Fece il contrario di ciò che aveva scritto
*Mussolini tolse il comando supremo al Re per non esporlo, gli disse, a contatti spiacevoli con un alleato che si era dimostrato tutt’altro che rispettoso nelle forme
*Umberto risponde alla domanda: perchè Mussolini volle, e il Sovrano accettò, entrare in guerra quattro anni prima?
*La maggior parte degli errori commessi nell’economia della guerra italiana fu dovuta alle decisioni Mussolini
Leggo a Umberto una frase che Mussolini scrisse nel corso della prima guerra mondiale, anzi prima ancora che 1a nostra guerra fosse iniziata. La frase è questa: «In caso di guerra si deve lasciare la più ampia libertà allo Stato Maggiore; gli avvocati che fanno la politica dovranno tacere, perché si perdono tutte le guerre durante le quali esiste una rivalità fra l’autorità Politica e l’autorità militare».
Umberto osserva: «Era un ottimo proposito: peccato che non se ne sia poi ricordato… Fu un modo abbastanza ingenuo quello di risolvere no possibile dualismo trasformandosi in militare. Bastava lasciare che il Re svolgesse la sua naturale funzione: dopotutto un Re di Casa Savoia aveva precedenti piuttosto notevoli in famiglia… ».
La nomina di Mussolini a comandante supremo per delega del Re non è un argomento piacevole per Umberto di Savoia, poiché tutta la famiglia reale fu colpita da quel provvedimento che, all’inizio della guerra, toglieva per la prima volta nella storia il comando degli eserciti a un Re di Casa Savoia. Il Sovrano resistette dapprima alle pressioni di Mussolini, ma infine dovette cedere dinanzi alle obiezioni che Mussolini, con l’aiuto di Badoglio, faceva, e che vertevano quasi esclusivamente sulla necessità di non esporre la persona di Vittorio Emanuele III a contatti spiacevoli con un alleato tutt’altro che rispettoso delle forme.
Esprimo il parere che Mussolini abbia voluto assumere il comando supremo non perché avesse vanità di stratega, ma perché non si fidava di Badoglio e di altri generali. Umberto consente con questa opinione ma non ammette che per evitare, un pericolo personale fosse messa a repentaglio l’efficienza delle Forze Armate, che difatti ne scapitò in modo gravissimo. L’accentramento delle decisioni a Roma annullava le migliori qualità dei comandanti che erano in loco, specialmente quelle degli ammiragli in mare, cui per tradizione sarebbe spettata la più assoluta autonomia. Lo Stato Maggiore dell’Esercito, che poteva avere anche delle manchevolezze, tuttavia non poté dare prova delle sue capacità per il fatto che Mussolini avocava a sé tutte le decisioni: il che, a lungo andare, generò negli alti comandanti sottoposti a simile sistema una specie di atonia. Ciò, rileva Umberto, non appartiene più all’arte militare, appartiene… alla psicologia. Egli ritiene d’altra parte che i maggiori danni siano venuti alla nostra condotta di guerra dal conformismo esagerato di molti, che pur di non cadere in disgrazia presso Mussolini gli davano sempre ragione.
A proposito della iniziale condotta di guerra, Umberto aggiunge però che «talvolta si trattò di errori che tali appaiono per essere andato fiuto a rovescio, ma che in quel momento sembravano provvedimenti saggi e opportuni. Se si dà per ammesso che tutto in quel momento faceva prevedere una guerra che da parte nostra si limitava ad essere una azione dimostrativa, si comprende subito, anche, che essendo mancato il gran colpo ne venne fuori un guazzabuglio di azioni e controazioni spesso illogiche ».
«Perché – domando – Mussolini volle, e il Sovrano accettò, entrare in guerra quattro anni prima? Forse che il patto d’acciaio non premetteva che l’Italia non poteva essere pronta che per il 1944?»
«Mussolini – risponde Umberto – temeva che, lasciando vincere da sola la Germania, sarebbe rimasto in stato di eccessiva inferiorità riguardo a quell’alleato che, in fondo, egli non amava e del quale aveva in certo senso timore: non bisogna dimenticare che, pur essendo cordiali e quasi amichevoli i rapporti fra i due capi, non altrettanto cordiali erano i rapporti con gli alti gerarchi nazisti, in special modo con Goering, Goebbels, Ribbentrop e, in genere con gli esponenti militari tedeschi. Scomparso Hitler, la Germania ci avrebbe mostrato una faccia ben altrimenti ostile.
