di Giacomo Maugeri
I miei rapporti con Mussolini -Non intendevo occuparmi di politica – Vidi il capo del fascismo a Racconigi: bello non era ma i suoi occhi mi parvero straordinari – Gli chiesi che cosa significasse la legge sulla successione al trono: mi rispose senza imbarazzo. A Pompei, in un convegno segreto, Benedetto Croce mi parlò francamente: “La Monarchia è finita, il Fascismo rovina tutto”
Un ricordo luminoso
A Merlinge, una spaziosa camera al secondo piano della villa è quella che Umberto occupa quando è ospite di Maria José. Generalmente, prima che si sposasse Maria Pia.
Tutta la famiglia si riuniva a Merlinge per le feste natalizie. Dopo il matrimonio della principessa, il Natale è stato spesso celebrato a Versailles, nella casa di Alessandro. In ricordo di una gita fatta con la moglie a Chambery, l’anno scorso, Umberto aveva regalato a Maria José una statuetta scolpita in legno, uno spazzacamino savoiardo (come Vittorio Emanuele III. che durante le passeggiate offriva ad Elena un sassolino o una conchiglia). Sino all’altro giorno. Maria José ha tenuto quella statuetta di valore materiale insignificante su un mobile della sua camera da letto, assieme a una conchiglia su cui suo figlio Vittorio ha dipinto per la mamma un veliero. Prima di ripartire per Lisbona, al’ termine delle vacanze, la principessa Maria Beatrice si è innamorata dello spazzacamino e se l’è portato via.
« Titti », afferma Maria José, « ha trovato che era “molto bellino’’ e l’ha voluto. I miei figli mi portano via tutto. Una gonna, un golfino, appena ho qualche cosa di nuovo, prendono e portano via. Non mi lasciano mai niente. Io sono sempre sprovvista di tutto».
È a Napoli che sono nati questi suoi figli, dai quali si lascia saccheggiare il guardaroba. Maria Pia, nel settembre ’34, Vittorio, nel febbraio ’37, Gabriella, nel febbraio ’40. Anche Beatrice, Titti, sarebbe nata a Napoli, se i principi di Piemonte nel ’43 non si fossero trovati a Roma dove, in seguito al rovesci della guerra, la situazione politica stava precipitando. Per questo Napoli. dove pure la raggiunsero a breve intervallo due tragiche notizie, la morte di re Alberto in montagna e quella della cognata Astrid in un incidente d’auto a Lucerna, rimane nel ricordo di Maria José un ricordo luminoso. E nel lungo periodo vissuto sotto il cielo partenopeo. quasi dieci anni, i giorni più belli, più ricchi, più felici sono stati quelli di villa Rosebery, sulla splendente scogliera di Posillipo.
Nell’inverno 1954-55, Maria José compì un viaggio in India: all’andata, l’aereo di linea che avrebbe fatto scalo al Cairo sorvolò un tratto del litorale italiano passò in vista di Napoli. Maria José rivide, attraverso il finestrino, scintillante nel sole, il paesaggio che le era caro, il golfo azzurrissimo, ilVesuvio. Si commosse e disse alla persona che l’accompagnava, con uno scatto ingenuo: «Perché non mi permettono di ritornarci? Non darei fastidio a nessuno, non farei nessuna propaganda. Ma sono i luoghi che amo». Sempre, quando si parla di Napoli, Maria José si turba e si rattrista. Una delle sue collaboratrici, Elena Bonocore, che si era recata a farle visita a Merlinge nei primi tempi dell’esilio commise una gaffe che lei stessa definisce ’’tremenda”. Maria José si lagnava di certe uggiose, umide giornate di Ginevra. «Ci vorrebbe il sole di Napoli», osservò la Bonocore. Capì immediatamente, dall’espressione che si dipinse sul volto di Maria José, dalla subitanea vampa di rossore, di avere, con quelle parole che le erano sfuggite, frugato in una ferita sempre rimasta aperta.
