Incomincia la dittatura
*Perchè Vittorio Emanuele III, pur sollecitato con energia da Amendola, non volle intervenire contro Mussolini all’indomani dell’assassinio di Matteotti
*Mussolini tenne del tutto all’oscuro il Re del discorso che egli avrebbe pronunciato alla Camera il 3 gennaio 1925; Vittorio Emanuele se la prese a male e protestò con lui
*I rapporti tra il Re e Mussolini furono poi sempre ottimi; il dittatore, continuava a subire fortemente il fascino del Sovrano; quel che guastava la buona armonia fra i due era l’azione che il partito fascista voleva attuare
*L’articolo della legge istitutiva del Gran Consiglio del fascismo, che riguardava la successione al Trono, non era affatto diretto contro la mia persona, come tanti credettero
Sin dai primi tempi del fascismo venne a Umberto la nomea di “Principe antifascista”. Gli venne perché non si dava nessuna cura di nascondere il fastidio che gli davano alcuni gruppi di estremisti che circondavano Mussolini, che bramavano perpetuare la “marcia” e che affettavano di preparare la “seconda ondata”. Umberto – quando ricordo queste cose – protesta: non era né fascista né antifascista; seguiva con l’interesse relativo per la sua giovane età gli avvenimenti; aveva la sensazione che al Quirinale si approvassero con molta soddisfazione le opere che compiva il governo; ma trovava deteriori e pericolose quelle sopravvivenze di spiriti barricadieri, quel culto di una superata illegalità, quel «marattismo» grottesco di taluni eroi di dopo la battaglia. La riservatezza sorridente del Principe non celava alcun pensiero machiavellico: era la riservatezza naturale delle persone del suo rango. Ma ciò non garbava agli scamiciati, che avrebbero forse voluto che il Principe si mescolasse con loro, distribuisse casermesche manate sulle spalle e magari si lasciasse imporre il fez nero… Purtroppo, la diffidenza di Umberto non era senza fondamento: e i fatti che seguirono ne confermarono la giustezza. Si venne, infatti, nel 1924, al delitto Matteotti, che maturò proprio in quegli ambienti di estremisti. A proposito della crisi del 1924, che minacciò di travolgere Mussolini e il fascismo, Umberto mi dice: «Non si comprende come mai gli uomini continuino a ricorrere al delitto politico credendo di risolvere posizioni storiche. Viceversa, da tutti i delitti politici scaturiscono, di norma, frutti contrari a quelli sperati: l’uccisione di Cesare non reintegrò la democrazia ma accelerò la sua fine, preparando l’avvento di Augusto e anche quello di Tiberio e di Nerone. Il delitto Matteotti conferma questa regola costante: non giovò all’estremismo fascista, e fece perdere a Mussolini una possibilità che, se si fosse verificata, gli avrebbe apportato una fortuna imperitura! I cattivi servitori sono più pericolosi dei dichiarati nemici. Come vede, fu proprio il “marattismo ” che diede una pugnalata alle spalle di Mussolini…»
Riforma graduale
Qual era la possibilità cui accenna Umberto? Quella cui mirava da tempo Mussolini, da quando cioè aveva incominciato a lavorare segretamente per attirare verso il governo alcuni capi socialisti, di quelli che maggiormente stimava, quali D’Aragona e forse anche Turati. Nel suo discorso alla Camera, il 7 giugno 1924, egli d’altronde aveva rivolto un appello ai socialisti alla collaborazione.
