L’ombra di Maria Antonietta
«Come mi sembrano lontani quei giorni», dice ora Maria José.
«Quando, durante i festeggiamenti ufficiali, Umberto si recò a deporre una corona al monumento del Milite Ignoto e un fuoruscito italiano, De Rosa, sparò contro di lui, a me non venne detto nulla. Soltanto dopo seppi quel che era accaduto e riuscii a capire perché, alla colazione che c’era stata subito dopo all’ambasciata d’Italia, tutti si congratulavano con lui per il suo comportamento coraggioso. Anzi io mi domandavo: ”Si complimenta un fidanzato per il suo coraggio?”. Udito lo sparo, il principe nemmeno si era voltato. Tra i personaggi che lo accompagnavano vi fu uno sbandamento, ma egli rimase impassibile, calmissimo. I belgi erano ammirati di questo suo contegno. Alla colazione dell’ambasciatore Durazzo eravamo seduti vicini e Umberto si aspettava naturalmente che anch’io gli dicessi qualcosa, che mi felicitassi con lui del pericolo scampato, che gli manifestassi il mio rincrescimento per l’attentato.
Invece non gli dissi nulla, poiché ignoravo completamente i fatti.
Umberto si imbronciò per questo e più tardi non mi nascose di essere sorpreso per la mia indifferenza. Era così che l’amavo? Ridiventò di buonumore quando il malinteso poté essere chiarito. L’attentato di De Rosa fu l’incidente più clamoroso: ma in quel periodo i tentativi dei fuorusciti, autorevoli o sconosciuti, che tentavano di dissuadermi da quel matrimonio, furono numerosi. Ricordo che il conte Sforza, amico di mia madre, mi disse, allorché mi vide in Francia
che, diventando la moglie di un principe italiano sotto il fascismo, sarei andata incontro alle peggiori catastrofi. Mi giunsero centinaia di lettere anonime, moltissime dall’America del Sud, da Buenos Aires. Alcune erano minacciosissime e mi avvertivano che avrei fatto la fine di Maria Antonietta, che in Italia sarebbe scoppiata la rivoluzione e che a me avrebbero tagliato la testa. Dicevano che la monarchia in Italia non sarebbe durata e mi dipingevano l’avvenire a tinte
assai fosche. Ma io ero così entusiasta di diventare la moglie di Umberto che nulla mi spaventava.
Anzi, pensavo che se l’esistenza che avrei dovuto affrontare in Italia era incerta e piena di pericoli, allora valeva proprio la pena di vivere quest’avventura. Io non mi rendevo conto di quel che fosse la situazione di un Paese sotto la dittatura. Facevo vedere le lettere a Umberto. Lui rimaneva sempre impassibile, non spiegava mai niente. Però allora mi diceva: ’’Devi capire che in Italia non si può fare quello che si vuole”. Tutto questo mi incuriosiva, rendeva ancora più interessante per me la prospettiva di andare in Italia. Umberto ha una posizione difficile, pensavo.
Questo me lo rendeva più simpatico. Quando partii per Roma avevo un quadro così nero della situazione alla quale andavo incontro, che mi meravigliai, arrivando, di quel che in realtà trovai. Ci volle del tempo, degli anni, perché io capissi come stavano veramente le cose »
Il treno reale inviato da Roma per la sposa partì da Bruxelles il 3 gennaio 1930. Era composto di due vagoni-letto, una vettura-saloncino per i sovrani e una vettura-ristorante per le dame e i gentiluomini del seguito, oltre a un bagagliaio colmo di regali. Il conte Arborio Mella di Sant’Elia, cerimoniere di corte, era incaricato di scortare Maria José, i suoi genitori, i due fratelli e la cognata Astrid da pochi mesi sposa di Leopoldo, sino a Roma. La partenza avvenne fra applausi, inni e fiori: i belgi acclamavano la loro principessa che andava a sposare l’erede al trono dei Savoia.
Il viaggio fu lentissimo, con soste frequenti, fiori, folla, acclamazioni ad ogni fermata. A una stazione, in Toscana, re Alberto, impaziente, scese dal treno e si mise a passeggiare per sgranchirsi un po’ le lunghe gambe. Elisabetta ingannava la noia del viaggio leggendo e Maria José, nervosa, andava su e
giù da un vagone all’altro. Un ferroviere, sbalordito, la vide arrivare fino al bagagliaio. Alla stazione di Trastevere, ultima sosta prima dell’arrivo a Termini, dove attendevano i reali d’Italia, salì sul treno Umberto, accompagnato dal suo aiutante di campo. Fu una gentile improvvisata, che non era prevista dal protocollo. In divisa di colonnello dei granatieri, fece un compito baciamano alla sposa, poi la baciò sulla guancia e le offrì un mazzo di lillà e un altro mazzo di fiori alla suocera. Maria José indossava un abito bianco, gli occhi azzurrissimi le luccicavano di commozione.
