Il triste addio
L’ultima notte insonne su suolo italiano Maria José la trascorse a villa Maria Pia, nel luogo più caro ai suo cuore, nella casa dove aveva conosciuto momenti di felicità profonda, dove aveva potuto talvolta dimenticare i disinganni del “mestiere” di principessa.
L’allora ministro d’Italia Alberto Rossi Lunghi è a bordo del ’Duca degli Abruzzi” per rendere omaggio a Maria José: poi, sulla banchina, la moglie dell’ambasciatore offrirà alla regina un mazzo di rose rosse legate con un nastro tricolore. A proposito del suo arrivo a Lisbona, Maria José ricorda che la piccola Maria Beatrice (aveva allora appena tre anni) andò per prima incontro aU’ammiraglio portoghese comandante la squadra che rendeva gli onori e gli tese la manina. L’ammiraglio rimase, in un primo momento, stupito: poi riacquistò padronanza di sé e rispose col saluto militare.
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Per non attrarre l’attenzione, solo pochi amici le tenevano compagnia in quella tiepida notte di giugno durante la quale rimase a lungo immobile, impietrita davanti a una finestra, a contemplare per l’ultima volta Napoli addormentata, Napoli che non sapeva nulla di quella partenza e che non avrebbe visto partire la ’’sua” regina, allo spuntare dell’alba. Oltre al dolore di dovere per sempre lasciare l’Italia, c’era nell’animo di Maria José il sentimento umiliante di essere costretta a fare la parte di una regina e di una moglie pavida, che partiva un giorno prima o solo cinque minuti prima dell’ora dovuta, mentre Umberto rimaneva a Roma in una situazione che comportava ancora dei rischi imprevedibili, una situazione penosa, difficile. I suoi occhi arrossati dalla stanchezza e dall’angustia non versarono lacrime. «Sono stata forte nei momenti difficili…». Espresse la speranza irrealizzabile che la si lasciasse rimanere come privata, nell’Italia che amava, promettendo di non intrigare, di non essere di intralcio a nessuno. Gli amici le fecero comprendere ciò che lei stessa comprendeva, poiché il senso della realtà inesorabile era vivo e lucido in lei, anche se il sentimento le faceva desiderare altra cosa. Alla fine chiese se almeno le si potevano accordare ventiquattr’ore di tregua, il tempo di riempirsi gli occhi e la mente della bellezza di Napoli, delle immagini che si riaffacciavano tra i pini di villa Maria Pia, con gli echi gioiosi di giorni lontani. La promessa fatta da Umberto a De Gasperi doveva essere mantenuta: dal Quirinale si rispose che il Duca degli Abruzzi doveva salpare all’ora fissata. «Siamo partiti che faceva ancora buio», racconta Maria José; «Gabriella aveva la febbre, quella notte aveva delirato. Si era fatto tutto il possibile per risparmiare ai miei figli ogni impressione penosa. ’’Farete un bel viaggio”, si continuava a ripetere loro. Maria Pia e Vittorio erano eccitati dalla novità. Quante di queste ’’novità” hanno conosciuto i miei figli nel corso della loro infanzia! Vittorio era elettrizzato al pensiero che per la prima volta in vita sua saliva a bordo di una nave da guerra. Principe di Napoli, erede al trono d’Italia, non aveva mai avuto questa gioia, a causa della guerra. Ci imbarcammo. Marinai e ufficiali furono gentili con noi. La nave portava ancora i segni della guerra. Feci gran parte del viaggio chiusa in cabina, ma salii in coperta quando giungemmo in vista della Sardegna e rivolsi un addio silenzioso, dal profondo del mio cuore, all’ultimo lembo di terra italiana. Una squadra portoghese rese gli onori alla nave che inalberava per l’ultima volta lo stendardo reale, quando si entrò nella rada di Lisbona. L’ammiraglio in capo e il ministro d’Italia Rossi-Longhi salirono a bordo.
E Titti, sempre lei!, andò loro incontro e, dandosi grande importanza, porse la manina. Dolce incoscienza dell’infanzia in mezzo a questo dramma vissuto! L’ammiraglio, interdetto, le fece un impeccabile saluto militare. Al momento di
sbarcare, un picchetto presentò le armi e il resto dell’equipaggio ci salutò con uno sventolio di fazzoletti. Ero triste, ma fui un po’ confortata dalla signora Rossi-Longhi
che, sulla banchina, mi porgeva un mazzo di rose rosse legate con un nastro tricolore ».
Nel giugno scorso, al momento in cui stava per entrare nella clinica dove dovevano venire alla luce i gemelli Dimitri e Michel, la principessa Maria Pia volle telefonare a Merlinge. per avvertire sua madre. Le venne risposto che quella mattina, in automobile, Maria José era partita per Bruxelles, per recarsi presso la regina Elisabetta sofferente. Maria Pia attese alcune ore, poi telefonò al castello di Stuyvenberg, dalla nonna.
Maria José non era ancora arrivata. Fatto sta che, quando pervenne a Bruxelles una nuova comunicazione telefonica che annunciava la nascita dei nipotini, Maria José era appena arrivata.
Era quasi mezzanotte. Mangiò un boccone in fretta e ripartì subito per Parigi. Viaggiò tutta la notte; i giornalisti appostati la videro arrivare alla clinica alle nove del mattino, con la giacca del tailleur gettata sulle spalle, un foulard in testa e un comodo paio di sandali.
