di Silvio Maurano
Mussolini e il Re mio Padre
La Settimana Incom Illustrata offre ai suoi lettori un documento di storia: la testimonianza di Umberto di Savoia sugli avvenimenti italiani dal 28 ottobre 1922 al 25 luglio 1943.
Per la prima volta Umberto II esce dal rigoroso riserbo impostosi finora, e si decide a parlare sui rapporti tra suo padre Vittorio Emanuele III e Mussolini, sui rapporti tra monarchia e dittatura durante il ventennio.
Il racconto di Umberto è stato fedelmente raccolto per «La Settimana Incom Illustrata ». dal nostro collaboratore Silvio Maurano, che dal 7 gennaio al 14 luglio di quest’anno ha avuto numerosi colloqui con l’ex-Re d’Italia a Cascais, durante i quali anno stati presi in esame i principali avvenimenti italiani del ventennio, a cominciare dalle circostanze nelle quali Vittorio Emanuele III rifiutò di firmare il decreto per lo stato d’assedio presentatogli dal presidente del Consiglio Facta il 28 ottobre 1922 e per finire con la decisione, presa da Vittorio Emanuele III di destituire e far arrestare Mussolini.
Silvio Maurano nel corso dei colloqui è stato autorizzato da Umberto a rivolgergli domande anche su alcuni punti rimasti tuttora oscuri o controversi della nostra recente storia. Fra l’altro Silvio Maurano ha rivolto a Umberto le seguenti domande alle quali Umberto ha risposto: Perché il Re non intervenne contro Mussolini all’indomani dell’uccisione di Matteotti? Il Re conobbe in anticipo il discorso che Mussolini avrebbe pronunziato il 3 gennaio 1925? Vi furono incidenti in Quirinale in occasione della visita di Hitler? Perché non ci sganciammo in tempo dalla Germania? Perché il Re accettò il grado di Primo Maresciallo dell’Impero per sé e per Mussolini? Dove fu l’errore che portò alla guerra mondiale? Perché Mussolini volle, e il Sovrano accettò, di entrare in guerra quattro anni prima della data prevista dal patto d’acciaio? Perché il Re non pretese da Mussolini che convocasse il Gran Consiglio prima di decidere la guerra? In quale momento la Corona comprese che Mussolini stava portandola versa il precipizio? Quando il Re decise di liberarsi di Mussolini? Che sarebbe successo se il Gran Consiglio avesse respinto l’ordine del giorno Grandi? E’ vero che la Regina Elena protestò perché Mussolini era stato arrestato nella residenza reale?
In questo numero iniziamo la pubblicazione dei colloqui con Umberto di Savoia sul tema: «Mussolini e il Re mio padre ». Il primo capitolo di questa testimonianza di Umberto, che oltre che un documento di storia costituisce un, documento umano, riguarda le circostanze nelle quali Mussolini salì al potere. Nel suo racconto Umberto, per gli episodi di cui fu a diretta conoscenza, si è basato principalmente sulla memoria ch’egli conserva nitida e precisa dei fatti, e delle persone. Per gli eventi di cui Vittorio Emanuele III fu protagonista, Umberto oltre che sui ricordi personali, si è basato anche su carte di famiglia.
I primi colloqui furono dedicati all’esame della situazione italiana quale si presentava alla vigilia dell’ottobre 1922. Umberto di Savoia è del parere che la crisi del primo dopoguerra, la crisi che portò il fascismo al potere, fu una crisi di sistema: era il sistema democratico parlamentare che mostrava le sue piaghe, la sua incapacità di risolvere i nuovi problemi sorti con l’affermazione dei partiti di massa.
«Vede? La situazione francese del 1958 – disse Umberto (il nostro incontro si svolgeva nei giorni che precedettero l’andata di De Gaulle al potere) – è quasi identica a quella italiana del 1922. Il Parlamento è troppo frazionato, non riesce ad esprimere una maggioranza su un programma concreto, quindi la nazione insorge e protesta chiamando sulla scena De Gaulle. Badi bene, io non dico che De Gaulle possa fare del bene o del male: io gli auguro di fare molto bene alla Francia! Cito il caso perché è sintomatico: quando il sistema democratico parlamentare fallisce allo scopo, la dittatura, o la parvenza della dittatura, appare il minore dei mali. Cosi avvenne in Italia. L’impotenza dello Stato democratico nel primo dopoguerra consisteva non soltanto nella sua incapacità a far rispettare la legge e a costringere fascisti e comunisti a disarmare, quanto nella sua incapacità a risolvere le situazioni che avevano condotto a quegli estremi: disordine nella vita economica, disordine nell’amministrazione dello Stato, debolezza cronica nella politica internazionale, inabilità ad adattare la vita sociale alle nuove esigenze, ecc.».