Erano le 10 del 5 gennaio quando il convoglio fece ingresso alla stazione Termini. I binari erano stati ricoperti con una pedana rossa. Sotto la pensilina, addobbata di rosso, con bandiere e stemmi, attendevano Vittorio Emanuele III ed Elena. I due re, dopo una cordiale stretta di mano, si abbracciarono: un gesto inconsueto per Vittorio Emanuele, abituato a non esteriorizzare i propri sentimenti.
Luna di miele borghese
Maria José ricorda oggi i festeggiamenti per il suo matrimonio, che durarono una settimana e chefurono di una solennità eccezionale, con parole semplici: « Fu un cinematografo », dice. Il corteo delle carrozze lungo la via Nazionale, il ricevimento intimo a villa Savoia, il gran ballo al Quirinale, i saloni della reggia gremiti di invitati, il rito nuziale nella Cappella Paolina, le feste popolari, la visita al Papa Pio XI, le acclamazioni della folla quando gli sposi si affacciarono al balcone della reggia, la grande rivista militare ai Paridi, lo spettacolo di gala al Teatro dell’Opera, tutto si confonde nella memoria di Maria José come le immagini irreali di un film. Spesso, se ripenso alla mia vita, e confesso che non mi piace ripensarci, i fatti mi riappaiono labili, inconsistenti, come le immagini di un film. La rapidità con la quale tutto passa somiglia un po’ al cinema. Ma vi sono episodi, immagini, che rivedo come se fosse ieri. Per esempio, il primo sorriso di mio figlio Vittorio. Fu a Napoli. Stavo sola con lui, nella camera da letto. Lo guardavo, e lui sorrise. Poteva avere due mesi, e quel primo sorriso del mio bambino non si è mai cancellato dalla mia mente».
Dei sedici anni trascorsi in Italia da Maria José, i più ricchi, i più felici, sono quelli della nascita di Maria Pia e di Vittorio. Appena sposati, i principi conobbero un po’ di solitudine e di intimità a Courmayeur. E furono anzi criticati per questa luna di miele borghese. Poi si stabilirono a Torino, nella città dove Umberto era vissuto da scapolo e aveva mietuto cuori femminili. Le abitudini democratiche della principessa, il gusto che provava a uscire da sola, la sua insofferenza a sottoporsi a certe regole di etichetta facevano impressione all’aristocrazia piemontese. Le piaceva andare in tram, pranzare al ristorante, avvicinare chiunque. Persino andare in bicicletta, avrebbe voluto. Le simpatie più vive e più
spontanee Maria José le raccoglie in ambienti che non erano quellli della corte, fra gente della borghesia e del popolo. Il formalismo dei ricevimenti ufficiali, la riservatezza dei torinesi, 11 convenzionalismo di certe conversazioni da salotto procuravano su Maria José un effetto paralizzante. Le riusciva impossibile interessarsi a certe persone e a certi discorsi compassati, superficiali ; allora si trincerava nella sua timidezza. Una timidezza più apparente che reale, giacché con coloro che le ispiravano simpatia e fiducia, che parlavano sinceramente, che le dimostravano cordialità ed affetto, Maria José non era affatto timida. Oggi ella non vuol
dire nulla che possa apparire come una critica a certi ambienti italiani e in coscienza, non possiamo riferire alcuna sua frase che possa apertamente essere interpretata come tale. Ma ha avuto un giorno uno slancio spontaneo, che ci ha rivelato molte cose. «Dove andrebbe se un giorno, in incognito, potesse entrare in Italia?», le avevamo chiesto. «Certo, non andrei al circolo dei nobili», fu la risposta.
«E dove, allora?». «In un vicolo di Napoli, in uno dei rioni più popolari, dove la gente è generosa e buona», disse, senza esitazione.