Queste considerazioni, nel parere di Umberto, avrebbero influito decisamente sull’azione di Mussolini.
«Perché il Re non pretese da Mussolini che convocasse il Gran Consiglio prima di decidere la guerra? Per l’impresa etiopica il Gran Consiglio era stato consultato, ed era stato più volte riunito in seguito per tenerlo al corrente della situazione».
Non diede ascolto
A questa domanda, Umberto risponde dicendosi non della stessa opinione. Aggiunge, però, che Vittorio Emanuele III fece lo stesso rilievo a Mussolini, come per invitarlo a dividere la enorme responsabilità con un organo che era il maggiore del regime; ma Mussolini non diede ascolto fornendo una spiegazione plausibile: cioè che il Gran Consiglio era un organo consultivo per i problemi di carattere costituzionale, e che non aveva competenza sui problemi che si riferivano all’attività del governo. Inoltre Mussolini riteneva che la decisione fosse urgente e nel tempo stesso chiaramente indicata da tutte le precedenti decisioni del Gran Consiglio sugli avvenimenti che avevano portato a quella conclusione: una diversa politica avrebbe dovuto essere impostata fin dal 1936, o al massimo sin dal 1938, dopo Monaco, quando eventualmente il Gran Consiglio avrebbe potuto stabilire una linea di neutralità indefettibile. Ormai le cose erano al punto che all’Italia si presentava una occasione «unica nella storia» (sono parole di Mussolini) per allinearsi con la Germania.
D’altra parte – osserva Umberto – se Vittorio Emanuele III avesse proprio in quel momento tentato di togliere l’iniziativa a Mussolini, a parte che tutta l’opinione pubblica era ormai presa nell’euforia della facile sicura vittoria, quale sarebbe stata la nostra posizione rispetto alla Germania? Peggiore che dopo l’8 settembre: in poche settimane l’Italia sarebbe stata invasa e devastata.
Il Gran Consiglio avrebbe potuto modificare le decisioni di Mussolini, anticipando il 25 luglio 1943? Umberto lo esclude decisamente. E’ vero che nel Gran Consiglio le figure più eminenti erano avverse alla guerra, ma a un tipo di guerra quale poi effettivamente fu, non a quel tipo di guerra che pareva dovessimo fare nel giugno 1940. Umberto sa benissimo che specialmente Balbo, Ciano, Grandi, Da Vecchi, Bottai e altri erano contrari ad una guerra a tu per tu con l’Inghilterra e la Francia, per ovvie ragioni; ma in quel momento anch’essi dovevano essere persuasi che più che entrare in guerra noi andavamo a prender parte ad un finale di guerra.
Se fosse stato appena possibile immaginare che le cose in seguito sarebbero cosi radicalmente mutate, non solo i1 Sovrano, almeno così ritiene Umberto, non solo il Gran Consiglio, ma lo stesso Mussolini avrebbe escogitato un mezzo per evitare la trappola mortale d’una guerra di distruzione. Così come stavano le cose, l’acqua doveva continuare a scendere per quella valle.
«L’Italia – osservo- cavalcava la tigre!»
Umberto annuisce e prosegue: «Guidare una nazione non è la stessa cosa che guidar un’automobile, che si può fermare quando si vuole e da cui si può scendere quando si vuole. Un complesso di circostanze, in cui prevalse più 1a volontà ostile di altri che 1a volontà attiva del governo italiano, ci aveva portati su quella macchina sulla quale si doveva restare volenti o nolenti ».
«Tuttavia – noto -con scarsa convinzione – noi da quella macchina siamo scesi tre anni dopo e anzi ci siamo schierati dalla parte opposta».
Umberto scuote il capo, come sempre quando gli si dice qualcosa che evidentemente non gli pare esatto.
