“Manderò un ispettore”
« A Napoli, avevo chiesto a Paribeni di tenere una conferenza a palazzo reale sulla Magna Grecia. Avevo invitato centinaia di persone. All’ultimo momento, ordini superiori telefonatigli da Roma ingiunsero al conferenziere di parlare ’’solo della romanità”. Erano queste ingerenze di fascisti zelanti, ottusi, gretti, più fascisti di Mussolini, che mi riuscivano insopportabili. Quando chiedevo qualche cosa a lui direttamente, ottenevo tutto. Per l’Associazione del Mezzogiorno diverse volte fece pervenire dei fondi, anche se il partito non tralasciava occasione per tentare di assorbirla, sostituendo l’antico personale scelto, maestre, infermiere, con gente ”di sicura fede”, come si diceva allora ».
Maria José parla di Mussolini con obbiettività, senza asprezza, senza astio. Nei primi contatti, dopo quello che le avevano detto nel Belgio, egli l’aveva impressionata favorevolmente.
« Lo vidi la prima volta », racconta. « al matrimonio di Mafalda, a Racconigi. Non era ancora ingrassato. Bello non era, neanche allora, ma gli occhi, sì, gli occhi erano veramente straordinari. Era ancora un Mussolini umano.
Ho parlato diverse volte con lui. Al principio, ascoltava con interesse, con cortesia ogni mia richiesta. Non toccavamo argomenti di politica. Gli parlavo di un ospedale o di un asilo, di qualche finanziamento che sarebbe stato necessario ottenere, di un inconveniente che bisognava eliminare. “Ah. sì?”, rispondeva lui. “Manderò un ispettore”.
Oppure, senz’altro: “Farò destinare due milioni”. Dopo, non so che cosa sia successo, non si poteva ottenere più niente. Ma i primi anni, debbo dirlo, era molto gentile. Una volta avevo bisogno di soldi per un asilo di maternità che era in condizioni deplorevoli di sovraffollamento, con una dotazione di letti insufficiente. Gli spiegai come stavano le cose e l’indomani mi telefonò per comunicarmi che avrei ricevuto un assegno. Poi è cambiato.
Anche fisicamente. Da quando ha incominciato a portare le uniformi e si è messo con Hitler è iniziato il suo declino. Non contava niente, in quell’alleanza. Il giorno dell’Anschluss lo incontrai nel giardino del Quirinale. Tornava da un
colloquio con il Re. Ero con Vittorio, che pedalava sul suo triciclo.
Mussolini non aveva mai visto mio figlio. Gli dissi: “Questo è Vittorio”. Lui si fermò a guardarlo e poi disse, con amarezza: “Beato lui. che ha quell’età”. Quel giorno era preoccupato, accasciato.
«Sentivo raccontare, poi, che voleva farsi incoronare Cesare. Quando fu votata la legge che conferiva al Gran Consiglio il diritto di pronunciarsi sulla successione al trono, andai a trovarlo. Lo scopo principale della mia visita era il solito: chiedergli dei fondi per opere di beneficenza. L’idea di domandargli che cosa significasse quella legge mi venne lì per lì. Voglio sentire che cosa dice, pensai.
È stato scritto poi che quella mia domanda lo irritò molto. A me non parve. Anzi, fu pronto nel rispondere, non manifestò il minimo imbarazzo o dispetto. Disse che al Gran Consiglio sarebbe spettato di decidere solo nel caso, puramente ipotetico, in cui mancasse un erede al trono ».
Una volta, però, con un intervento nella questione dell’Alto Adige, Maria José aveva veramente urtato Mussolini. Fu quando il governo fascista ordinò ai prefetti delle province altoatesine di vietare agli allogeni l’uso del tedesco e tutte le scritte in lingua tedesca dovettero sparire. La principessa non aveva esitato a fave le sue rimostranze a Mussolini. E probabilmente da quel momento vi era stato in lui un irrigidimento e la cavalleresca condiscendenza di cui prima dava prova quando lei gli
chiedeva appoggio nello svolgimento delle sue attività benefiche era cessata.
Convegno segreto a Pompei
Fin dai primi tempi del suo arrivo a Napoli, Maria José si era accorta cu essere sorvegliata. Persino i telefoni di palazzo reale, m’è stato detto, erano sotto controllo, una
volta che Zanotti-Bianco, per cui Maria José ha avuto sempre la più profonda considerazione, venne invitato a cena da lei, il questore di corte, molto agitato, si affrettò ad
avvertirla che la persona che ospitava alla sua tavola era ”un individuo pericolosissimo”. «Perché ce l’hanno tanto con lei? », chiese Maria José a Zanotti-Bianco. «Dacché ho l’età della ragione, mi sono dedicato, sacrificando tutto ciò che amavo, alla redenzione del Mezzogiorno. Non ho mai fatto politica, ma non posso ammettere che mi si imponga uh credo che non condivido», rispose lui. Era il contrario di ciò che Maria José sentiva dire a molte altre persone che la circondavano a palazzo e che le parlavano di “uomo della Provvidenza”. Chi le aprì gli occhi sul pericolo che il fascismo travolgesse nella sua inevitabile caduta la monarchia fu Benedetto Croce.
