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Interviste 65-83

AFFIDERO’ AGLI STORICI LA VERITÀ SULLA FINE DI UN REGNO (II parte)

By Dicembre 4, 2022Dicembre 12th, 2022No Comments
Re Umberto II nel suo salotto di Cascais, luglio 1972

Re Umberto II nel suo salotto di Cascais, luglio 1972

 

IL “POVERO OLIVIERI”

Con tatto, porto Umberto a parlarmi di se stesso. È impresa difficile, con un uomo così morbosamente modesto. Si schermisce con un tono di voce vagamente stupito: «Che cosa vuoi che interessi ancora la mia vita, oggi?».

Insisto con diplomazia, e lo vedo capitolare quasi subito, ma sento che è per pura cortesia.

«Mi alzo molto presto, la mattina: sette e mezzo, otto al più tardi. Forse dipende dall’educazione che ho ricevuto da giovane: in casa nostra erano intransigenti contro tutto ciò che potesse assomigliare alla pigrizia: “Un re”, diceva mio padre “deve dormire soltanto lo stretto necessario: le ore in più sono rubate alla patria”, Anche in esilio, anche lontano dall’Italia, continuo a seguire questa regola. Al mattino prendo una o due tazze di caffè molto forte, caffè all’italiana. I medici non me lo raccomanderebbero, ma è l’unico piacere al quale credo che non rinuncerò mai. Verso le nove lascio “Villa Italia” per la passeggiata con il povero Olivieri… ».

Il “povero Olivieri” è il conte Olivieri, che è al servizio di Umberto fin dalle prime ore del suo esilio, un vecchio signore con i suoi ottantasei anni carichi di fascino, estremamente distinto, piccoli baffi bianchi tagliati con cura e bei capelli candidi pettinati alla Novecento.

«Dico “il povero Olivieri” », mi spiega il Re « perché credo che non gli piaccia molto camminare. Ma è un uomo di corte all’antica, e non distingue tra i suoi desideri e i miei. È stato per tutta la vita segretario privato di mia madre, la regina Elena, dopo essere stato, da giovane, al servizio di mio nonno. Un uomo meravigliosamente fedele alla monarchia, quali se ne trovano due o tre in tutta Europa, non di più ».

Gli altri gentiluomini di “Villa Italia”, tra cui il conte Pianzola, sono molto più giovani del conte Olivieri, ma le loro incombenze li portano spesso lontano. Il “povero Olivieri” è invece l’amico di tutte le ore, il confidente, “l’ultimo grande fedele”.

Il Re continua: «Durante la passeggiata, che spesso dura un paio d’ore, non parliamo quasi mai: ormai Olivieri ed io ci siamo detti da un pezzo tutto quel che potevamo dirci. Io ne approfitto per dare ordine alle mie idee, per organizzarmi il lavoro della giornata. Tutti i giorni facciamo la stessa strada, sulla riva del mare. L’Atlantico è diverso ogni giorno… che dico, ogni ora. Io sono un patito del Me­diterraneo, ma soltanto in riva all’oceano sento l’esistenza di un Dio ordinatore di grandi mera­viglie… Questa passeggiata quo­tidiana è anche l’unico sport che mi è rimasto. In altri tempi, lo sai, io cavalcavo molto: in Ita­lia i Re devono assolutamente essere perfetti cavallerizzi, non foss’altro per posare convenien­temente per i monumenti eque­stri. Io non ho mai praticato né golf né tennis né pattinaggio. Mi piaceva il ballo, che, con cer­te donne, è anch’esso uno sport piuttosto violento, non ti pare? Ma queste sono cose passate, passate del tutto…».

Sorride in maniera indefinita, come ironizzando su se stesso, con un humour che, decisamen­te, non ha molto di italiano.

«Al ritorno dalla passeggia­ta, mi chiudo in biblioteca. Leg­go molto, moltissimo: tutto quel­lo che riguarda la storia, qual­che romanzo anche, non troppi, sufficienti per… per non perde­re il passo. Me ne mandano da tutte le parti: dall’Italia natural­mente, ma specialmente dal­l’America e dall’Inghilterra. Se non leggo, lavoro con i miei collaboratori. C’è sempre qualcu­no che viene a passare qualche giorno a “Villa Italia” per stu­diare le mie carte: sono quasi tutti storici, italiani, inglesi, americani… Raramente pranzo fuori: preferisco casa mia, con alcuni invitati, pochi».

SI RICORDANO DI ME

Al pomeriggio ricevo visite, come sto facendo adesso. Vengo­no molti italiani a trovarmi: è commovente (talvolta anzi scon­volgente) constatare quanti miei compatrioti mi conservano vivo nella loro memoria. Si tratta per la maggior parte di gente mol­to semplice, che viene a espri­mermi il suo attaccamento. Qual­che volta sono anche politici in carica: pochi, e tra questi alcu­ni vengono come scivolando lun­go i muri. Chi è in politica ci tiene a non compromettersi: far visita all’ex Re può essere con­troproducente, non ti pare? Bi­sogna capirli».