Hitler è indeciso
«Altri tempi – dice – e altra situazione. In queste cose non possono valere le considerazioni moralistiche dei rapporti privati: non vi è nulla al di sopra degli interessi della nazione, e del resto non si può parlare da nessuno di machiavellismo più o meno deteriore, poiché pressappoco tutti i re e tutti i governi di qualsiasi paese hanno obbedito al precetto ciceroniano: “Salus populi suprema lex esto”. I mutamenti di fronte non sono una specialità italiana, e ben lo seppe il mio glorioso antenato principe Eugenio, che si vide abbandonare sul campo da Marlborough avendo improvvisamente il governo di Londra mutato alleanza. La stessa Polonia, per la cui difesa l’Inghilterra diede l’inizio alla guerra, fu poi abbandonata dall’Inghilterra. Non si governa facendo del romanticismo, ma sfruttando le opportunità migliori per giovare alla propria nazione. Nel 1940 dovevamo entrare in guerra per giovare all’avvenire della nazione; nel 1943 dovevamo uscire per lo stesso motivo dalla guerra e dall’alleanza. Il problema che si presenta a chi ha responsabilità della guida d’una nazione é esclusivamente problema di scelta di tempo e di utilità: chi facesse diversamente finirebbe per nuocere alla propria nazione ».
Ricordo che Hitler disse, dopo l’8 settembre, che egli non aveva voluto e nemmeno desiderato che l’Italia entrasse in guerra.
Umberto dice che le parole che Hitler pronunziò non rispondevano al vero, in quanto la sua diplomazia aveva lavorato in senso ben diverso. Anche se era evidente che l’Esercito italiano non era in grado di svolgere funzioni di rottura, erano tuttavia preziose le truppe italiane per il compito di tenere occupati i sempre più vasti territori che andava conquistando, ed erano preziosissime me le basi mediterranee italiane, nonché quelle africane. Inoltre l’entrata in azione della Marina italiana, di poderosa efficienza, facilitava il progettato sbarco in Inghilterra, che altrimenti se fosse stata presente tutta la flotta britannica, Hitler non avrebbe nemmeno osato progettare. Le parole sprezzanti di Hitler, pronunziate «ab irato», non hanno quindi che un valore di ritorsione, in quanto il peso effettivo dell’intervento italiano fu considerevole direttamente e indirettamente.
Umberto è del parere che quando il progettato sbarco in Inghilterra venne rinviato «sine die», anche Mussolini dovette comprendere che la guerra sarebbe stata lunga e penosa. Con questo Umberto spiega lo strano congedamento di classi (1914, 1915 e 1916) ordinato da Mussolini il 2 ottobre 1940: egli aveva compreso che stava per chiedere gravi sacrifici alla nazione, e con quel provvedimento mirava a dare un po’ d’ossigeno all’opinione pubblica, che cominciava ad allarmarsi. Può darsi, anche, che con quel congedo di circa mezzo milione di uomini Mussolini volesse mostrare agli avversari che non aveva altro da chiedere, come per una larvata avance di pace, che nessuno finse di rilevare. Certo per Mussolini l’esitazione di Hitler al momento cruciale fu un colpo gravissimo: egli si era mosso per bagnarsi i piedi, e si trovava invece in pieno mare e con l’acqua al collo. Intanto, quel provvedimento, che lo Stato Maggiore aveva ostacolato più che aveva potuto, complicò i già asfittici servizi di Intendenza e tutte le Unità interessate: il che fu danno molto maggiore del modesto risultato psicologico che Mussolini si riprometteva.
«Ma era davvero imprevedibile che la guerra durasse molto più a lungo?»
Prendendo lo spunto da questa domanda, Umberto nega che si possano giudicare gli avvenimenti presi uno a uno, a meno che non si voglia fare dell’analisi storica a fini didattici. Tutto il periodo storico va preso nel suo insieme, poiché quel che avvenne il giorno della fine, era già in germe il primo giorno, si può dire, del Ventennio.
