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Mussolini e il Re mio padre di Silvio Maurano

Mussolini e il Re mio padre – di Silvio Maurano – 4

By Dicembre 28, 2019Gennaio 24th, 2022No Comments

 

L’Italia in Etiopia

 

* Se l’impresa d’Etiopia fu una colpa, di essa casa Savoia porta con fierezza la sua parte di responsabilità. Tuttavia di colpa, ora, non si può più parlare

* L’Inghilterra nel 1935 non poté capire che l’Italia offriva una definitiva alleanza contro la tanto temuta rinascita tedesca

* Era inevitabile il patto con la Germania? Dall’altra parte ci andavano chiudendo sempre più palesemente le porte in faccia

«L’impresa d’Etiopia non è di quelle da classificare fra gli errori o le colpe di Mussolini o della Corona. Essa è stata niente altro che il felice, per allora, coronamento d’una iniziativa che l’Italia unita aveva preso a svolgere molti decenni prima, sotto la guida di governi democratici, della sinistra democratica, anzi ».

Con queste parole Umberto mi espone il suo punto di vista sulla campagna d’Etiopia. In quell’occasione l’accordo fra Corona e governo fu completo, come mai dopo i tempi di Crispi. A Vittorio Emanuele III fu risparmiata l’amarezza che subì il suo genitore, Umberto I, che dové improvvisare. un discorso di vibrante saluto alle truppe che si imbarcavano a Napoli per l’Eritrea, ad insaputa e a dispetto dei suoi ministri. L’episodio viene così narrato da Umberto:«Il 29 febbraio del 1896 partivano da Napoli i rinforzi di truppe, quei rinforzi che malauguratamente Baratieri non attese, poiché il primo marzo dava battaglia ad Adua. Il Re mio nonno si recò al porto e disse brevi e infiammate parole ai soldati. Erano presenti Crispi e il ministro Mocenni, i quali, sorpresi, si chiesero scambievolmente chi avesse preparato quel discorso. Lo aveva improvvisato il Re mio nonno, visto che i ministri non ci avevano pensato! ».

«Se l’impresa di Etiopia fu una colpa», sostiene Umberto, «di questa colpa Casa Savoia porta fieramente la sua parte di responsabilità! Ma colpa non è stata e coloro che oggi parlano di «mancato adeguamento della politica ai mezzi di cui si dispone» vivono fuori della realtà e della storia». Umberto così prosegue: «Se la storia fosse scritta secondo i principi del calcolo prudenziale esclusivo, l’impero del mondo non sarebbe toccato a Roma, che era povera, ma all’Etruria che era molto più ricca, e poi a Cartagine che era ancor più ricca. Similmente, la Gran Bretagna avrebbe dovuto piegarsi alla supremazia dell’allora ricchissima Spagna nel ‘600; e via di seguito. La storia è stata scritta, invece, dai popoli che hanno forza di ascesa a danno dei popoli che decadono, e nessuno potrebbe sostenere seriamente che l’Italia del 1935 non fosse una nazione in ascesa. Se poi si imposta la discussione sul piano moralistico, credo che non valga la pena di proseguire; non si è mai saputo che una nazione abbia progredito nel mondo servendosi soltanto della Bibbia, tranne il caso, tutt’altro che infrequente, in cui la Bibbia sia stata utilizzata per mascherare i cannoni. Sul piano del diritto non è lecito applicare la massima del “fate quel che dico, non fate quel che faccio”: e coloro che facevano la predica all’Italia avevano abbondantemente peccato contro i cosiddetti diritti dei popoli, facevano del colonialismo anche schiavista, ciò che non era certo nel costume italiano. Si dica invece che si tentò d’impedire all’Italia di sottrarsi in parte all’egemonia economica altrui, e si dirà la verità. Naturalmente, ciò giustifica completamente la azione dell’Italia e del suo governo di allora! ».

I «vecchi peccatori»

«Uno storico britannico» – osservo – scrisse: « La monarchia italiana tollerò il compiersi d’una impresa di sopraffazione ai danni di un pacifico popolo africano ».

