Tra le “Poggioline”
La regina Elisabetta si rifiutava di mettersi l’elmetto, che tutti, anche le donne, mettevano nelle zone più esposte. Maria José e i suoi fratelli non volevano mai scendere nel “fifhaus” «quando i tiri tedeschi raggiungevano La Panne. Anzi, poiché c’era una delle governanti che aveva una paura matta e al minimo rombo si rintanava nel rifugio, i ragazzi andavano in giro per le dune a raccogliere schegge e le gettavano addosso alla governante dalle feritoie. « Sono stata colpita! », urlava la poveretta.
Queste erano le monellerie di quella principessina bionda che, all’inizio dell’anno scolastico 1917- 1918, fece ingresso, giubilante e malintenzionata, nell’aristocratico
collegio per giovinette di Poggio Imperiale. Malintenzionata perché le sue marachelle sarebbero continuate. Tutte le collegiali della sua età ne hanno commesse di eguali, come per esempio «quella di suonare i campanelli delle ville durante le
passeggiate scolastiche. Ha suonato i campanelli di tutte le ville dei dintorni di Merlinge anche il principe Vittorio, nella sua infanzia.
Quando la cosa venne riferita a sua madre, costei, non senza un certo sorriso di compiacimento, commentò: « Anche lui! ».
Una delle più care compagne di collegio di Maria José vive tuttora a Ginevra: Bossilka Christic. È parente della regina Elena e vedova di un diplomatico jugoslavo dell’anteguerra. L’amicizia di collegio tra Magi e Philipotte (così si erano ribattezzate al Poggio), ora continua nell’esilio. Ma dall’uscita dal collegio in poi le due ’’poggioline” rimasero in rapporti epistolari. A lei anzi la principessa Maria José, appena fidanzata con Umberto, scrisse: ’’Sono così felice che non l’ho (sic!) posso esprimere, e che gioia di ritornare per sempre in Italia! Che amo già tanto”. (L’ortografia di Maria José era malsicura, allora, ma che importa?).
Bossilka rivide Maria José principessa di Piemonte quando suo marito nel 1937 divenne rappresentante diplomatico del governo reale jugoslavo a Roma ed entrambi si recarono a Napoli e furono invitati a colazione dai principi al palazzo
reale. A questo proposito, quando il diplomatico jugoslavo informò Palazzo Chigi che riteneva doveroso, nel prendere possesso del suo ufficio, di rendere visita al principe
ereditario, gli si rispose che poteva dispensarsi dal farlo. La Christic dopo di allora rivide Maria José e Umberto a Roma, nella Pasqua 1946, qualche settimana prima che Maria José diventasse regina, ”la regina di maggio”. (« Non lo dica a mio marito », le confidò allora la principessa: « l’altro giorno sono andata a trovare una donna malata, in un rione di comunisti. S’è riunito sotto le finestre un gruppetto di persone che mi guardavano con una faccia brutta. Che dovevo fare? Sono uscita e andando loro incontro ho detto: ’’Posso fare qualche cosa per voi?”. Si sono scostati per lasciarmi passare. Anzi, le facce brutte hanno sorriso e mi hanno accompagnato fino alla vettura »).
Le prime amicizie a Firenze
Bossilka Christic, una bella signora entre les deux ages, dai grandi occhi neri, ha i cassetti pieni di cimeli: lettere, fotografie, ritagli di giornale. Sono ricordi del Poggio
Imperiale, il collegio di Maria José.
« Le davamo del lei », dice la Philipotte di una volta, « e la chiamavamo mademoiselle ». Erano gli ordini della direttrice signora Patrizi, magra, alta, autoritaria, che poi sarebbe stata “silurata” dai fascisti; perché il giorno della proclamazione dell’impero sui colli fatali di Roma, nell’ora in cui parlava il duce, chiuse l’altoparlante e mandò a letto le allieve dicendo: « Qui non si fa politica ». Mademoiselle non era autorizzata a mangiare nel refettorio. Pranzava, a malincuore, alla tavola della direttrice, con la vice-direttrice e la governante inglese che doveva tenerla sotto sorveglianza. Aveva una stanza tutta per sé, accanto a quella di miss Hammersley. E tempestava di lettere i suoi: ’’Perché non posso mangiare con le altre nel refettorio? Perché non posso avere un lettino nel dormitorio?”. Disegnava la ca-
ricatura degli insegnanti sui quaderni. La maestra Gina Puccini, che le voleva molto bene, magra, sempre vestita di nero, era ”il gatto nero”. Maria José odiava la matematica e quando finiva l’ora di lezione faceva tali salti nei corridoi
che il professor Soci una volta disse: « Questa non è una principessa. Si direbbe piuttosto un cavallo », e guardando le altre allieve sorrise compiaciuto per questa sua battuta. Anche Maria José rise: « Del resto, a me sono sempre piaciuti i cavalli ».