Non aveva avuto ancora il tempo di mettere ordine nel suo abbigliamento, era praticamente in viaggio da due giorni, eppure appariva fresca e sorprendentemente giovane.
Tutti dissero, e i giornali lo scrissero, che Maria José dimostrava quindici anni di meno. Effettivamente, in questi ultimi tempi, Maria José sta conoscendo una seconda giovinezza. Il suo aspetto è sereno, disteso. Il suo sguardo è luminoso. Quell’espressione di corruccio che si ritrova incerte sue fotografie dei primissimi anni dell’esilio è scomparsa dal suo viso. Non si scorgono i fili d’argento nella massa dei suoi capelli biondi. La sua figura rimane snella, gli anni non l’hanno appesantita. Nel settembre 1943, subito dopo il suo passaggio in Svizzera dalla Val d’Aosta, era smagrita e accasciata. Ora, ogni tratto della sua persona rivela una pace interiore che è una conquista della maturità.
Le inquietudini, i risentimenti, gli affanni del passato non hanno lasciato visibile traccia in Maria José. Una crisi di superamento deve essersi sviluppata in lei in coincidenza con l’infermità che la minacciava nel bene più grande, quello della vista.
La mamma è molto malata
L’esilio, la malattia, i disinganni della sua vita di principessa e di regina le avrebbero offerto un comodo pretesto per abbandonarsi a un ozio dorato. Invece ha voluto affrontare una nuova esperienza: lo studio, le ricerche di storia. Quasi per ripicca, ha voluto dimostrare che in lei, regina in esilio, poteva rivelarsi una nuova e non comune vocazione: quella di scrittrice, di autrice di documentate biografie dei principi della casa di Savoia.
Frattanto, ad uno ad uno, i suoi figli l’hanno raggiunta a Ginevra.
Quando lasciò il Portogallo, inferma, neppure Maria Pia. che aveva quasi quattordici anni, si rendeva conto della gravità delle condizioni di salute di sua madre. Maria José tornava da un viaggio compiuto nel Marocco in compagnia della regina Elisabetta allorché si rivelarono i primi sintomi del minaccioso disturbo agli occhi. Com’è costume di casa Savoia, con i ragazzi non si drammatizzò. «È una cosa da niente», venne detto loro, « la mamma rimarrà per alcuni giorni in clinica e poi ritornerà guarita».
Questo era l’ordine che Umberto e Maria José avevano dato alle governanti. Solo la cameriera che aveva cura di Titti, la quale aveva quattro anni, vi contravvenne. « Sai, la mamma è molto malata», disse alla bambina. «E Titti», mi ha raccontato Maria José, « bbe un gesto generoso; mise da parte giorno per giorno tutti i dolci che le davano, preparò di nascosto un pacchetto e venne a portarmelo» Vittorio aveva dieci anni. In compagnia di lui, che aveva una crisi di crescenza ed aveva bisogno di cambiare aria. Maria José partì per Ginevra, per affidarsi alle cure di Franceschetti. Il giovanissimo principe era, per usare le sue stesse parole, ’’molto avvilito” di lasciare il Portogallo, i piccoli amici, le sorelline, il babbo e di venire in Svizzera, che per lui equivaleva a un desolato paese artico: «Non sapevo una parola di francese, non conoscevo nessuno, e tutto solo non avevo neppure voglia di giocare».
(«Lo so», commenta Maria José, con ironia. «Vittorio era avvilito perché in Svizzera doveva cominciare a studiare»). In un certo senso, insomma, Maria José ha dovuto, nel primo periodo di Ginevra. riconquistare i suoi figli, che a Cascais avevano amici e divertimenti che a Merlinge non c’erano. Maria Pia raggiunse la madre e il fratello nel ’52, quando ebbe preso la licenza media e iniziò il corso per interpreti a Ginevra. Ma non molto tempo dopo avrebbe conosciuto Alessandro e si sarebbe sposata. Da poco più di un anno, la seconda delle figlie, Maria Gabriella, è a Ginevra. Quanto a Titti, l’ultima, solo nel periodo delle vacanze trascorre alcune settimane con Maria José. E’ una signorina, ormai, ma sua madre la vede sempre come una bambina.
Quest’estate, prima di recarsi in Italia come quasi tutti gli anni, Titti ha trascorso un periodo di vacanza-premio con Maria José a Bruxelles, in casa della nonna. È stata a Gand, a Bruges, a Ostenda. Poi, per alcuni giorni, anche in Olanda. Ad Amsterdam, Maria José l’ha condotta al museo reale, per farle vedere i Rembrandt. «Titti è un vero teatro», dice la regina, «con aria seria seria ne combina sempre una delle sue ed io non sono capace di sgridarla perché mi fa tanto ridere. Al museo, vedevo che invece di guardare i quadri si appartava in un angolo e rimaneva sprofondata nella lettura del catalogo, lo mi domandavo che cosa trovasse di tanto interessante in quelle pagine. Poi scoprii che, tra pagina e pagina, aveva nascosto un romanzetto. Mi guardò con un’espressione così buffa che rimasi disarmata. Da quel momento, però, non si staccò più dal mie fianco e rimase ad ascoltare con grande attenzione le spiegazioni che le davo, sui quadri che vedevamo».