«So di queste cose – dice Umberto, – dirò che non sarei stato affatto scandalizzato se Mussolini fosse riuscito a realizzare il suo progetto, che avrebbe dato una ben diversa svolta alla sorti dell’Italia. Né si sarebbe scandalizzato il Re mio padre, al quale la parola “socialismo” intesa sul piano costituzionale, non faceva certamente paura. L’entrata del socialisti nel governo fascista sarebbe stata di grandissimo beneficio alle masse dei lavoratori, che non sarebbero state più sfruttate sul piano politico a scopi rivoluzionari, ed avrebbero avuto invece riconosciuta la loro qualità di protagonisti della vita economica alla pari con gli imprenditori. Ritengo che Mussolini in quel periodo avesse rinunciato tranne che a scopi retorici, alla “rivoluzione” e tendesse a realizzare una riforma cauta e graduale per non mettere in crisi la nostra economia che si stava appena riprendendo. Purtroppo, come lei sa, non tutti coloro che gli erano intorno avevano la sua stessa opinione…»
Poiché si é venuti a parlare del delitto Matteotti e della crisi politica che ne scaturì quando il 27 giugno 1924, 133 deputati socialisti, radicali, democratici e cattolici uscirono da Montecitorio, rimanendovi solo i liberali raggruppati intorno a Giolitti, Orlando e Salandra, riferisco a Umberto un mio ricordo personale. A quel tempo pur essendo redattore del giornale L’Impero, continuavo a dare una mano da segretario a mio zio, l’on Andrea Torre. Ebbi cosi la possibilità di assistere a parecchie riunioni che si tenevano nella casa di mio zio in via Muzio Clementi: era sempre Giovanni Amendola che vi si recava, accompagnato a volte dall’on Ruini o dal generale Bencivenga o da altri del gruppo. Dallo studio udivo a tratti le voci eccitate dei «cospiratori», che tentavano invano di convincere mio zio a passare sull’Aventino. Parlavano di società segrete, di gruppi d’azione, di uomini «votati alla morte». Fui addirittura presente il giorno che Amendola venne da mio zio, di ritorno dal Quirinale, e si scagliò con parole roventi contro il Re che – diceva – «rifiutava di prendere atto della gravità della questione morale e si rendeva complice di Mussolini ».
A questo punto del mio racconto, Umberto ha un moto di protesta, e dice: «Non aveva il diritto di dire ciò. Egli ebbe più d’un colloquio col Re mio padre, e si ebbe sempre la medesima risposta: agissero nel Parlamento, provocassero in una delle due Camere un moto tale da consentire l’intervento della Corona. Ma non potevano sperare che il Sovrano partecipasse alla lotta politica, sarebbe stato inconcepibile! Non dovevano uscire dal Parlamento, che è la sola sede in cui i deputati possono parlare in nome della Nazione: fuori del Parlamento essi parlano in proprio. D’altra parte, anche volendo ammettere che la Corona fosse disposta a facilitare la riscossa dell’opposizione, non comprendo perché avrebbe dovuto farlo dal momento che era ben noto che in massima parte la opposizione preparava, una vera e propria insurrezione diretta non sola contro Mussolini, ma anche contro tutte le istituzioni, ivi compresa la Monarchia. Essi fecero appello al sentimento del Re: ma nell’esercizio della funzione di regnare, i sentimenti non hanno quasi un peso, contatto esclusivamente i fatti e le possibilità. Se la Corona non intervenne fu perché sapeva con esattezza che non esisteva una responsabilità diretta di Mussolini nel tragico caso. Se vi fosse stata, il Sovrano ne sarebbe stato informato sia dall’Arma che dalla Magistratura, che anche in regime di dittatura seppe mantenere una, posizione di dignitosissima indipendenza. Se la Magistratura avesse informato il Sovrano che esisteva – e non esisteva, come si è appreso nel corso del processo rifatto nel 1945 – una responsabilità di Mussolini quale mandante, il Re mio padre avrebbe saputo trovare il modo di risolvere la situazione».
Un tragico caso
Umberto ricorda poi il tragico caso del ministro Rosano. Nel 1903, il napoletano avvocato Rosano, deputato, fu nominato ministro nel gabinetto Giolitti; ma dopo soli otto giorni fu accusato dai giornali di sinistra di avere approfittato della sua posizione, di deputato prima e di ministro poi, per favorire alcuni malviventi napoletani che erano stati suoi clienti. Vittorio Emanuele III chiamò il Rosano e gli fece delicatamente comprendere che, per difendere il suo onore, gli era necessario privarsi della carica di ministro. Il Rosano si dimise andò a Napoli a raccogliere le prove della sua innocenza e poi si uccise con un colpo di pistola, seduto dinanzi alla sua scrivania. Fu un caso impressionante che destò nel Re un senso di irritazione contro certi sistemi di polemica malevola, per cui in avvenire fu molto attento a vagliare le accuse che gli uomini politici si scagliavano l’un contro l’altro.
«Il Re – domando a Umberto – conobbe in anticipo il testo del discorso che Mussolini pronunciò il 3 gennaio 1925 alla – Camera per annunziare le leggi che instauravano la dittatura?».
Umberto mi risponde che Vittorio Emanuele III non ebbe in visione il discorso o un abbozzo del discorso. Mussolini di proposito si astenne dal far conoscere al Re il tono dei discorso ch’egli avrebbe pronunciato: il che, dopo, fu causa di vivo malumore e di proteste del Sovrano. Mussolini aveva così agito per ripicca, perché prima di affrontare la Camera per la terza volta egli aveva chiesto, invano, al Re il decreto di scioglimento in bianco dei Parlamento.