A Laeken lei e i suoi fratelli avevano trascorso ore di gioia con i loro poneys e anche con vitellini, mucche, agnelli. Una volta stava facendo soffocare una mucca a furia di rimpinzarla dì mele. Amava gli animali a modo suo, ma li amava. L’aveva appreso da sua madre che, nel parco di Laeken, aveva dato ordine a un gendarme di mettere in fuga, battendo le mani, i gatti che molestavano gli usignuoli. Lo ha raccontato Pierre Loti, grande amico della regina Elisabetta.
« Non si fa loro del male », si giustificò con lui la regina per quello che poteva apparire ’’uno sgarbo” ai gatti. « si fa soltanto paura».
Una volta Maria José venne espulsa di classe. Era un angelo
invece alle lezioni di storia, di letteratura, di musica. E sgranava gli occhi di ammirazione quando Clara Rocca, una delle sue compagne più anziane, suonava il piano. Si applicava agli studi, in complesso. E le piacevano i musei, gli Uffizi, Pitti.
« Tutto mi piaceva di Firenze », dice ora Maria José, « le strade, i colli, i cipressi, Boboli, l’Arno, i ponti, i palazzi, i monumenti, le chiese. A Firenze studiavo veramente. Avevo cominciato a prendere sul serio gli studi verso i quindici anni. Un rimprovero affettuoso di mio padre mi aveva fatto impressione: ”Tu sei veramente ignorante. Non sai niente”. Mio padre era buono, mi ha molto aiutata. Abbiamo letto insieme Aristotile. Con lui ho studiato la filosofia. Anche dopo il mio matrimonio, mi mandava dei libri ».
Piacevano a Maria José la campagna toscana, le fattorie, i contadini al lavoro nei campi, coi loro cappelloni di paglia, la terra indorata dal sole. Durante la sua infanzia non aveva amato altre persone all’infuori di quelle che componevano la sua famiglia, e aveva fatto le prime ingenue confidenze soltanto alla sua pecorella. Non aveva visto intorno a sé, prima, che istitutrici, governanti, cameriere di palazzo, dame e funzionari della corte. A Firenze fece le prime, tenaci
amicizie con ragazzine della sua età. Finì con l’ottenere che non la chiamassero più mademoiselle ma che le dessero del tu, con grande disappunto di miss Hammersley. E ottenne pure di sedere a tavola con le compagne, nel rumoroso refettorio. La gioia di essere ’’come le altre” Maria José la provò allora, quella sola volta, in Italia.
La prima immagine di Umberto
Su l’Illustrazione italiana aveva contemplato con ammirazione l’immagine di un giovanissimo principe, in divisa grigioverde da marinaretto, come quella dei fanti di marina del battaglione San Marco. Umberto di Savoia era un bel ragazzo, slanciato, dai lineamenti fini, occhi castani e pensosi come quelli della madre montenegrina, bocca carnosa e dentatura perfetta, sempre sorridente, elegante e aggraziato nei gesti. A qualcuna delle
compagne più anziane, Maria José aveva confidato la sua ammirazione per quel giovanetto in grigioverde, che conosceva soltanto in effigie e che presto avrebbe conosciuto di persona.
Al colonnello di cavalleria Solaro del Borgo venne affidato nel febbraio 1918 l’incarico di recarsi a prendere a Firenze la principessa Maria José, per accompagnarla a Lispida, nella villa dei conti Corinaldi, dove avrebbe riabbracciato il re e la regina dei Belgi, giunti in Italia per una visita a Vittorio Emanuele ed Elena, in zona d’operazioni. Erano i giorni in cui si combatteva sul Carso. Da Roma, con Jolanda, Mafalda e Umberto, la regina d’Italia era andata a raggiungere il marito, nelle retrovie del fronte. Umberto era gioioso di poter vedere da vicino che cos’era la guerra.
L’arrivo di Solaro al Poggio mise in grande agitazione Maria José. Il primo slancio fu di allegrezza. Poi la principessa rimase soprappensiero: « Sì, ma come faccio a uscire?
Non ho niente da mettermi ». Tutto il suo guardaroba era costituito dai vestiti di educanda: grigi, con la sottanina pieghettata, allacciata da una cintura verde, collettino
bianco e grembiulino nero. Solaro del Borgo non si perse d’animo. Si recò da una sarta di via Tornabuoni e ritornò indietro con una montagna di scatoloni. Maria José provò
tutti gli abiti e volle che il colonnello desse il suo parere su ognuno.
Scelse quello che di comune avviso parve il più adatto alla circostanza.
Anni dopo, quando Solaro del Borgo andò a Bruxelles al seguito della regina Elena, Maria José gli disse: « Sa che conservo sempre il vestito di Firenze? ».