Domando a Umberto: «Fu la decadenza della democrazia che facilitò lo sviluppo del fascismo, o fu la crescita del fascismo che atrofizzò la democrazia? ». Egli non esita a dire: «E’ un dilemma senza ragione, in quanto la voce nuova sovrasta sempre la voce vecchia. Ogni generazione ha un suo stile, un suo particolare modo di vedere le cose e di esprimersi. La generazione democratica che era rimasta al potere in Italia dopo la guerra parlava il linguaggio del 1905, aveva si può dire l’etichetta dello stile “liberty ” e non sapeva liberarsene. Fra la sua epoca e quella successiva vi era di mezzo una lunga e durissima guerra, che aveva creato problemi nuovi, aveva falcidiato talune classi sociali e ne aveva rafforzato altre, e soprattutto aveva posto esigenze interne e internazionali nuovissime. Nitti aveva proposto – non perché egli fosse un fautore del femminismo, ma perché ciò gli era stato suggerito dagli uomini del partito popolare – di aggiungere alla riforma elettorale del 1919 l’estensione del voto alle donne, come dono propiziatorio di carattere demagogico. Il Re mio padre si oppose non per pregiudizio verso le donne, naturalmente, ma perché il voto alle donne, aggiunto al già eccessivo estendersi del diritto al suffragio, avrebbe complicato anziché chiarito la situazione. Infatti avremmo avuto probabilmente un panorama parlamentare ancor più difficile, poiché il gruppo cattolico, cioè il partito popolare, avrebbe pareggiato forse il gruppo socialista. Più che mai sarebbe stato difficile governare in tali condizioni. Il dilemma che lei pone non ha senso, perché é chiaro che un movimento rivoluzionario o almeno riformista non può affermarsi se non quando il regime in vigore ha perduto efficacia. Se la democrazia parlamentare avesse saputo assicurare la pace, l’ordine e la prosperità al popolo italiano, nessuno si sarebbe messo al seguito di Mussolini, il cui programma novatore sarebbe sembrato inopportuno! Non vi é dilemma: vi è naturale successione tra chi decade e chi ascende ».
Il discorso era caduto sulla .legge elettorale del 1919, detta della proporzionale. In questa legge Umberto riconosce l’atto di nascita di quel fenomeno attuale che viene definito partitismo.
«Col collegio uninominale – dice – ogni eletto rappresentava la maggioranza di un settore “demografico” della nazione, e il voto degli elettori era diretto e determinante Con la legge del 1919, l’elettore non aveva più un voto diretto, ma un voto indicativo: il vero voto decisivo era da poche persone, cioè segretari dei partiti in 1izza, che facevano una loro selezione fra i candidati da sottoporre al giudizio popolare. Il contatto tra eletto ed elettore era tolto quasi del tutto, il che svisava anche quel poco che rimaneva dell’antico concetto di democrazia. Ebbe allora inizio quella organizzazione politica culminata oggi nel partitismo ».
Umberto passa in rassegna le posizioni politiche formatesi come effetto, nel 1919, della prima applicazione della proporzionale: frazionati i gruppi parlamentari, decimati i partiti detti «borghesi», passati da 380 seggi a 238, costituiti due massicci gruppi organizzati, al centro e a sinistra, cioè il gruppo cattolico, passato da 33 a 95 deputati, e il gruppo socialista, da 48 a 154 deputati. Mette in rilievo come fosse difficile la vita dei governi: nel giro di meno che tre anni si ebbero tre governi di Nitti, uno di Bonomi, uno di Giolitti, che durò fino al 1921, e infine quelli di Facta. La macchina governativa si inceppava costantemente, un po’ per colpa della sinistra che fomentava agitazioni nel paese, e un po’ per il ricatto del centro che esigeva sempre nuove concessioni. I socialisti, (ancora uniti con coloro che poi furono i comunisti) tentarono a più riprese di prendere il comando partendo dalla piazza. Se la difesa dello Stato, osserva Umberto, fosse rimasta alle sole forze del governo, forse i socialisti sarebbero riusciti nell’intento. Dalla esasperazione dei cittadini per la carenza del governo, nacque il fascismo. Già l’impresa di D’Annunzio a Fiume aveva rivelato che forze vitali erano pronte a sostituirsi allo Stato per la difesa degli interessi nazionali. Parlando di Fiume, Umberto ricorda che, molti anni dopo, il maresciallo Diaz ebbe a dirgli che, «meglio sarebbe stato se avessimo rinunziato a Fiume a condizione che restasse il porto dell’Ungheria, in quanto con gli ungheresi ci sarebbe stato facile intenderci, e non avremmo avuto gli slavi alle porte ».
