Centinaia di lettera anonime mi intimarono di non sposare Umberto
Quando lo vidi per la prima volta, Umberto era vestito da marinaretto
Elena sperava nel nostro matrimonio
Le emozioni di quel lontano giorno del febbraio 1918, in cui conobbe il principe bruno che aveva contemplato sulle copertine dei settimanali illustrati, Maria José non le rivela ad estranei. È fieramente gelosa di questi sentimenti troppo intimi e svia il discorso, con un’abilità tutta sua, quando le domande cercano di penetrare il suo riserbo. È rimasta fissata nella sua memoria la visione di una Venezia del tempo di guerra, spoglia dei suoi monumenti, sotto il cielo invernale, coi canali gelati. Umberto era vestito da marinaretto, in uniforme da fatica di ruvido panno grigioverde, e lei portava un vestitino bianco, con lunghe calze nere, e un cappotto grigio ferro. Maria José aveva undici anni e mezzo; Umberto, tredici. Era dignitoso, compito, gentile, ma un po’ distratto da ciò che vedeva, per la prima volta, in zona di guerra.
“Come state bene insieme!”
Da Firenze, Solaro del Borgo e l’immancabile miss Hammersley avevano accompagnato Maria José sino a Lispida, nella villa Emo, dove si trovavano Alberto ed Elisabetta, giunti da Ventimiglia. I sovrani d’Italia, con i principi, attendevano i loro ospiti a Battaglia, vicino a Padova. Maria José era intimidita dalla circostanza e non si staccava dal fianco di sua madre; ma quando la regina Elena, con gesto affettuoso, le aprì le braccia, la fanciulla vi si gettò con slancio.
Elena e Vittorio Emanuele vollero che Maria José raccontasse loro la sua vita di collegio, le sue impressioni di Firenze e dell’Italia, che parlasse delle sue amiche italiane.
E l’ascoltavano con interesse, studiandola attentamente; forse vedevano già in lei la futura nuora.
Quando la comitiva reale, nel pomeriggio, si recò in gita a Venezia e Maria José prese posto sulla gondola accanto a Umberto, la principessa Jolanda, che contava allora diciassette anni, commentò: «Ma come state bene insieme, voi due».
Quella frase, detta spontaneamente, con una leggera punta di malizia, fece arrossire Maria José, come se i suoi pensieri più segreti fossero stati messi a nudo. L’improvviso imbarazzo ruppe l’incanto romantico di quella rapida escursione sulla Laguna; da quel momento rimase assorta e silenziosa sino al commiato. Alberto ed Elisabetta ripartirono il giorno seguente per la Costa Azzurra e miss Hammersley ricondusse Maria José al Poggio.
Non è improbabile che, prima di separarsi, le due madri avessero scambiato qualche impressione sulla simpatia che pareva esistere fra i loro ragazzi; ma solo più tardi, quando la guerra era ormai finita da un pezzo e Maria José era già una signorina, Elisabetta ed Elena, rivedendosi altre volte, fecero progetti più espliciti. «Mia madre», ricorda oggi Maria José, «mi ripeteva spesso che Elena le diceva di sperare in un matrimonio».
Vennero le vacanze dell’estate 1918 e Maria José andò a trascorrerle, come tutti gli anni, nel Belgio, nella sbrindellata villa di La Panne, vicino alla mamma infermiera e al papà soldato. Trovò il maggiore dei fratelli, il futuro Re Leopoldo, in divisa di fante e Carlo in divisa di cadetto della marina britannica. Anche quell’anno, come faceva sempre quando i suoi figli erano riuniti, Re Alberto segnò col lapis rosso, allo stipite di una porta, nella sala da pranzo, la loro altezza. Erano molto cresciuti, da quando era cominciata la guerra.
Non erano più i ragazzi discoli che facevano disperare le governanti. E Carlo, il più saggio dei tre, che da quando aveva imparato a scrivere teneva un diario, non doveva più registrare su quel quaderno, come faceva regolarmente, le birichinate della sorellina. Nel 1912, quando c’era stata un’eclissi di sole
e Maria José aveva frantumato sotto i piedi gli occhiali affumicati che le avevano dato per osservare meglio il fenomeno, e per castigo era stata mandata a letto, Carlo aveva scritto sul suo diario; ’’Questa è la più grande eclissi mai avvenuta, e Maria Jose non la vedrà”.