Nessuna amarezza nell’osser­vazione: solo una specie di compiacimento leggero, ironico, di un uomo che da molto tempo si è abituato a vivere a una certa altezza, al di sopra di tut­te le debolezze.

«Pensa, vengono a trovarmi anche dei preti, molti preti. An­che preti giovani, di quelli che oggi sono così a sinistra. Qual­che giorno fa è venuto a tro­varmi un prelato italiano. C’era­no con lui due preti che tra lo­ro parlavano spagnolo. Stringen­dogli la mano, domando a que­sti due: “Loro sono spagnoli? …”. Uno mi risponde con fierezza: “No, maestà: catalano”; e l’al­tro, con aria quasi offesa: “Io non sono spagnolo; almeno, non lo sono più: io sono basco”. Hai capito? Pensa un po’…».

Ha cessato di piovere, e il Re nel propone di fare quattro pas­si fuori. Il parco, inzuppato, af­foga nella notte, in un’atmosfe­ra di tristezza indicibile.

Approdato dell’oscurità per do­mandone «Maestà, che cos’è più amaro nell’esilio? ».

La risposta è evasiva: «Nella vita siamo tutti in esilio. Non sono specialista in materia».

«Ma il suo esilio non è come quello di tutti gli altri».

«Esilio dorato, sì. Vi sono esu­li molto poveri, che non parla­no la lingua del Paese che li ac­coglie; vi sono esuli per i quali morire in terra straniera è qua­si una maledizione. I musulma­ni, per esempio.

Mi sfugge di nuovo, mi scivo­la di mano. Contrattacco: « Qual­che rimpianto in particolare?».

Il Re rallenta il passo. Passano alcuni istanti prima che mi ri­sponda, come mormorando: «Sì».

«Quale, Maestà?».

«La mia terra, l’Italia».

Poi, improvvisamente, ride: di un riso velato, lontano.

«Oh, non credere che mi piac­ciano le grandi frasi. Di italiani che vivono dall’altra parte del globo ve ne sono centinaia di migliaia: lontani dalla loro pa­tria, nell’America del Sud, per esempio. Il loro esilio e il mio sono pieni degli stessi rimpian­ti. Non è la patria con la P maiuscola che ci manca; ci man­cano le piccole cose: l’odore di una strada che ci era familiare, il suono di una voce, di una cam­pana, la sirena di un porto, il sa­pore di quel cibo, certe grida di bambini… Insomma, tutto ciò che si chiama patria».

«Se non fosse così solo.. », in­sinuo.

GLI SMERALDI DEL RE

Mi interrompe con un gesto che indovino nel buio: «No, no: non si tratta di solitudine. Tut­t’altro: la solitudine, quando ci è cara, come nel mio caso, è per­fino di conforto. La peggiore so­litudine è quella di chi è circon­dato da persone amate che però hanno ricordi, e ancora più aspi­razioni, differenti dai tuoi».

Il dramma nascosto dell’ex Re d’Italia è in queste parole. Solo (anzi, abbandonato) fisicamen­te, ma ancor più moralmente. Per capirlo è sufficiente pensare un attimo agli altri membri del­la famiglia reale italiana, disper­si tra la Svizzera, la Francia e il Messico, a Vittorio Emanuele, che ha idee ben diverse da quel­le del padre sulla dinastia e sul suo avvenire. Si sa che Umberto ha preso in considerazione la eventualità di creare erede il du­ca Amedeo d’Aosta, nipote del “duca di ferro”, morto prigio­niero degli inglesi in Africa.

Nella notte, si ode lontana una voce che canta. A un centinaio di metri dal cancello del parco, proprio sopra il baratro della “Roca do Inferno”, una piccola trattoria prepara pasti econo­mici ai rari turisti di passaggio. Là, all’improvviso, qualcuno si è messo a cantare, accompagnato da una chitarra. È un canto la­mentoso, lugubre, disperato: un fado, il flamenco portoghese.

Al mio fianco, Umberto ha qua­si un sussulto. Mi confessa di es­sere un appassionato di queste arie. In Portogallo tutti sanno dell’amicizia che l’ha legato alla più grande interprete dei fados, Amalia Rodriguez. A un certo punto corsero anche voci, false, che Umberto avesse intenzione di sposarla.

Nelle serate di gala, quando cena a Tavares con il suo grande amico, Amalia Rodriguez porta alle orecchie due enormi sme­raldi di una purezza straordinaria. Dicono che glieli abbia of­ferti Umberto di Savoia. In tutto il Portogallo li chiamano “gli smeraldi del re”.

José Lois de Villalonga