«Diaz – prosegue Umberto – era anche irritatissimo perché l’Italia aveva favorito la distruzione dell’Impero Asburgico, prevedendo che, rotto quel complesso militare, burocratico che per tanti secoli aveva fatto barriera contro la Russia, non ci sarebbe stato più nessuno a guardia dei Carpazi. Purtroppo faccio anch’io il sapiente del poi: ma non mi sembra che fosse molto difficile capire che l’adesione dell’Italia alla politica di Benès e alle fantasie utopistíche di Wilson significava, rompere l’equilibrio nel cuore del Europa! La« politica del castigo ” praticata per la prima volta a Versailles, e ripetuta in scala più grande dopo l’ultima guerra, ha sempre agito come il boomerang, colpisce cioè coloro che la praticano. Non fu castigata la dinastia degli Asburgo, ma fu castigata l’Europa. Infatti Benes a Versailles agiva, forse in parte senza volerlo, come rappresentante di quella Russia che in quel momento non era in grado di farsi ancora sentire. Lo stesso Stalin non avrebbe chiesto di più e di meglio, a Versailles ».
«Ma l’Italia – osservo – non, era in grado di guardare così lontano, perché gli alleati le avevano dato il rebus di Fiume da decifrare, e questo richiamava tutta l’attenzione degli italiani ».
«Questo é anche vero risponde Umberto – ma era proprio la situazione parlamentare, così incerta e così piena di imboscate, a rendere disattenti i nostri governanti verso i problemi internazionali di maggior peso ». Fu pure quella incerta situazione parlamentare a consentire al fascismo di affermarsi negli ultimi mesi del 1920 e di guadagnare in seguito sempre più terreno. Quale seguito aveva il movimento fascista nel 1922? Qui Umberto constata che «è per lo meno ingenuo il voler nascondere la verità quando dispiace . Il movimento fascista in Italia aveva raggiunto, specie dopo aver stroncato lo sciopero generale dell’agosto 1922, una grande popolarità. A esso aderivano parecchie centinaia di migliaia di reduci di guerra, nonché mezzo milione circa di lavoratori iscritti ai sindacati fascisti, mentre gli andavano molte simpatie della parte media della nazione. Per Umberto il fatto più significativo era rappresentato da quel mezzo milione di iscritti ai sindacati fascisti, in quanto dimostrava che non é vero che i lavoratori siano per loro tendenza naturale portati all’antinazione: « Se la nazione è madre e non matrigna, i lavoratori restano con la nazione».
Umberto deplora che da taluni scrittori si sia affermato che Vittorio Emanuele III avesse volutamente sopravalutato le forze fasciste; e cita un’intervista che l’on. Facta concesse a un giornale romano il 17 ottobre, in cui il presidente del Consiglio del tempo riconosceva che il movimento fascista aveva una consistenza, nella nazione, molto superiore e quella espressa dalla rappresentanza parlamentare (allora alla Camera v’erano 35 deputati fascisti. N.d.R.), e auspicava una prossima immissione «pacifica» del partito fascista nel governo. Lo stesso giorno il ministro dell’Interno Taddei. che tuttavia era nemico implacabile del fascismo, faceva dichiarare da un suo portavoce che «il movimento fascista era fortissimo e che era necessario portarlo al più presto al potere ». Ma i tentativi volti a realizzare un rimpasto del governo fallirono tutti. La situazione precipitò negli ultimi giorni dell’ottobre 1922: con il diversivo del congresso fascista a Napoli, Mussolini era riuscito a ingannare tutti sulle sue vere intenzioni: impadronirsi al più presto con la forza del potere.