L’incontro lo combinò Spinazzola, già sovrintendente degli scavi di Pompei, messo da parte dal fascismo. Il luogo segreto scelto per l’appuntamento era la ’’Casa del cane’’, a Pompei. «Io avevo sempre la polizia alle costole », racconta Maria José, «e dovevo fare in modo, quel pomeriggio, di liberarmene. Dissi che andavo a Capodimonte, dalla duchessa d’Aosta, e così non venni seguita. Il colloquio durò due o tre ore. Croce fu franco. Mi disse: ”La monarchia è finita. Il fascismo rovina tutto”. Ricordo che a un certo momento fece qualche passo verso la finestra e che Spinazzola lo supplicò di ritirarsi, perché aveva paura che qualcuno ci scorgesse. Non c’era nessuno, pioveva. AI ritorno, uscendo da Pompei, vidi in mezzo alla strada un cane morto. Cattivo presagio, pensai ».
A Napoli, Maria José è diventata superstiziosa. « Lo sono e non lo sono», m’ha confessato. «Ho letto Voltaire il quale dice che non bisogna essere schiavi della superstizione. Se ascolto la ragione, non lo sono; ma se ascolto l’istinto, lo sono. Un bastone, un cappello sul letto, un ombrello aperto in casa, un tagliacarte in regalo, tutte queste cose mi sembrano di malaugurio. E ci sono elle persone che,
ogni volta che le vedo, succede qualche cosa. Quando mi viene preannunciata una di queste visite, ho paura ». Nel salotto di soggiorno a pianterreno, a Merlinge, sulla
grande stufa settecentesca di maiolica, Maria José tiene in mostra un ferro di cavallo: « Lo trovarono Maria Pia e Vittorio, una volta che stavamo facendo una passeggiata
insieme. Tornando a casa lo misero lì, e c’è rimasto ». Le principesse hanno come talismani gli orsacchiotti di pezza. Maria Pia, nella sua camera da letto, a Versailles, ne tiene uno spelacchiato che ebbe in regalo quand’era piccolina e
per cui ricamò allora un panciotto grigio. Quando fa i preparativi per un viaggio il primo oggetto che mette nella valigia è l’orsacchiotto. Maria Gabriella, dietro la spalliera
della sua “millecento sport” color crema, tiene anche lei un orsacchiotto.
II talismano di Maria José, a Napoli, erano due grosse tartarughe. Gliele aveva inviate a villa Rosebery il proprietario di una villa vicina; pesavano mezzo quintale l’una. E la regina Elisabetta, che era venuta ad assisterla quando si attendeva la nascita di Maria Pia, diceva scherzando: «Scommetto che mia figlia metterà al mondo una tartaruga».
Il terribile annunzio
Fu nelle primissime settimane della sua maternità che Maria José apprese la tragica morte del padre, in montagna. Un incidente improvviso, inesplicabile: re Alberto, gran scalatore di pareti, provetto alpinista, era morto nel corso di una delle ascensioni più facili, tra le rocce di Màrche-les-Dames, nella vallata della Mosa. D’inverno, però, quelle rocce franano e la disgrazia accadde appunto il 17 febbraio del 1934. Il re dei belgi, quella sera, avrebbe dovuto assistere a una competizione ciclistica al “Palais des Sports”. Sua moglie, da poco ritornata da Napoli, non lo avrebbe accompagnato, poiché era confinata nei suoi appartamenti da un attacco di lombaggine: aveva
anzi approfittato di questa indisposizione per scrivere a Maria José.
Leopoldo ed Astrid erano in Svizzera. Il principe Carlo era al mare. Verso mezzogiorno, al volante della sua automobile, il Re dei belgi lasciò Laeken per Marche-les-Dames. Prevedeva di tornare prima di sera. Il suo cameriere, van Dyck, rimase ad aspettarlo nell’auto quando egli iniziò l’ascensione e non di sera. Il suo cameriere, van Dyck, rimase ad aspettarlo nell’auto quando egli iniziò l’ascensione e non tornò più indietro. Il suo corpo venne trovato poco dopo la mezza notte ai piedi delle rocce, il viso risolto verso il cielo. Prima di comunicare la terribile notizia alla regina, i funzionari di corte attesero che la salma fosse composta nella camera ardente, a Laeken.
Elisabetta non ha mai perdonato loro questo indugio, che le impedì di fare lei stessa la toletta funebre del suo caro morto, ciò che considerava un suo doloroso privilegio.
Maria José racconta che a lei il primo annuncio venne dato da Umberto. « Fu chiamato al telefono, da Bruxelles, subito dopo pranzo. Quando tornò nella stanza era cupo, sconvolto. Mi disse che mio padre aveva avuto un incidente, che non si capiva bene quel che era successo. Cercava di nascondermi, sul momento, preso alla sprovvista dalla telefonata, la gravità dell’accaduto. Ero proprio all’inizio della mia attesa di un figlio ed egli voleva evitarmi una emozione improvvisa. Telefonammo à Roma, all’ambasciata del Belgio, poi a Bruxelles. Parlai con mia madre, appresi tutta la verità. Volevo partire subito, ma Artom, il ginecologo, si oppose. Avevo atteso tre anni la nascita di un figlio, non potevo correre il rischio di un viaggio così doloroso in quella fase delicata della maternità ».