A queste parole Umberto, dopo aver fatto dell’ironia sui «vecchi peccatori convertiti alla virtù dopo avere abbondantemente fruito dei vantaggi del peccato commesso», prende dal tavolo un foglietto sul quale aveva buttato giù degli appunti, e incomincia a leggere a mezza voce: « Lord Salisburv dichiarò nel 1879: ” L’occupazione di Cipro fu una conseguenza della politica tradizionale che da lungo tempo svolge il governo inglese. Quando l’Europa si interessò ai conflitti che sconvolgevano la Spagna l’Inghilterra occupò Gibilterra. Quando l’Europa s’interessò ai conflitti che sconvolgevano l’Italia, l’Inghilterra occupò Malta. Ed ora che l’Europa dirige la sua attenzione sull’Asia minore e sull’Egitto, l’Inghilterra occupa Cipro”. Mi sembra chiaro, no? Ma vediamo, tuttavia, di non esagerare in senso polemico: guardando le cose da un punto esterno alla vicenda, si vedrebbe che le ragioni dell’Inghilterra, allora, pur non essendo buone e valide per noi, erano validissime per l’Inghilterra stessa. In fondo, chi ha raggiunto il dominio del mondo non può desiderare che, altri salgano verso la stessa sommità in età egli si trova. Resta da vedere se e come la cosa fosse conveniente nell’interesse stesso dell’Inghilterra e ne riparleremo più avanti, per vedere come e quanto il calcolo del governo inglese del tempo fosse pericolosamente sbagliato. Un altro episodio da ricordare: il 6 febbraio 1937 sì riunì a Londra la conferenza dei vescovi anglicani; sa che cosa ne venne fuori? Su proposta del vescovo di Londra fu stabilito che “i pacifisti sono il vero pericolo per la pace mondiale”. Questo disse il vescovo Winnington-Ingram; pochi anni prima lo aveva detto anche Mussolini, e da tutti i pulpiti anglicani lo avevano vituperato come “uomo di Satana”. Come vede, la verità puritana ha sempre due facce come la luna! ».

Nel pensiero di Umberto la vicenda ebbe inizio nel 1935 ed ebbe come corollario la guerra del 1939, così come la guerra del 1914 ebbe il suo germe nell’annessione della Bosnia voluta dall’Austria nel 1908. Sarebbe stato necessario che l’Italia avesse maggiori possibilità di manovra in campo internazionale, in quel momento, per evitare quello che successe poi. Bastava che gli interessi inglesi in quel momento fossero più elastici, e che l’Inghilterra, invece di aggrapparsi al formalismo umanitario della Società delle Nazioni, facesse appello all’accordo tripartito, anglo-franco-italiano, del 1906, che le garantiva certi diritti in una zona marginale dell’Etiopia, quella per intenderci che era percorsa dal Nilo Azzurro.
Perché l’Inghilterra non considerò il vigore quel trattato e nemmeno il più recente accordo del dicembre 1925, che aveva ribadito i diritti italiani sull’Etiopia? Era, certo, mutata la situazione politica e psicologica dell’elettorato inglese: ma ciò non basta a giustificare una così patente – e disastrosa nelle sue lontane conseguenze – violazione di un trattato internazionale. E, d’altra parte, non si ha il diritto di imporre la fine del gioco quando sì ha vinto più di quanto si desidera, per impedire che altri vincano la loro parte. L’improvviso scoppio di puritanesimo filoetiopico in Inghilterra nel 1935 potrebbe far sorridere se non avesse prodotto conseguenze di tale gravità.

«Ma se l’Italia avesse avuto la possibilità di offrire un mezzo di scambio all’Inghilterra – domando – non avrebbero forse mutato parere anche i puritani? »
Umberto risponde che il mezzo di scambio che l’Italia offriva sarebbe apparso grandissimo a chiunque avesse avuto capacità di antivedere: l’Italia offriva nientemeno che la sua definitiva alleanza contro la temuta rinascita germanica.
Piuttosto Umberto si chiede se Mussolini non abbia allora esagerato in ottimismo, spingendo a fondo senza cautelarsi abbastanza e fidando in un «poi» che viceversa gli fu ostile. Il calcolo di Mussolini avrebbe potuto anche essere giusto – a parte qualche eccessiva bruschezza che si poteva anche evitare – se al potere in Inghilterra si fossero trovati uomini di calibro di un Churchill, e non uomini troppo giovani e troppo ansiosi di far rapida carriera. Il caso di Eden è tipico; nella storia egli passerà per essere stato l’uomo di governo inglese che, per aver voluto chiudere il canale di Suez all’Italia nel 1935, provocò una situazione tale che venti anni dopo il canale era chiuso all’Inghilterra.