Con Umberto di Savoia proviamo a ricostruire gli avvenimenti della crisi d’ottobre. La sera del 27, Vittorio Emanuele III tornò a Roma da San Rossore e trovo alla stazione Termini il presidente del Consiglio Facta ad attenderlo. S’intrattenne con lui una ventina di minuti nella saletta reale della stazione. Nella notte, verso le tre, un funzionario della presidenza dei Consiglio corse a svegliare Facta: giungevano telegrammi da tutti i prefetti: i fascisti attaccavano prefetture, uffici telegrafici, uffici pubblici, occupavano ponti stradali e ferroviari; alla mezzanotte controllavano già buona parte della Val Padana, importanti centri della Toscana, delle Marche. dell’Umbria, degli Abruzzi mentre a Napoli un reggimento aveva fatto causa comune con i fascisti; quattro colonne militarmente inquadrate si stavano dirigendo su Roma. Nella notte Facta si precipitò al ministero della Guerra e quindi al Viminale, dove conferì con alcuni ministri. La legge prevedeva che contro un’insurrezione si applicasse lo stato d’assedio. Prevalse pertanto il parere che il governo poteva intanto applicarlo a scopo precauzionale per cercare di fermare il dilagare dell’insurrezione. Facta chiese d’urgenza udienza al Sovrano l’udienza venne fissata alle 11,30. Alle ore 12 dello stesso giorno, cosi stabiliva il decreto, sarebbe entrato in vigore in tutt’Italia lo stato d’assedio. Facta era sicuro che il Sovrano avrebbe firmato il decreto presentato dal governo. Era cosi sicuro che alle 10,15 fece diramare un comunicato che annunziava il ricorso allo stato d’assedio.
Non guerra ma delitto
Alle 11,30 Vittorio Emanuele III affrontò Facta dicendo: «Lei dimentica di avere studiato diritto costituzionale. Lei dimentica che ogni provvedimento prima di essere diramato deve essere sanzionato da me. Questa è roba da operetta! Io non firmo un decreto che trovo inopportuno! ». Queste parole il Re le riferì al conte Da Vecchi (che ricevette poco dopo) aggiungendo: « Ci tengo a farlo sapere, anche se fra una settimana gli italiani se lo saranno dimenticato». Il fatto é che Vittorio Emanuele III era stato informato nelle prime ore della mattina da Da Vecchi e Suardo per la parte fascista e da Federzoni per la parte nazionalista, che la insurrezione non era contro lo Stato, e tanto meno contro la monarchia, bensì contro il governo. Lo stato d’assedio fu immediatamente revocato. Intanto nella giornata il Re conferiva al Quirinale con gli ex-presidenti del Consiglio e con altre personalità politiche. In verità, tranne Nitti, tutti gli altri furono concordi nel dire che occorreva dare l’incarico a Mussolini per la formazione del nuovo governo. Mi sfugge di dire mentre rievochiamo questi fatti, che «il Re, in quel giorno 28 ottobre, era molto agitato». Umberto m’interrompe con un gesto e dice: «Anche ciò fa parte della leggenda! I1 Re mio padre era senza dubbio preoccupato per la piega che stavano prendendo gli avvenimenti, ma non diede mai nella sua vita segno di agitazione o di nervosismo. Ricordi la impressione che fece sui generali alleati a Peschiera, ove la sola Persona fredda e serena fu il Re d’Italia. Il Re mio padre aveva una eccezionale forza d’animo, e anche dinanzi agli avvenimenti più sconcertanti non dimostrava alcuna reazione: si può dire anzi che la sua calma fosse tanto maggiore quanto più grave era la situazione! Quella speciale situazione appunto, la più grave che si fosse presentata dopo il novembre del 1917: e se anche il Re avesse perduto la calma, si sarebbe andati incontro a fatti d’una gravità enorme. Comunque a decidere il Re mio padre ad una soluzione pacifica contribuì moltissimo il parere di Giolitti, che disse: “Il miglior sedativo per le smanie rivoluzionarie, consiste in una poltrona ministeriale, che