Ora Maria José era assennata e un po’ malinconica; nostalgica dell’Italia, lontana dalle compagne di collegio, forse inconsapevolmente innamorata, recitava i versi di Foscolo pieni di pessimismo. E Carlo,sconcertato, non sapeva che cosa scrivere sul suo diario. Erano gli ultimi mesi, anzi le ultime settimane che la famiglia reale belga trascorreva a La Panne. La guerra stava per finire, la vittoria era già nell’aria. La Panne, quasi, ridiventava una stazione balneare, lontana dal pericolo e piena di ufficiali in licenza che andavano in cerca di avventure. Tre ufficiali francesi, un giorno, in passeggiata sulle dune, incontrarono una signora solitaria; le si avvicinarono, attaccarono discorso, divennero insistenti, tanto dissero finché ottennero di farsi invitare a casa di lei per un tè. La signora li guidò sino a una villa e, fattili entrare nella living-room, disse: «Ora vi farò conoscere mio marito». Un uomo alto, miope, in divisa da generale venne avanti ed Elisabetta, poiché era lei, fece le presentazioni: «Questo è mio marito, Re Alberto».
Cento di questi aneddoti, echeggiati sui giornali belgi, rendevano popolare la Regina che durante la guerra, con le sue iniziative e la sua attività instancabile negli ospedali, aveva conquistato l’amore del popolo e aveva fatto dimenticare la sua origine germanica. Per procurarsi il materiale necessario negli ospedali, Elisabetta non aveva esitato ad affrontare i pericoli di un volo in Inghilterra. Al ritorno, aveva chiesto al pilota di farle provare le emozioni di un looping, ma il pilota, per ragioni di sicurezza, si era rifiutato, adducendo una scusa qualsiasi. Ho capito, non sapete fare il looping», aveva commentato secca secca la Regina.
Ritorno a Bruxelles
L’offensiva generale alleata che doveva mettere termine alla guerra ebbe inizio il 27 settembre; a metà ottobre, Alberto ed Elisabetta, sbarcavano da una torpediniera ad Ostenda appena liberata. Il 22 novembre, undici giorni dopo l’armistizio, il Re, la Regina e i loro tre figliuoli facevano un trionfale ritorno a Bruxelles, attraversando la città a cavallo. «Ero molto fiera di me, quel giorno», dice Maria José. «Mi tenevo dritta in sella, dietro a mio padre che avrebbe fatto volentieri a meno di quella parata, se fosse stato possibile. A papà non piacevano queste cose. Aveva fatto il suo dovere come soldato e come Re, ma gli atteggiamenti marziali, gli esibizionismi non erano il suo forte».
A un’amica di collegio, nel corso dell’estate, Maria José aveva scritto: «Pensa che gioia, i miei genitori mi hanno finalmente dato il permesso di stare con voi nel dormitorio. Mi farò dare un letto accanto a te. Sarò come tutte le altre». Ma questa gioia non si sarebbe più realizzata poiché, finita ormai la guerra, Alberto ed Elisabetta non giudicarono più necessario di rimandare la figliuola al Poggio Imperiale. Riprese, per la principessa delusa, la vita di Laeken. Ma il collegio italiano, i due anni trascorsi a Firenze sono tra i più cari, incancellabili ricordi di Maria José. Quando, subito dopo 1’8 settembre, da Sant’Anna di Valdieri, con i suoi quattro figli, dovette cercare scampo in Svizzera, tra gli oggetti portati in salvo c’erano le lettere delle sue amiche di collegio. «Bisogna che una sera le rileggiamo insieme », disse a Bossilka Christic quando la rivide a Glion, presso Losanna. «E ogni volta che ci rivediamo», mi ha detto da parte sua la signora Christic, «gira e rigira il discorso cade sugli anni di Firenze. Tre anni fa, vi fu al Poggio il primo raduno delle ex-convittrici. Appena seppe che vi avrei partecipato anch’io, Maria José mi disse: ”Vi invidio. Voglio che mi raccontiate tutto, al ritorno”. Prima che partissi, mi affidò una lettera per le antiche compagne di collegio. Trovai, al Poggio, un’atmosfera di maggior libertà di quella che c’era ai nostri tempi. La nuova direttrice, signora Rosetta Scopoli, ha cambiato diverse cose. Ma l’educazione morale che vi si impartisce è quella di allora e come sempre le “poggioline” formano una grande famiglia. Ciò che noi anziane apprendemmo al Poggio ci ha guidato per tutta la vita, ci ha dato forza nei momenti dolorosi. Credo che anche in Maria José sia rimasto questo spirito di “poggiolina” e che anche lei nelle traversie della sua vita, abbia trovato una risorsa negli insegnamenti degli anni di collegio».