Fu nei due anni vissuti a Torino che trovò credito nella stampa francese e suscitò pettegolezzi e commenti in Italia una notizia inventata di sana pianta. Un giornale arrivò a scrivere che Maria José aveva sparato, per gelosia, contro l’attrice del cinema Jeannette Mac Donald, da lei sorpresa a Cannes in compagnia di Umberto. Ancora oggi Maria José sorride e si domanda come si sia potuto architettare una storia simile. «Si scrisse», m’ha detto, « che Umberto una sera si era allontanato da me con una scusa e nascostamente aveva raggiunto la Mac Donald sulla Costa Azzurra. Di lì progettavano di fuggire insieme, sa dove? Nel Belgio, chi sa perché, proprio dove c’erano i miei! L’unico spunto vero, in tutta la storia,è che una sera, mentre eravamo invitati In casa della contessa Bor-gogna, mio marito, che aveva un forte raffreddore, andò via prima di me per tornarsene a casa e mettersi a letto. Quella sera c’era Curzio Malaparte, in casa Borgogna. Era la prima volta che l’incontravo e poiché mi dispiaceva lasciare a metà la conversazione che avevamo intavolata, fui io a chiedere ad Umberto il permesso di rimanere.
“Non c’era niente di vero”
è incredibile come, su un particolare così Insignificante, si siano potute imbastire tante fantasticherie. Non c’era niente di vero, Umberto in quei giorni rimase a casa a curare il suo raffreddore e io non mi mossi dal suo fianco. Non avevo mai visto la Mac Donald e, a quel che so, quest’attrice a quel, l’epoca non si trovava in Europa, anzi non c’era mai venuta. Mi dicono che in seguito la Mac Donald abbia dichiarato di aver lasciato correre la notizia senza smentirla perché in fondo le faceva pubblicità. Io ero stupita che dal niente si potessero inventare certe cose ».
È questo il solo accenno che abbia udito fare a Maria José circa le voci, apertamente messe In circolazione alla vigilia e dopo il referendum, di una mancata intesa sentimentale fra i due coniugi, fin dai primissimi tempi del loro matrimonio. Quando parla di Umberto con estranei, Maria José non pronuncia mai il suo nome. Rispettosa dell’etichetta, dice sempre: il Re. Dissapori, anche gravi, diversità di vedute, di gusti, di atteggiamenti ve ne possono essere stati. Testimonianze in proposito ne esistono, per quanto la soglia di certi segreti non l’abbia mai varcata nessuno.
Ma questo non trapela dalle parole di Maria José che manifesta verso ”il Re” e certi aspetti del suo carattere a volte una commossa tenerezza. a volte una leggerissima, indulgente ironia. Il fatto che Maria José viva a Merlinge e che Umberto viva a Cascais, periodicamente fa riaffiorare le voci che tra loro esista un dissidio inconciliabile. «Il Re non può abitare in Svizzera, come non potrebbe abitare in Francia o in un altro Paese confinante con l’Italia», mi ha detto Maria José. «Si creerebbe una situazione imbarazzante per certi governi e per lui soprattutto, che dovrebbe evitare ancor più di adesso ogni gesto politico. Anch’io in Svizzera devo limitare i miei contatti con italiani. Il clima del Portogallo è dannoso alla mia salute e la ragione per la quale vivo a Ginevra, oltre al fatto che qui c’è Franceschetti, è che questo Paese è il più sinceramente democratico che io conosca, è quello dove l’incognito della mia vita privata viene più scrupolosamente rispettato, ed è a poca distanza dal Belgio, dove vivono mia madre e i miei fratelli. Il Re mi telefona e mi scrive spesso, mi aiuta nelle ricerche di libri e di documenti sulla storia dei Savoia
che sto scrivendo, di comune accordo vengono prese le decisioni che riguardano i nostri figli. Le occasioni per incontrarci sono frequenti, sia perché due o tre volte l’anno un evento familiare, un matrimonio, un battesimo, un anniversario ci riunisce, sia perché il Re ed io stabiliamo di trascorrere insieme alcuni giorni di vacanza, o in Svizzera o altrove. Siamo stati insieme diverse volte nel sud della Francia o in Savoia. Qui, a Merlinge, il Re ha soggiornato sovente. Quando ero in clinica, a Lisbona, rimaneva ore e ore al mio fianco a leggermi dei libri ».
«È un uomo più colto e più sensibile di quello che la gente non lo giudichi e di quanto lui stesso non lasci apparire. Ha una rigida educazione militare che gli fa reprimere certi gesti e che in certi casi gli ha impedito di prendere decisioni che potevano apparire una disobbedienza verso suo padre ».