trasforma un insorto in un burocrate”. D’altra parte non era possibile pensare a una guerra civile: questa non é guerra, é delitto! Si può osservare che lo stato d’assedio doveva servire alla difesa delle istituzioni; ma che cosa si deve intendere per istituzioni? Sono forse istituzioni anche i partiti? Se un partito politico decade, ha forse il diritto di servirsi della forza dello Stato per difendere le posizioni pericolanti? Istituzioni erano la monarchia, lo Statuto e le altre leggi fondamentali dello Stato, é ovvio. Ci si deve chiedere se un sovrano debba lanciare la nazione in preda alla guerra civile per difendere il punto di vista di un partito, anzi della frazione d’un partito. Del resto la decisione era del genere che non ammette remore, doveva essere presa sul tamburo; e non è cosa che possa essere giudicata col senno del poi- Vi è anche da considerare che due sole volte le forze armate avevano fatto uso delle armi contro italiani: ad Aspromonte contro Garibaldi ed a Fiume contro D’Annunzio. I fatti di Milano del 1898 appartengono già al genere di repressione di una insurrezione sovvertitrice, e la repressione fu un atto di polizia. Aspromonte e Fiume appartengono invece allo stesso genere dell’ottobre 1922, Con questa differenza che nei primi due casi l’azione fu imposta al Sovrano da esigenze d’ordine internazionale, che non sussistevano per la marcia su Roma. Il Re mio padre aveva penosamente accettato la responsabilità dell’azione contro D’Annunzio, perché in caso contrario le conseguenze internazionali avrebbero potuto essere gravissime; ma ne aveva intimamente sofferto. Sarebbe stato davvero incredibile che egli, a poco più di due anni dal Natale di sangue fiumano, ordinasse ancora all’esercito e alla marina di sparare su italiani. Non vi erano in gioco gli interessi della Nazione, né il nostro prestigio internazionale, ma soltanto il prestigio di una parte della classe politica che chiaramente era destinata alla sconfitta ».
« Una prova di amicizia »
«Che sarebbe avvenuto domando – se il -governo avesse decisamente ordinato all’esercito di reprimere la insurrezione? Qualche reparto non sarebbe passato agli insorti? »,
«Effettivamente – risponde Umberto – quando il Re mio padre prese la decisione di far revocare lo stato d’assedio e di offrire a Mussolini di comporre il nuovo governo, la situazione era già compromessa: la maggior parte delle province era nelle mani dei fascisti, e nelle forze armate si delineava fortemente una simpatia per il nuovo movimento. Ogni ora che passava l’insurrezione conquistava nuovo terreno malgrado lo stato d’assedio parzialmente applicato. Il movimento, attraverso i suoi uomini di fiducia, e cioè Federzoní, De Vecchi e Suardo, dava ampie assicurazioni di lealismo verso la monarchia e prometteva rispetto per le leggi fondamentali dello Stato. D’altro lato le forze dello Stato risultavano inferiori alle peggiori previsioni, e sarebbero state sicuramente sopraffatte se vi fosse stato uno scontro decisivo. E allora, quale sarebbe stata la nuova situazione determinata da un irrigidimento del governo? Il movimento fascista si diceva disposto ad accettare la maggior parte delle regole del giogo democratico – insurrezione a parte – e niente poteva far prevedere che non le avrebbe poi rispettate. Se avesse dovuto combattere fino in fondo per vincere, avrebbe fatto certamente un passo più grave e avremmo avuto fin dal 1922 una “Repubblica di Salò”. Vede, non si deve mai perdere di vista la realtà per correre dietro alla fantasia o alle passioni! Certo, Mussolini bussava un po’ troppo forte alla porta del potere: ma dal momento che sarebbe staio inutile resistere con le armi tanto valeva invitarlo ad entrare e fargli assumere atteggiamenti costituzionali ».