Il mio primo concerto
Molto a malincuore Maria José si rassegnò a non ritornare a Firenze, a riprendere in patria il suo ruolo di principessa reale. A Laeken non era più così libera. Le regole di corte erano assai più rigide di quelle che la severa signora Patrizi Imponeva alle sue allieve. E poi, in , Italia, Maria José aveva lasciato le sole amiche che avesse mai avuto.
Alle più intime, prima di partire in vacanza, forse presaga che non sarebbe più ritornata, aveva lasciato una sua fotografia (ma miss Hammersley, chi sa perché, le aveva fatte sequestrare dalla direttrice).
Gli studi di Maria José proseguirono al collegio delle suore del Sacro Cuore. E perché non dimenticasse l’Italiano appreso a Firenze re Alberto fece venire dall’Italia la professoressa Licari Barberini, una donna attempata, paziente, coltissima alla quale Maria José si affezionò molto. Dalla madre, amica di pittori, poeti, scrittori, musicisti, scienziati, Maria José apprese in quegli anni l’amore per le arti belle. La passione per la musica, che poi a Merlinge, nei giorni in cui la sua vista era minacciata, le ha dato così gran conforto, Maria José la coltivò allora sotto la guida di Elisabetta. Quest’estate, in vacanza a Stuyvenbcrg, Maria José faceva tutti i giorni un’ora di musica con la regina madre, lei al pianoforte ed Elisabetta del Belgio al violino, come facevano quando Maria José era signorina. Ysaye, il grande violinista belga, la convinse a suonare il concerto di Schuman a una serata di beneficenza. «Ebbi una paura terribile, quella volta», dice Maria José. Nel dicembre 1945, al teatro Eliseo di Roma, udendo lo stesso concerto, disse alla persona che l’accompagnava: «Questo pezzo (il concerto per pianoforte e orchestra) l’ho suonato anch’io, in Belgio, tanti anni fa. Il teatro era pieno come stasera. A un certo punto, mi sono sbagliata. Ma il direttore d’orchestra mi ha saputo seguire e nessuno si è accorto dell’errore. Finito il concerto, il direttore mi disse: «“Se non si è perduta d’animo in questa occasione non si perderà mai più”».
Le occasioni di far ritorno in Italia, per brevi viaggi, non mancarono a Maria José, in quegli anni. E lentamente, ad ogni suo viaggio, maturavano i progetti di Elena di dare in moglie a Umberto la figlia del re dei Belgi. Il principe, nel 1922, durante una crociera a bordo di una nave da guerra, fece scalo in un porto belga. Qualche anno dopo, invitata al matrimonio del Duca delle Puglie con Anna d’Orléans, Maria José lo rivide a Palermo. Nel corteo nuziale, anzi, il cavaliere che le dava il braccio era proprio Umberto. Significativi applausi della folla salutarono il passaggio della giovane coppia il pubblico, con le sue simpatie istintive, intuisce e quasi favorisce certi eventi.
Nel settembre del 1929, quando egli si recò a far visita a Maria José, ospite della contessa Van de Steen al castello di Losange, il fidanzamento venne deciso. Fu al ritorno da una passeggiata nel bosco con Umberto che Maria José, andando incontro a sua madre, le disse: «È fatto. Siamo fidanzati». Il fidanzamento ufficiale avvenne a Bruxelles il mese dopo. «Sono felice», disse Maria José alla sua prima istitutrice, «io bionda, lui bruno, saremo una coppia perfetta. Andrò a vivere per sempre in Italia. Mi pare un racconto di fate ».