Umberto giunge persino a una conclusione che può stupire, e cioè che – a parte il regime speciale esistente – gli avvenimenti del periodo avrebbero preso una piega simile anche con un governo tipo Giolitti, per non dire tipo Crispi. La base di tutto quel che avvenne si trova nella nostra politica per l’Etiopia, e quel primo passo che compì Mussolini nel 1924, riallacciando l’azione del governo italiano a quella del tempo del trattato di Uccialli, sarebbe stato fatto con la stessa intenzione da qualsiasi altro governo italiano democratico. Un solo «se» Umberto accetta come base di discussione (la storia fatta di «se» gli riesce particolarmente spiacevole, la giudica un inutile esercizio dialettico) ed è questo: «se» la Gran Bretagna avesse rispettato fin dal 1925 lo spirito e la lettera dell’accordo del 1906, non ci sarebbe stato bisogno della guerra del 1935 e non si sarebbe verificata la catena di guerre marginali, che condusse alla guerra mondiale. L’unico «se » riguarda la condotta inglese.
«Che la guerra potesse diventare molto lunga si poteva temere», non «pensare». L’impensabile che determinò un diverso indirizzo della guerra, fu la volubilità e l’imperizia di Hitler. Umberto a questo punto torna alla frase citata all’inizio, scritta da Mussolini nel 1915 a proposito di interferenze politiche nella condotta militare della guerra: non v’è dubbio che la maggior parte degli errori commessi nell’economia della guerra italiana sia stata dovuta a decisioni avventate di Mussolini, che vedeva le cose militari con occhio di dilettante, sia pure molto intelligente. Lo stesso avveniva in Germania, con l’aggravante che Hitler aveva meno intelligenza di Mussolini e un carattere ancor più insofferente di altra volontà che non fosse la sua. Non ci si improvvisa strateghi a cinquant’anni, e non si può pensare di guidare eserciti immensi con la stessa disinvoltura con cui si comanda una squadra di fanti.
Quasi tutte le operazioni che non ebbero successo furono ordinate a scopo politico da Mussolini, che nel tempo stesso era capo del governo e comandante supremo delegato, al quale perciò era ben difficile muovere appunti. Mussolini dava ordini come capo militare supremo commettendo lo stesso errore che aveva rimproverato a Cadorna nel 1916 «spezzare i reticolati con i denti… ». Infatti, la stessa cosa era chiedere che la fede sostituisse la potenza materiale», quando gli avversari disponevano di carri armati pesanti, invulnerabili per i nostri cannoni anticarro. Le truppe italiane, questo non lo negarono né gli astiosi avversari né il difficile alleato, seppero combattere con un valore inaudito, supplendo in limiti superiori alle possibilità umane alla mancanza o alla scarsezza di armamento.
Il piano originale
«Sarebbe niente altro che una esercitazione infantile – commenta Umberto – il voler dire oggi, a tavolino, mentre tutto il mondo sta sotto l’incubo d’una nuova guerra, come si doveva combattere la seconda guerra mondiale. Sono esercitazioni che possono essere utili forse, in una accademia militare: benché l’esame più utile sia quello che prende in considerazione gli errori che non si dovevano commettere, anziché quel che si sarebbe dovuto fare. Quel che si sarebbe dovuto fare lo si sa oggi troppo facilmente: invece, purtroppo, quel che non si doveva fare lo si sapeva già da prima».
Quali erano gli errori in partenza? Tutte quelle azioni o iniziative che tendevano a, ottenere scopi puramente di prestigio politico, ma che erano causa di dispersione di forze o di gravi perdite senza alcun valido corrispettivo.
Nei nostri colloqui l’esame cade adesso sulla prima azione di guerra, di cui il Principe ereditario fu protagonista sul fronte delle Alpi occidentali, quale comandante del Gruppo Armate Ovest.
«Secondo i calcoli che mi fece vedere un colonnello dello Stato Maggiore – osservo – nel caso che si fosse riusciti a varcare la cortina difensiva alpina e a penetrare profondamente nel versante francese, non più di 40.000 uomini avrebbero potuto essere alimentati di viveri e munizioni secondo le esigenze della guerra del tempo e secondo la portata delle strade esistenti; perché mai il Gruppo di Amate Ovest disponeva di 300 mila uomini, quando poi non esistevano nemmeno le munizioni sufficienti per una seria azione anche di una sola Armata delle due in azione?»