«Mussolini disse poi a uno scrittore tedesco che ” il Re gli aveva dato una prova di amicizia” ». Umberto a queste mie parole scuote la testa e osserva:
«Il Re non parteggia, il Re arbitra. Nell’azione di un sovrano costituzionale non pesano né le simpatie, né le amicizie, né i sentimenti opposti. Nella mia famiglia vi fu un caso eccezionalissimo, che forse non é, molto noto: riguarda Crispi, per il quale il Re mio nonno aveva una spiccata simpatia personale. Avvenne nel 1887: era stata fatta correre la voce che Crispi non fosse gradito a Corte, e lo statista siciliano, che era molto sensibile, se ne era doluto apertamente. Il Re mio nonno lo invitò a colloquio, e gli disse che era spiacente che un giornale avesse diffuso quella tal voce che era assolutamente infondata, aggiungendo che “sentiva per lui tutta l’amicizia e apprezzava il suo patriottismo, la sua energia, la sua esperienza e che sperava di vederlo presto in una combinazione ministeriale. E tuttavia pochi giorni dopo, rispettando la designazione parlamentare, affidava l’incarica a Depretis e non a Crispi. Egualmente, il Re mio padre aveva particolari simpatie per Giolitti e per Salandra: ma i due illustri statisti non ne vollero sapere di assumere un incarico così pericoloso, e del resto la situazione si evolveva di minuto in minuto. La chiamata di Mussolini al potere fu il minore dei mali in quel momento. Che cos’altro poteva fare un sovrano cui stava a cuore la pace della nazione? Ammettiamo che le forze di polizia e i reparti fedeli dell’esercito riuscissero a stroncare la rivolta, Si deve presumere che quelle sole forze sarebbero state insufficienti alla bisogna, e che al loro fianco si sarebbero schierate le squadre rosse, quelle stesse che avevano compiuto stragi a Foiano, a Empoli, a Roccastrada, a Ferrara e in altri posti. Vi sarebbero stati dei partigiani “ante litteram”, insomma. Nel caso di vittoria dei fascisti, avremmo avuto certo delle violenze, perché dietro a ogni esercito vittorioso accorrono i Thénardier a far bottino. Nel caso opposto, essendo lo Stato esaurito per lo sforzo compiuto, le forze armate annientate dalle diserzioni e dai combattimenti, sarebbero rimasti padroni delle piazze e dello stesso Stato proprio gli ausiliari rossi, che avrebbero avuto l’immediato appoggio di una potenza straniera. Lo Stato italiano, per non diventare fascista, diventava comunista! Intanto, molte città italiane sarebbero state devastate dalla lotta, Napoli avrebbe subito, in più grande stile che non Fiume, i1 bombardamento della flotta, ammesso che gli equipaggi avessero obbedito all’ordine di sparare. No, non vi era altro rimedio che la soluzione pacifica del conflitto, e il Re mio padre rese un eminente servizio alla nazione salvandola sia dalla guerra civile che dalle conseguenze tragiche che in ogni caso essa avrebbe portato come strascico».
Due cose essenziali
Chiedo a Umberto un giudizio personale su Mussolini, sul Mussolini di quei primi tempi; egli mi risponde:
«Era un uomo di notevoli qualità, che assommava la capacità di intuizione e la capacità di azione, qualcosa che si potrebbe classificare fra Crispi e Cavour, sebbene Mussolini non avesse la preparazione culturale di quei due grandi statisti, e fosse quindi portato, ad una faciloneria pericolosa, come i fatti poi dimostrarono. In quel periodo Mussolini comprese due cose essenziali: anzitutto che in Italia non si poteva tenere in piedi il sistema parlamentare senza modificare il metodo di selezione: poi che in Italia l’elemento determinante era l’istituzione monarchica. La teoria dello Stato corporativo così come era stata abbozzata negli anni che precedettero l’insurrezione dell’ottobre 1922, era suggestiva, poiché spostava il diritto civile dei cittadini dal piano “anagrafico” a quello della loro funzione sociale ed economica: non più il cittadino demografico, ma il cittadino facente parte della società attiva. Quanto alla istituzione monarchica, Mussolini era partito con intenzioni giacobine, con la famosa tendenzialità repubblicana dei primi documenti fascisti. Ma già nel 1921, recandosi a Berlino, egli disse a un diplomatico tedesco che in Italia non vi erano che due sole forze, il Re e lui. Ciò dimostra che nel suo spirito si stava svolgendo una metamorfosi, ed egli cominciava già a pensare a una soluzione che, socialista nella sostanza, avrebbe rispettato le tradizioni nazionali. Ciò che, in fondo. alla Corona non poteva spiacere, in quanto la Corona – se è lecito così dire – è il primo organo corporativo della nazione poiché in essa tutta la vita nazionale si deve riassumere ed equilibrare. La Corona non ha predilezioni per un partito o per un altro: essa appoggia quel partito o quel consesso di partiti che meglio serve la causa nazionale, meglio assicura ordine e giustizia sociale, meglio garantisce la vita del popolo. E’ una leggenda puramente giornalistica che il Re mio padre avesse simpatie per un partito o per un altro, o per un uomo politico anziché per un altro».