IL “POVERO OLIVIERI”
Con tatto, porto Umberto a parlarmi di se stesso. È impresa difficile, con un uomo così morbosamente modesto. Si schermisce con un tono di voce vagamente stupito: «Che cosa vuoi che interessi ancora la mia vita, oggi?».
Insisto con diplomazia, e lo vedo capitolare quasi subito, ma sento che è per pura cortesia.
«Mi alzo molto presto, la mattina: sette e mezzo, otto al più tardi. Forse dipende dall’educazione che ho ricevuto da giovane: in casa nostra erano intransigenti contro tutto ciò che potesse assomigliare alla pigrizia: “Un re”, diceva mio padre “deve dormire soltanto lo stretto necessario: le ore in più sono rubate alla patria”, Anche in esilio, anche lontano dall’Italia, continuo a seguire questa regola. Al mattino prendo una o due tazze di caffè molto forte, caffè all’italiana. I medici non me lo raccomanderebbero, ma è l’unico piacere al quale credo che non rinuncerò mai. Verso le nove lascio “Villa Italia” per la passeggiata con il povero Olivieri… ».
Il “povero Olivieri” è il conte Olivieri, che è al servizio di Umberto fin dalle prime ore del suo esilio, un vecchio signore con i suoi ottantasei anni carichi di fascino, estremamente distinto, piccoli baffi bianchi tagliati con cura e bei capelli candidi pettinati alla Novecento.
«Dico “il povero Olivieri” », mi spiega il Re « perché credo che non gli piaccia molto camminare. Ma è un uomo di corte all’antica, e non distingue tra i suoi desideri e i miei. È stato per tutta la vita segretario privato di mia madre, la regina Elena, dopo essere stato, da giovane, al servizio di mio nonno. Un uomo meravigliosamente fedele alla monarchia, quali se ne trovano due o tre in tutta Europa, non di più ».
Gli altri gentiluomini di “Villa Italia”, tra cui il conte Pianzola, sono molto più giovani del conte Olivieri, ma le loro incombenze li portano spesso lontano. Il “povero Olivieri” è invece l’amico di tutte le ore, il confidente, “l’ultimo grande fedele”.
Il Re continua: «Durante la passeggiata, che spesso dura un paio d’ore, non parliamo quasi mai: ormai Olivieri ed io ci siamo detti da un pezzo tutto quel che potevamo dirci. Io ne approfitto per dare ordine alle mie idee, per organizzarmi il lavoro della giornata. Tutti i giorni facciamo la stessa strada, sulla riva del mare. L’Atlantico è diverso ogni giorno… che dico, ogni ora. Io sono un patito del Mediterraneo, ma soltanto in riva all’oceano sento l’esistenza di un Dio ordinatore di grandi meraviglie… Questa passeggiata quotidiana è anche l’unico sport che mi è rimasto. In altri tempi, lo sai, io cavalcavo molto: in Italia i Re devono assolutamente essere perfetti cavallerizzi, non foss’altro per posare convenientemente per i monumenti equestri. Io non ho mai praticato né golf né tennis né pattinaggio. Mi piaceva il ballo, che, con certe donne, è anch’esso uno sport piuttosto violento, non ti pare? Ma queste sono cose passate, passate del tutto…».
Sorride in maniera indefinita, come ironizzando su se stesso, con un humour che, decisamente, non ha molto di italiano.
«Al ritorno dalla passeggiata, mi chiudo in biblioteca. Leggo molto, moltissimo: tutto quello che riguarda la storia, qualche romanzo anche, non troppi, sufficienti per… per non perdere il passo. Me ne mandano da tutte le parti: dall’Italia naturalmente, ma specialmente dall’America e dall’Inghilterra. Se non leggo, lavoro con i miei collaboratori. C’è sempre qualcuno che viene a passare qualche giorno a “Villa Italia” per studiare le mie carte: sono quasi tutti storici, italiani, inglesi, americani… Raramente pranzo fuori: preferisco casa mia, con alcuni invitati, pochi».
SI RICORDANO DI ME
Al pomeriggio ricevo visite, come sto facendo adesso. Vengono molti italiani a trovarmi: è commovente (talvolta anzi sconvolgente) constatare quanti miei compatrioti mi conservano vivo nella loro memoria. Si tratta per la maggior parte di gente molto semplice, che viene a esprimermi il suo attaccamento. Qualche volta sono anche politici in carica: pochi, e tra questi alcuni vengono come scivolando lungo i muri. Chi è in politica ci tiene a non compromettersi: far visita all’ex Re può essere controproducente, non ti pare? Bisogna capirli».