«In realtà – prosegue Umberto – in politica avviene spesso che una azione ottenga il risultato opposto a, quello che si spera di ottenere. L’opposizione voleva annullare anche quel poco di dittatura che era in atto: ma la sua azione ha prodotto invece il rincrudimento della dittatura in forma quasi assoluta. Ho l’impressione che l’opinione pubblica, nella sua maggior parte, abbia accettato la decisione di Mussolini, che parve allora ispirata a fini apprezzabili. In sostanza, quella era una dittatura che si potrebbe dire “legale”, sul tipo di quella contemplata dalle leggi romane, almeno fino al II secolo avanti Cristo. Vi era un Parlamento liberamente eletto, e questo Parlamento approvò le leggi che vincolavano la libertà dei cittadini: vi era, naturalmente, il sottinteso che tali vincoli dovevano essere temporanei e non definitivi, perché allora non si sarebbe compreso come fosse possibile la convivenza fra una Corona costituzionale e un dittatore, che per suo carattere è una forma di “monarchia assoluta “».
«Il fatto della dittatura in sé, data la sua necessaria temporaneità, poteva essere meno grave se nel frattempo si fosse costituito il nuovo sistema e poi gli si fosse dato libero gioco. La dittatura secondo la tradizione romana aveva appunto il carattere di temporaneità e di limitazione negli scopi, presso a poco come i pieni poteri che un Parlamento democratico concede di tanto in tanto ai governi: ma la dittatura bene intesa può essere un bene, come un governo democratico male inteso, può essere un male! Quello che conta sono appunto i fini che si vuole raggiungere, e i mezzi che si adoperano allo scopo. Lo stato corporativo cui Mussolini diceva di mirare, oltre ad immettere effettivamente e non soltanto in apparenza tutte le classi operanti della società nella vita nazionale, aveva il vantaggio innegabile di portare i cittadini ad esprimere la loro opinione nell’ambiente ad essi meglio conosciuto; sicché il voto del cittadino diveniva un voto specifico e non più un voto generico. Naturalmente, occorreva arrivare al punto in cui i cittadini potessero votare nel nuovo ordinamento, e non più nel barocco sistema della votazione su lista unica, che aveva l’aspetto, ma solo l’aspetto, di un referendum popolare a risultato già scontato!».
«Quando Mussolini – dico a Umberto – istituì il Gran Consiglio nel 1928, si pensò che il nuovo organismo mirava a diminuire l’autorità del Sovrano e anche, per quel che si riferiva all’articolo sulla successione al Trono, a colpire la figura del Principe ereditario. Era esatto questo? ».
«Questa interpretazione non è giusta – risponde Umberto risolutamente. – Non era affatto un mistero negli ambienti competenti che fosse in elaborazione quella legge, che fu studiata sotto tutti gli aspetti possibili: se avesse rappresentato davvero lati men che rispettosi per la dignità del Trono, il Re mio padre non avrebbe mai apposto la sua firma! Si è detto che la legge fosse contro la mia persona, come si son dette tante altre cose futili: forse questa leggenda era accreditata da taluni che non avevano ancora dimenticato le origini di sinistra, non so, ma certamente si deve escludere che quella interpretazione fosse quella esatta. Del resto, al punto in cui erano giunte le cose, non ci sarebbe stato certo bisogno di un articolo di legge per fare quello che la dittatura avesse voluto fare. Osservi invece quanto prestigio si intendeva dare al Gran Consiglio chiamandolo a consultazione nel caso, e soltanto nel caso, che la successione fosse dubbia per mancanza di erede diretto o per evidente incapacità dell’erede esistente. Il Gran Consiglio, anche per quel fatto, assumeva l’aspetto e la funzione di supremo organo consultivo dello Stato. E un rilievo molto importante per quello che avvenne in seguito».
Non vi fu pertanto nessuna ragione che la legge del Gran Consiglio avesse a turbare i rapporti tra la Corona e Mussolini, che erano sempre ottimi. Mussolini subiva sempre fortemente il fascino del Sovrano, sempre pronto a moderare con una parola, accorta taluni impeti del dittatore e a farlo restare sulla via della legalità. Quel che guastava alquanto la buona armonia fra la Corona e la dittatura era l’azione del partito fascista, che cercava di controllare sempre di più tutti gli aspetti della vita nazionale e di annullare sempre più la personalità del cittadino.
