »
« E invece sa che fece mio padre. anche in quel frangente? Cercò, non sorrida, una soluzione capace di 1iberare il paese dalla dittatura nel rispetto della prassi costituzionale
Fra i 374 deputati della maggioranza (molti erano entrati nel listone come fiancheggiatori e non come fascisti militanti) si insinuarono, in quei mesi torbidi e amari, dubbi , crisi di coscienza. Uno dei deputati di tale gruppo, Massimo Rocca. a un certo momento fece sapere per vie indirette al sovrano che poteva controllare un gruppetto di almeno 50 o forse 70 dissidenti che all’occorrenza si sarebbero schierati coi deputati delle opposizioni, se fossero rientrati in parlamento per dare batta glia. Non era ancora una maggioranza capace di mettere in crisi il governo, ma avrebbe avuto lo stesso un enorme importanza, soprattutto psicologica: senza contare che dal
gruppo di maggioranza, dopo la prima, si sarebbero certo staccate altre frane.
« Il re usò ogni mezzo di cui disponeva per far sì che gli aventiniani rinunciassero alla loro sterile azione e tornassero in parlamento a dare battaglia Ma gli aventiniani non accolsero l’appello. Io non me la sento di esprimere giudizi. Ma ascoltiamo quello di Giolitti che di alchimie parlamentari se ne intendeva: ” L’antifascismo aveva forse in mano la carta decisiva per vincere la partita e doveva giocarla sul tavolo della opposizione democratica, anziché estrarre il coltello nelle risse di osteria”».
Comunque, sia il voto, sia il coltello, di lì a poco furono strumenti inservibili. Mussolini, dopo sei mesi di incertezza e sgomento, intimorito più dai suoi che dagli avversari, si decise e puntò tutto sulla dittatura. Il 3 gennaio 1925 pronunciò il discorso che segnò la svolta fatale. Disse fra l’altro che si assumeva personalmente la responsabilità di tutto quanto i camerati potessero avere commesso per necessità della rivoluzione. Poi vennero le leggi speciali: soppressione della stampa contraria al regime, scioglimento dei partiti, decadenza dei deputati aventiniani. Rien ne va plus.