Nessuna amarezza nell’osservazione: solo una specie di compiacimento leggero, ironico, di un uomo che da molto tempo si è abituato a vivere a una certa altezza, al di sopra di tutte le debolezze.
«Pensa, vengono a trovarmi anche dei preti, molti preti. Anche preti giovani, di quelli che oggi sono così a sinistra. Qualche giorno fa è venuto a trovarmi un prelato italiano. C’erano con lui due preti che tra loro parlavano spagnolo. Stringendogli la mano, domando a questi due: “Loro sono spagnoli? …”. Uno mi risponde con fierezza: “No, maestà: catalano”; e l’altro, con aria quasi offesa: “Io non sono spagnolo; almeno, non lo sono più: io sono basco”. Hai capito? Pensa un po’…».
Ha cessato di piovere, e il Re nel propone di fare quattro passi fuori. Il parco, inzuppato, affoga nella notte, in un’atmosfera di tristezza indicibile.
Approdato dell’oscurità per domandone «Maestà, che cos’è più amaro nell’esilio? ».
La risposta è evasiva: «Nella vita siamo tutti in esilio. Non sono specialista in materia».
«Ma il suo esilio non è come quello di tutti gli altri».
«Esilio dorato, sì. Vi sono esuli molto poveri, che non parlano la lingua del Paese che li accoglie; vi sono esuli per i quali morire in terra straniera è quasi una maledizione. I musulmani, per esempio.
Mi sfugge di nuovo, mi scivola di mano. Contrattacco: « Qualche rimpianto in particolare?».
Il Re rallenta il passo. Passano alcuni istanti prima che mi risponda, come mormorando: «Sì».
«Quale, Maestà?».
«La mia terra, l’Italia».
Poi, improvvisamente, ride: di un riso velato, lontano.
«Oh, non credere che mi piacciano le grandi frasi. Di italiani che vivono dall’altra parte del globo ve ne sono centinaia di migliaia: lontani dalla loro patria, nell’America del Sud, per esempio. Il loro esilio e il mio sono pieni degli stessi rimpianti. Non è la patria con la P maiuscola che ci manca; ci mancano le piccole cose: l’odore di una strada che ci era familiare, il suono di una voce, di una campana, la sirena di un porto, il sapore di quel cibo, certe grida di bambini… Insomma, tutto ciò che si chiama patria».
«Se non fosse così solo.. », insinuo.
GLI SMERALDI DEL RE
Mi interrompe con un gesto che indovino nel buio: «No, no: non si tratta di solitudine. Tutt’altro: la solitudine, quando ci è cara, come nel mio caso, è perfino di conforto. La peggiore solitudine è quella di chi è circondato da persone amate che però hanno ricordi, e ancora più aspirazioni, differenti dai tuoi».
Il dramma nascosto dell’ex Re d’Italia è in queste parole. Solo (anzi, abbandonato) fisicamente, ma ancor più moralmente. Per capirlo è sufficiente pensare un attimo agli altri membri della famiglia reale italiana, dispersi tra la Svizzera, la Francia e il Messico, a Vittorio Emanuele, che ha idee ben diverse da quelle del padre sulla dinastia e sul suo avvenire. Si sa che Umberto ha preso in considerazione la eventualità di creare erede il duca Amedeo d’Aosta, nipote del “duca di ferro”, morto prigioniero degli inglesi in Africa.
Nella notte, si ode lontana una voce che canta. A un centinaio di metri dal cancello del parco, proprio sopra il baratro della “Roca do Inferno”, una piccola trattoria prepara pasti economici ai rari turisti di passaggio. Là, all’improvviso, qualcuno si è messo a cantare, accompagnato da una chitarra. È un canto lamentoso, lugubre, disperato: un fado, il flamenco portoghese.
Al mio fianco, Umberto ha quasi un sussulto. Mi confessa di essere un appassionato di queste arie. In Portogallo tutti sanno dell’amicizia che l’ha legato alla più grande interprete dei fados, Amalia Rodriguez. A un certo punto corsero anche voci, false, che Umberto avesse intenzione di sposarla.
Nelle serate di gala, quando cena a Tavares con il suo grande amico, Amalia Rodriguez porta alle orecchie due enormi smeraldi di una purezza straordinaria. Dicono che glieli abbia offerti Umberto di Savoia. In tutto il Portogallo li chiamano “gli smeraldi del re”.
José Lois de Villalonga