“Provavo una gran pena”
Maria José non ama che le si parli di Napoli, che le si faccia ricordare il tempo, quasi dieci anni trascorso laggiù. «È il paese dove sono stata più felice», mi ha detto e poi ha cercato di cambiare argomento. In seguito, parlandomi dell’infanzia dei suoi figli o della sua attività di crocerossina, il discorso è caduto più volte su Napoli. In quella città, checché si sia detto o scritto nell’epoca del referendum circa gli égarements sentimentali di Umberto e il ritardo della nascita di un figlio, Maria José è stata sposa innamorata e il principe ha avuto per lei spontanei trasporti di affetto, premure tenere. A Napoli, Maria José è stata giovine mamma trepida, presso la culla intarsiata d’oro e di corallo dei suoi bimbi. La schiettezza, la cordialità, la loquacità, la fantasia dei napoletani l’hanno conquistata. Le è rimasta, in quel suo italiano che parla con lievissimo accento straniero, qualche inflessione napoletana. Dice per esempio “terribbile”, pronunciando due ”b”, alla maniera dei meridionali. Napoli le piaceva “terribbilmente” con la sua generosità, la sua vivacità, il suo disordine. Ha conosciuto la Napoli delirante di gioia per la nascita di Maria Pia, di Vittorio, di Gabriella. Ha visto Napoli soffrire, sotto i bombardamenti, e sopportare senza lamentarsi la distruzione e la fame. «Provavo una gran pena», dice, «nel vedere tante rovine, gente sbandata, vittime innocenti. Ammiravo questa gente che sopportava e che lottava per sopravvivere. C’è un episodio: che ho raccontato tante volte, perché dimostra la gentilezza d’animo napoletana. Fu nel periodo in cui aspettavo Maria Beatrice. Ero per strada, a Posillipo, con Maria di San Cesario, verso le due del pomeriggio. Improvvisamente vi fu un attacco aereo: vidi nel cielo, dapprima, delle macchie d’argento, poi dei punti luminosi che cadevano. Vicino a noi, una batteria aprì il tiro contraereo. Non era piacevole. “Meglio entrare in una casa”. consigliò la San Cesario. Entrai: la gente si era rifugiata nel sottoscala. Mi diedero una sedia.
Una donna, incurante del bombardamento, uscì per cercare dei fiori.
Un’altra andò a preparare il caffè e tornò con una caffettiera fumante. E continuavano a dire; “Benedetti siano gli inglesi, che ci hanno procurato quest’onore!”. Come si esprimono bene, questi napoletani! ».
Napoli è la città d’Italia dove Maria José ha vissuto più a lungo.
È quella che l’ha meglio conosciuta e meglio compresa. Ed è quella che non la dimentica, che la rimpiange, che le vuole ancora bene. I pescatori di Posillipo, “vicini di casa” di Maria José che trascorreva tutte le estati, per i bagni, nella villa Rosebery, domandano sempre: «Che fa la nostra principessa?». Maria di San Cesario, che è stata la sua assidua accompagnatrice, durante la guerra, nei quartieri bombardati, negli ospedali, nelle case di gente che aveva comunque bisogno di aiuto, incontrò non molto tempo fa in un autobus una povera donna alla quale Maria José aveva fatto del bene, prima della guerra, fornendole i mezzi per curare un figlio malato. Di quindici giorni in quindici giorni la principessa di Piemonte: allora, rinnovava le sue visite in casa di quella donna e sempre si ripeteva la solita scena: la donna si buttava in ginocchio e diceva: «La nostra principessa, la nostra principessa. Che gioia, che felicità, in questa casa!». A distanza di anni, rivedendo la San Cesario che aveva accompagnato Maria José in tutte quelle visite, la buona donna mise in subbuglio l’autobus.
«Come sta, la nostra principessa la nostra regina? Che peccato, che peccato che l’abbiano mandata via». E si scioglieva in lacrime.
I principi di Piemonte si trasferirono a Napoli due anni dopo il loro matrimonio, nel 1933. Umberto, promosso generale di corpo d’armata, veniva ad assumervi il comando militare. Presero alloggio nell’antica reggia borbonica e un appartamento per loro venne sistemato al secondo piano, in quel lato del palazzo che si affaccia sul golfo.
Maria José avrebbe preferito Capodimonte, ma vi abitava la duchessa d’Aosta. Il suo desiderio di avere una casa più raccolta, più intima, che non fosse situata nel centro della città, poté realizzarsi l’anno dopo, almeno per il periodo estivo, quando il comune di Napoli mise a disposizione dei principi la villa Rosebery.
Meschinità dei fascisti
I napoletani, dapprima, giudicarono Maria José altera, distante. Le signore della nobiltà che frequentavano la corte dedicavano tutte le loro simpatie a Umberto, brillante, mondano, che si intratteneva lungamente in conversazione con loro e prestava il più cortese orecchio alle indiscrezioni di società. Il principe passava per “pignolo” nell’esercizio delle sue funzioni militari, era amabilissimo e tollerante nei ricevimenti a palazzo. Maria José, in quel cerchio ristretto di privilegiati che attorniavano lei e il marito, appariva impacciata o annoiata. Fortunatamente, a corte, un uscita cordiale di qualcuno, una battuta spiritosa, una infrazione all’etichetta rompevano l’atmosfera gelida di certi ricevimenti ufficiali.