Il libro di Badoglio

Nelle parole di Umberto non vi è mai animosità verso l’Inghilterra e gli inglesi. Egli Parla serenamente di una situazione particolare, e considera che nella colossale partita che fu giocata negli ultimi trent’anni gli inglesi abbiano fatto uso di una politica tutt’altro che lungimirante, poiché li ha condotti proprio al tramonto di quell’Impero che essi intendevano difendere. Non soltanto Eden vide male nell’avvenire, ma tutta la classe politica inglese che era al potere. Quella classe dirigente non ebbe nemmeno il sospetto, forse per carenza di fantasia, che così facendo spingeva per forza l’Italia verso la Germania.
«La nostra preparazione diplomatica fu adeguata? Facemmo il necessario – domando – per placare o tacitare l’ostilità patente dei maggiori paesi europei? »

Umberto scuote il capo dicendo che era stato fatto quasi tutto quanto era possibile fare, e che mancò solamente una certa – duttilità nelle trattative; ma questa mancanza di duttilità era nel carattere di Mussolini, e quindi era insanabile. D’altra parte la coalizione degli interessi «negativi» era talmente forte che non ci rimanevano molte altre alternative oltre quella d’abbandonare addirittura l’impresa, che era anche la nostra ultima speranza di pacifico sviluppo. Umberto non vuole approfondire, però, la questione se il governo italiano ebbe la necessaria prudenza nello svolgere le trattative. Egli dice che la realtà è ormai consacrata alla storia, e che in ogni trattativa diplomatica si deve tener conto delle due o più volontà in lizza. Naturalmente, si dovrebbe sempre agire con guanti di velluto: ma non sempre ciò è possibile, e la storia è piena di ribellioni poco diplomatiche di illustri personaggi posti dinanzi a situazioni insolubili.
A proposito dell’impresa militare, parlo del famoso libro di Badoglio in cui era raccontata la campagna in Africa orientale, e osservo che in quel libro il Maresciallo incensava a piene mani Mussolini, al quale attribuiva – con una insistenza che poteva anche apparire ironica – il merito di tutte le decisioni strategiche più importanti. Umberto sorride e fa un gesto come per allontanare un ricordo sgradevole. Quindi dice: « In realtà in Africa orientale le forze armate ebbero un collaudo molto importante, anche se talvolta severo, specialmente per i “quadri” e per gli ufficiali superiori. Malgrado qualche vanteria apparsa in seguito, Mussolini non poté che far finta di comandare un esercito, che in realtà era molto ben controllato dai comandanti naturali ».

«Taluni critici – osservo – affermarono che Mussolini sperperò in Etiopia mezzi che poi gli mancarono nella guerra europea. »

Se vi è qualcosa che dia noia a Umberto è proprio questo voler giudicare la storia in base a quello che avvenne dopo. E’ certo che se Carlo Alberto non avesse combattuto nel 1848-49 non avrebbe avuto le sconfitte di Custoza e di Novara; ma senza quelle sconfitte non ci sarebbero poi state Pastrengo e San Martino, né ci sarebbero state le annessioni del 1859-60  né ci sarebbe stata l’Italia. Ogni fatto deve essere considerato – secondo Umberto – come parte di una catena di avvenimenti: e, caso mai, si può dire che i nostri fatti » del 1935-36 appartennero – e non lo potevamo sapere- alla catena degli avvenimenti che riguardano, da lontano, la lotta russa-americana per la egemonia mondiale. Noi eravamo protagonisti in un settore, ma nell’insieme il gioco era ben altrimenti colossale, e nell’economia di questo gioco mondiale ben poco potevano pesare le dieci o quindicimila mitragliatrici da noi consumate per la campagna d’Etiopia. Noi non ci eravamo accorti, osserva Umberto, di quel che avveniva nel mondo più vasto, e ci baloccavamo col nostro Mediterraneo, limitandoci a leggere i divertenti libri di fantastrategia del Bywater su presumibili guerre nel Pacifico…In realtà la politica mondiale stava per essere dominata da tre forze gigantesche che in quel tempo si stavano gonfiando i muscoli: l’imperialismo volpino di Stalin, il rivincismo folle di Hitler, l’imperialismo economico americano, pronto a sostituire l’Europa nella stessa Europa. Noi giocavamo ai soldatini di piombo…