Tutti contro Starace
«Ho seguito e seguo con molta attenzione – dice a questo punto Umberto – questa tendenza che tutti i partiti stanno prendendo, ad imitazione del partito comunista, per annullare la personalità degli iscritti nel nome collettivo. Mi sembra che la cosa stia diventando ossessiva per i poveri cittadini, che non vedono altra salvezza che di irreggimentarsi in una squadra o in un’altra, trovando dappertutto la stessa disciplina e gli stessi metodi di origine comunista. Sicché anche coloro che dicono di voler combattere il comunismo, adottandone i sistemi diventano sotto altra etichetta comunisti anch’essi, poiché distruggono l’individualità umana. Non comprendo questo sistema, in verità. Tuttavia ritengo che il male maggiore il partito fascista lo fece nel far cadere di tono la stessa vita pubblica, con certo sanculottismo di pessimo gusto: vi sono dei toni che possono essere tollerati in talune zone di minor livello civile, ma non possono essere tollerati nei ceti medi e superiori, che viceversa li adottavano come abbellimenti nei loro salotti. Quanto alla esagerazione delle discipline di partito, penso che a questa si debba in gran parte la responsabilità dell’appiattimento della vita pubblica durante il ventennio e soprattutto quel conformismo che stona in un popolo che, come il nostro è tanto ricco di individualità, perfin troppo!».
«Tutti se la prendevano con Starace, – osservo – ma Bottai dice che la mania di voler “cambiare gli italiani” era proprio tutta di Mussolini, e Starace non era che il pedissequo esecutore di ordini… ».
«Cambiare gli italiani – esclama Umberto – e perché mai? Gli italiani sono un grande popolo finché sono fedeli alle loro tradizioni e ai loro costumi: decadono tutte le volte che tentano di assumere modi e atteggiamenti di altri popoli. Purtroppo, anche questa è una vecchia piaga: pensi che sul finire del V secolo Teodorico doveva rimproverare agli italiani di avere adottato il barbaro costume del “duello = giudizio di Dio” dicendo: « Lasciate che queste barbare usanze restino fra i miei rustici soldati, e non adottatele voi che avete le leggi più perfette che siano al mondo! ». Che idea! Cambiare gli italiani, che sono il popolo più vivo, più agile che vi sia sulla terra…»
«Ma il Re non trovò il modo di moderare la graduale dittatura di Mussolini?» domando.
Umberto risponde che effettivamente, fino al 1935, la dittatura era più del partito che del governo, in quanto Mussolini continuava a rispettare le formalità costituzionali. La dittatura personale era un fatto non contemplato, era frutto più di ascendente personale che di leggi che lo prescrivessero. Moderarlo, sì.
Vittorio Emanuele III moderava Mussolini si può dire giornalmente, e ciò gli era possibile perché Mussolini ebbe sempre estrema deferenza per il Sovrano e soltanto dopo il 1935 fece più volte il cattivo scherzo di mettere il Sovrano dinanzi a fatti compiuti difficilmente riparabili. E d’altra parte, una dittatura larvata era ancora necessaria mentre si preparavano le leggi che avrebbero dovuto modificare la struttura non soltanto statale, ma anche sociale ed economica.
Ridicole fisime
Molti avevano ritenuto che dopo l’approvazione – delle leggi sullo stato corporativo, avrebbe avuto fine il regime dei pieni poteri. Cesare Maria De Vecchi, al quale nel 1935 avevo esposto le mie perplessità per la mancata concessione del libero voto nell’interno delle corporazioni, affermò, e lo sapeva con certezza, che Mussolini voleva prima liquidare la faccenda etiopica, non solo perché una impresa di quel genere richiedeva una disciplina completa, all’interno, ma anche per avere poi un tale prestigio da poter contare con certezza sulla fedeltà degli italiani. Quanti allora in seno al fascismo vaneggiavano di maggior libertà di stampa, di libertà nella corporazione, guardavano tanto a Bottai che a Balbo.
Umberto acconsente: egli aveva, ed ha, grande stima per Bottai, come ne ebbe per Balbo, che considerava persona ricca di capacità anche politiche oltre che di grandissimo coraggio «non soltanto militare», completa con un sorriso. Ma tuttavia, forse anche perché Mussolini accampava il pretesto della imminente impresa coloniale, della attenuazione della dittatura non se ne fece nulla. Starace continuò a imperversare e i federali continuarono ad infierire sui fascisti che giocavano a “brigde”, e davano del “lei” o peggio baciavano la mano alle signore…
In sostanza nel giudizio di Umberto, il regime funzionava saggiamente quanto a ordinamenti e a provvedimenti politici e sociali, ma irritava gli italiani con le ridicole fisime dello “stile”, con i controlli telefonici e postali, e con la rigida disciplina imposta alla stampa, che era diventata asfittico.