Umberto scuote nuovamente il capo: non vi era alcuna seria probabilità di riuscire a perforare la cortina difensiva francese, anzitutto; e l’azione doveva consistere nel tenere impegnate le truppe francesi e nel prendere possesso di qualche lembo di terra. Il piano originale, d’altronde, non prevedeva l’offensiva, ma un’attenta e operosa difensiva che tenesse bloccate quante più forze francesi fosse possibile. Di fronte a questo programma, anche la scarsità di munizioni disponibili specialmente nella 1° Armata (schierata tra Monte Granero e il mare) aveva un’importanza molto relativa. Né la situazione divenne peggiore quando, il 14 giugno, giunse inopinata da Roma la disposizione di procedere a piccole azioni offensive, «allo scopo di agganciare truppe avversarie e mantenere alto lo spirito aggressivo delle nostre»; inoltre si ordinava al Gruppo di Armate di osservare attivamente la situazione, tenendosi pronto a sfruttare eventuali cedimenti improvvisi del fronte francese (in dipendenza di quanto avveniva sul fronte principale nella Francia centro-settentrionale).
Fu direttiva originale del Comando del Gruppo di Armate la disposizione, emanata la notte del 16 giugno, di trasformare nel miglior modo possibile lo schieramento da difensivo a offensivo, predisponendo operazioni offensive sulle direttrici del Col della Maddalena, del Piccolo San Bernardo e sul litorale: disposizioni consigliate dalle notizie che pervenivano circa lo sviluppo dell’offensiva tedesca in Francia, che facevano logicamente ritenere imminente il crollo della Francia stessa, come difatti avvenne. Nel pomeriggio del 17 giugno l’Alto Comando si faceva vivo ordinando che «si mantenesse viva sull’avversario la pressione, per evitare che potesse ripiegare a nostra insaputa». Il che era già stato disposto dal Comando del Gruppo di Amate Ovest da almeno dodici ore.
Il colpo di scena avvenne il 20 giugno, ad esercito francese polverizzato dai tedeschi: l’Alto Comando, cioè Mussolini, ordinava al Gruppo di Amate Ovest di passare addirittura all’attacco in massa su tutto il fronte alpino! Secondo i calcoli degli uffici competenti dello Stato Maggiore, una operazione del genere avrebbe richiesto non meno di 25 giorni per essere eseguita! Lo stesso Mussolini, successivamente, dovette riconoscere che gli uffici non avevano torto: infatti, nella notte del 20 una nuova disposizione ordinava che l’attacco in forze avvenisse soltanto in direzione del Piccolo San Bernardo, dove già le truppe avevano serrato sotto e i servizi d’Intendenza, al coperto della catena alpina, avevano potuto predisporre buone riserve di munizioni e di viveri.
Destino volle che proprio fra il 20 e il 24 giugno imperversasse sul Piccolo San Bernardo una vera e propria tormenta, il che spiega in parte perché vi furono tanti con,gelati fra le truppe che in fretta e furia erano state portate dalla calura di fondo valle al sottozero del passo. Non é il caso – nel pensiero di Umberto – di esaminare quelle operazioni sotto il profilo di operazioni normali: si trattò di fare presto e il meglio che si poteva, l’unica considerazione che valesse essendo il fattore tempo. Naturalmente non tutta la macchina funzionò alla perfezione, si direbbe «per mancanza di pezzi di meccanismo»: il servizio sanitario non aveva potuto essere predisposto che al 75 per cento del previsto fabbisogno, e le ambulanze erano soltanto il 50 per cento del richiesto, e in verità si fecero autentiche acrobazie per riuscire ad ottenere un servizio al 100 per 100 dove si presumeva che ve ne fosse urgente necessità».
«Ogni tentativo di critica – dice Umberto – si spunta contro la premessa: noi non dovevamo tentare lo sfondamento della barriera alpina francese, ma soltanto tenere impegnate le truppe colà dislocate e facilitare le operazioni che gli alleati tedeschi stavano svolgendo sul fronte principale, nel cuore stesso della Francia».
Passiamo ora a esaminare i successivi fatti della guerra: campagna di Grecia, campagna di Sidi Barrani, campagna del Somaliland, campagna di Russia, campagna di El Alamein. In tutte queste operazioni vi è stata una costante, questa: ad ogni azione iniziata per ragioni politiche, ad un successo iniziale sfruttato a fini di propaganda, ha fatto seguito uno scacco doloroso e irrimediabile.