Come assediato

Andato a monte, per volontà inglese, il «gentlemen’s agreement» del 2 gennaio 1937 col quale l’Inghilterra riconosceva di fatto il nuovo impero, e ritrovatasi l’Italia in Spagna contro inglesi e francesi nell’interesse dei quali era andata a combattere – domando – era evitabile l’alleanza con la Germania?

Umberto, in verità, è alquanto perplesso circa la possibilità di adottare una diversa e migliore politica, dato che dall’altra parte ci chiudevano sempre più ostentatamente le porte in faccia. Egli vede con particolare serietà la situazione interna, che dopo il 1936 divenne insopportabile. La mania di grandezza aveva colto non solo Mussolini ma anche molti dei suoi maggiori collaboratori, poiché non una voce si levò ad ammonire contro i pericoli dell’inasprimento della dittatura. Di quel periodo Umberto conserva un ricordo sgradevole. Fu il periodo dei pennacchi, delle adunate a comando, dei trionfi di Mardocheo, e anche della rinascita, sotto altra forma di un certo repubblicanesimo tendenziale che questa volta si vestiva di bonaria tolleranza verso la Corona. I giornali avevano ricevuto l’ordine di non scrivere , più «Principe ereditario» – ma « Principe di Piemonte»…I giornali minimizzavano  le fauste ricorrenze di casa Savoia. Umberto parla di queste cose con il solito distacco, sorridendo solo quando racconta un curioso episodio capitatogli nell’inverno 1931-32 a San Candido di Pusteria. L’allora Principe ereditario aveva voluto assistere alle gare nazionali di sci per giovani fascisti ed era andato nella cittadina altoatesina, malgrado fosse un inverno eccezionale.
Era stata eretta una grande tribuna di legno, fornita di un  alto assito-paravento per proteggere alquanto dal freddo, faceva 17 gradi sotto zero, i personaggi che circondavano il Principe di Piemonte. Le gare furono lunghe, e l’attesa sul palco non era comoda né piacevole, per cui uno alla volta i personaggi illustri o non illustri sgattaiolarono via. Fra i giornalisti correva una specie di toto-scappa, si scommetteva cioè chi sarebbe stato il prossimo fuggiasco….Nel pieno delle gare si vide cosi il Principe ereditario rimasto solo nella tribuna, imperturbabile, in piedi dinanzi al parapetto. Si seppe poi che il prefetto, il federale di Bolzano e i loro amici erano andati in un noto albergo locale in ottima compagnia. La sera qualcuno si finse sorpreso quando seppe che il Principe ereditario, anziché presenziare alla festa predisposta dopo le gare, se n’era andato in una non lontana villa di proprietà dell’allora conte Acquarone. A nessuno dei gerarchi locali, nemmeno al prefetto Marziali, che tuttavia era persona intelligente e cortese, era balenata l’idea di avere commesso una enorme mancanza di riguardo verso il Principe, il quale aveva sopportato senza battere ciglio l’ondata di freddo per onorare una manifestazione dei giovani.

Rifacendomi al periodo che seguì immediatamente la conquista della Etiopia, osservo che Vittorio Emanuele III era come assediato nel Quirinale e che una scintilla sarebbe bastata per provocare una situazione di impossibile convivenza. Umberto ascolta e annuisce gravemente. Anche se corregge: il Re non era assediato nel Quirinale: era soltanto messo nella impossibilità di agire in modo diverso da come voleva Mussolini. Ci volle tutto il tatto – malgrado la profonda amarezza – del vecchio Sovrano per evitare una rottura clamorosa; per cui Vittorio Emanuele ritenne sufficiente la deferenza formale che Mussolini continuava a dimostrargli e non gravò mai la mano nell’esaminare la situazione, di cui Mussolini più che mai pretese di avere l’esclusiva responsabilità. E colmo dell’amarezza fu per il Sovrano il dover ospitare nel Quirinale il capo tedesco, quell’Hitler che non aveva mai nascosto la sua antipatia per il Re d’Italia e che sollecitava Mussolini con la solita, grazia dell’elefante, a  «disfarsi di quell’inutile Re ».