Maria José poté ambientarsi più facilmente che a Torino. Presto strinse amicizie che sono tuttora quelle che le rimangono più fedeli e più devote. Fernanda dei duchi di Miranda, colta, sensibile, fantasiosa, divenne la sua confidente. Aveva un grazioso pied-à-terre a Posillipo, sul mare; e quando i principi fecero approntare per loro, come residenza estiva, villa Rosebery, la Miranda fu l’amica di casa. Con lei. certe sere, Maria José percorreva i vicoli della vecchia Napoli. Le piacevano quelle strade formicolanti di gente, di donne sedute davanti alle porte a godersi il fresco della sera, di bambini che vociavano; le strade drappeggiate di biancheria stesa ad asciugare tra finestra e finestra, così rumorose, così dense di vita. Diceva alla Miranda che in quel disordine si rivelavano ai suoi occhi le origini di una civiltà lontana. Per non farsi riconoscere le due signore mettevano degli occhiali neri e si vestivano bizzarramente. « Ih, quanto site brutte! », gridò loro in faccia una popolana, una sera. « Meno male», commentò la principessa, «che c’è qualcuno che dice ciò che pensa».
Un’altra amica era, come si è detto, la duchessa Maria di San Cesario, che si occupava di opere di beneficenza e che divenne la sua accompagnatrice durante le sue visite nelle case di gente bisognosa.
L’intenzione manifestata da Maria José di svolgere a Napoli una intensa attività assistenziale, creò i primi dissapori con le autorità fasciste. In un primo tempo, appelli diretti a Mussolini, a Roma, ottennero ascolto. Poi misteriosi “ordini superiori” crearono ostacoli ad ogni proposta della principessa.
«Organizzammo una volta a palazzo reale», mi ha detto Maria José, «una kermesse di beneficienza di due giorni, che si concluse con uno spettacolo. Tito Schipa si era offerto di cantare. Fu una festa che riuscì molto bene e si ricavarono duecentomila lire nette. Volevo destinare questo denaro all’Associazione per il Mezzogiorno. Ma il prefetto intervenne: si recò dal principe di Piemonte e gli chiese che la somma gli venisse consegnata, perché al suo impiego avrebbero provveduto le organizzazioni assistenziali fasciste. La Associazione non era fascista ed è per questo che non doveva essere aiutata, anche se da molti anni, assai prima che vi pensassero i fascisti, aveva creato nel meridione scuole, asili, ospedali». Maria José aveva salvato dallo scioglimento quella istituzione che si preoccupava di risolvere i problemi del sud.
Starace una volta disse che questi problemi non esistevano « perché il fascismo li aveva già risoliti». L’attuale senatore Umberto Zanotti Bianco, che ad essi aveva dedicato la sua appassionata attività di filantropo, aveva dovuto ritirarsi in disparte poiché era irriducibilmente antifascista. Si era, allora, occupato di archeologia; con la Zancani-Montuori avrebbe scoperto, nel 1934, il Santuario di Ero Argiva, a Paestum, che continua a dare tesori di scultura che risalgono al VI secolo avanti Cristo. Zanotti – Bianco stava scavando a Paestum quando l’Associazione per il Mezzogiorno, di cui continuava segretamente a interessarsi, si era trovata, in difficoltà con il partito. Lo si era avvertito della minaccia che incombeva ed egli ne aveva parlato con la principessa la quale aveva suggerito che l’Associazione si ribattezzasse Opera Principessa di Piemonte. E’ il solo modo di salvarvi. Coperti dal mio nome i fascisti non vi toccheranno, aveva detto. (Appena finita la guerra, per volere di Maria José, l’Associazione ha ripreso il suo antico glorioso nome). Data da allora l’amicizia di Maria José per Zanotti-Bianco. Attraverso lui, principalmente, la principessa avrebbe stabilito poi i suoi primi contatti con autorevoli esponenti dell’antifascismo.
«Non intendevo immischiarmi di politica dice ora, e non mi pare di buon gusto avanzare benemerenze antifasciste. Ma la meschinità dei fascisti, certi soprusi stupidi, mi irritavano. Ora non bisogna più far polemiche. Ma non era possibile che italiani illustri che non avevano voluto tradire un ideale di libertà rimanessero sepolti nel silenzio e che la monarchia si disinteressasse di loro. Io sono nata in un Paese libero, figlia di un Re democratico. Se in Italia nessun altro personaggio di Casa Reale vedeva e ascoltava quelle persone, sentivo il dovere di farlo io. Ai fascisti, che avevano le loro spie anche a corte, questo non poteva sfuggire. Una volta, un gerarca mi disse, con tono minaccioso; “Abbiamo tante veline sul suo conto”. Io non ho mai saputo che cosa siano le veline. Nelle iniziative più ingenue, più lontane da un significato politico, intervenivano i fascisti.