A proposito del soggiorno di Hitler nel palazzo del Quirinale, dico a Umberto che a suo tempo si sparsero voci di incidenti verificatisi fra HitIer e il Cerimoniere di servizio, ma che non si seppe mai nulla di preciso al riguardo. Umberto pare sorpreso, riflette un momento, poi dice: «No, guardi, credo che si sia trattato di una delle tante voci che circolavano per Roma in quei tempi. Non mi risulta che vi siano stati incidenti del genere: del resto, in Quirinale, sarebbe stato assurdo che avvenissero. Non ci fu cordialità, questo è naturale, né sarebbe stato facile che ve ne fosse per infinite ragioni. Il servizio d’informazioni della Real Casa sapeva benissimo che proprio all’arrivo a Roma Hitler aveva detto a Mussolini, e la cosa era stata rimbalzata fra i maggiori gerarchi, che “venendo in Italia si sentiva soffocato dal protocollo monarchico, mentre preferiva i contatti diretti con Mussolini, che riteneva il vero capo dello Stato italiano”. La cosa era stata risaputa nelle alte sfere del Quirinale, ma naturalmente non vi fu nessuna reazione. Le ” gaffes ” bisogna lasciarle maturare in chi le commette! So che poi Hitler si dolse perché il contegno del Re mio padre era stato sempre molto riservato; ma aveva torto, in quanto ciò non dipendeva da valutazioni personali, ma era frutto del naturale riserbo del Re mio padre, il quale aveva tenuto lo stesso atteggiamento anche con un autentico imperatore, con Guglielmo Il, nelle varie occasioni in cui ebbe a incontrarlo. Particolarmente Guglielmo II si mostrò, irritato per il riserbo del Re mio padre durante la sua venuta in Italia – fatta di sua iniziativa, fra l’altro – nel marzo-aprile del 1904.

Parlava sempre lui

«Che Hitler si ritenesse a suo agio con Mussolini e a disagio al Quirinale non stupisce: sarebbe stupefacente il contrario. D’altronde Hitler aveva tutte le qualità negative che irritavano il Re mio padre: specialmente quella sua abitudine di voler parlare sempre lui… ».
Un momento davvero difficile venne con l’accettazione da parte del fascismo delle teorie razziali, che arrivavano in Italia come un frutto esotico e fuori di ogni sensibilità nostra. Al Quirinale la campagna antiebraica fu accolta quasi con sgomento: non era nelle tradizioni di casa Savoia la persecuzione religiosa, né tanto meno la persecuzione razziale. Il Sovrano fece tutto il possibile per indurre Mussolini a tenere su un piano soltanto polemico la questione razziale, che veniva imposta da HitIer. Certo si deve all’intervento del Sovrano se generali e ammiragli ebrei non furono oltraggiati.

Si dice oggi, a proposito di tutta la situazione che stava evolvendo allora, che il Re « avrebbe dovuto ….Che cosa avrebbe dovuto fare? Interpretare il pensiero «successivo » di coloro che in quel momento erano plaudenti e non dissenzienti? Non è detto, del resto, che Vittorio Emanuele III si fosse adagiato nella inerzia: fino al luglio 1943 continuò palesemente, tenacemente la sua azione di moderatore, in attesa di un movimento ben chiaro e potente di opinione pubblica, o di una «rivolta di palazzo», fascista. Scrutava attentamente, il vecchio Re, la situazione, pronto a cogliere il momento in cui Mussolini cessasse di essere portato dalla maggioranza dell’opinione pubblica », il che era la condizione essenziale perché il Re potesse prendere una decisione in nome della nazione, e non in nome di una parte.
Molti italiani speravano, ancora in Mussolini, speravano ch’egli riuscisse a manovrare in modo da avere tutti i vantaggi dalla guerra altrui, che egli cioè sapesse vincere senza combattere.
Era ovviamente un’assurdità, e lo dice chiaramente Umberto, in quanto Mussolini, volente o nolente, per forza di cose era ormai entrato in ma combinazione che non gli lasciava molta libertà d’azione. Il timone era passato nelle mani di Hitler, le cui azioni erano impreved