Voci calunniose
Maria José sperava che il governatore della Libia e il viceré d’Etiopia avessero sufficiente influenza su Mussolini. Aveva conosciuto Italo Balbo quando lei e Umberto erano stati suoi ospiti in Libia, durante il viaggio ufficiale che vi avevano compiuto nel 1935. «Ricordo», mi ha detto la regina, «che Balbo fin da allora deplorava gli eccessi del fascismo e temeva le conseguenze che essi potevano avere sull’avvenire del Paese. Era un uomo dinamico e parlava chiaro ».
Dopo questo viaggio erano circolate in Italia voci calunniose sull’amicizia tra la principessa e il quadrumviro. Erano state sparse dai più prossimi collaboratori di Mussolini o dallo stesso Duce, per compromettere Balbo, che era dichiaratamente monarchico, agli occhi di Vittorio Emanuele III. La manovra venne sventata da Balbo, che trovò modo di fare pervenire le prove raccolte contro i calunniatori al Re. All’appello rivolto loro da Maria José nel maggio 1940, Balbo e Amedeo d’Aosta risposero prontamente. Entrambi si recarono a Roma e separatamente ottennero di parlare con Mussolini. Tanto l’uno che l’altro avevano la responsabilità del comando in teatri operativi lontani e avevano il dovere di informarlo che le truppe erano male armate e insufficienti. Mussolini non diede loro ascolto. La guerra fascista” era irremovibilmente decisa.
Napoli divenne presto il maggiore centro ospedaliero e uno degli obbiettivi più esposti all’offesa aerea. L’abnegazione di Maria José crocerossina, il suo coraggio di fronte al pericolo, l’impegno che la principessa di Piemonte mise nell’adempimento dei pietosi doveri di infermiera riscossero l’ammirazione del napoletani. «Tutto ciò che si riusciva a fare», dice, «era poca cosa di fronte alle innumerevoli miserie, alle devastazioni e ai lutti che aumentavano. Ho potuto aiutare, con le mie infermiere, molte persone: feriti, sinistrati, profughi. Fortunatamente, non ero mai stanca. Passavo le giornate negli ospedali, o a ricevere i feriti e gli infermi che sbarcavano dalle navi, o nei quartieri bombardati.
Anche nei mesi in cui aspettavo Maria Beatrice, le forze non mi abbandonarono. Nonostante il mio stato potei continuare il mio lavoro. Una stella mi protesse, anche nei momenti più critici. Il giorno in cui una scheggia entrò nella mia camera da letto, non ero a palazzo. Nel porto quel bombardamento aveva causato un disastro; sei navi da guerra affondate e duemila marinai annegati o bruciati. Il sacrificio di tante vite lacerava il cuore. Davanti a. tante sciagure non c’era tempo di pensare al pericolo, né alla stanchezza. Debbo dire che l’esempio l’avevo In casa, perché mai un Savoia conobbe la paura. Tanto mio marito quanto mio suocero mi dicevano che per loro essere esposti al pericolo era una cosa naturale, che faceva parte della loro condizione. Non solo a Napoli, ma dovunque, e fra gente di ogni ceto, gli italiani mi diedero magnifici esempi di forza d’animo. In Sicilia o in Italia settentrionale la gente sopportava con tanta dignità i peggiori disastri e le più duro privazioni. A Torino vidi un’operaia che aveva perduto una gamba in un bombardamento.
La sua rassegnazione era ammirevole. Ma l’episodio che mai potrò dimenticare è quello cui assistetti a Napoli, Ero nella corsia di un ospedale, presso il lettino di un soldato giovanissimo, quasi un ragazzo, che stava per morire. Colpito alla testa da una scheggia, aveva perso la vista. Aveva capito che il suo stato era ormai senza speranza. Mi pregò di rimanergli vicina e di tenergli una mano posata sul cuore. Feci ciò che mi chiedeva. Sorridendo con un’espressione di beatitudine, mi disse che era felice di morire per la patria e per il Re. Provai quel giorno una pena profonda, terribile. E quanti, come questo giovane, sono morti eroicamente senza che nessuno abbia parlato di loro». Ormai, sul finire del ’42, la sconfitta appariva inevitabile anche a moltissimi di coloro che il 10 giugno del 1940 prevedevano una vittoria facile e rapida. In quale abisso sarebbe precipitata l’Italia? « Dovunque andassi», dice Maria José, « tutti mi chièdevano la stessa cosa. I feriti, gli infermieri, i medici che incontravo negli ospedali. Nella strada, negli uffici, nelle sale di concerto, innumerevoli volte, persone sconosciute mi si avvicinavano per manifestarmi la stanchezza, l’angoscia del Paese. E in numero sempre crescente, altre persone mi chiedevano udienza. Tutti mi incitavano a fare qualcosa affinché al Paese fosse risparmiata la totale distruzione. Si chiedevano a me assicurazioni che andavano al di là di ciò che io ero in grado di assicurare ».
Sia i gesti di apparente sottomissione al fascismo che sono stati rinfacciati a Maria José subito dopo la guerra dagli avversari della monarchia, sia la sua attività di “principessa antifascista” di cui persino dei repubblicani hanno voluto darle atto sono stati amplificati e deformati dalle polemiche che hanno preceduto e seguito il referendum. Maria José, con accenti di sincera umiltà, dice di essersi adoperata nei limiti delle sue possibilità di donna per fare qualcosa, mentre allo stesso tempo si rendeva conto della inutilità dei propri tentativi di influire su decisioni che non dipendevano da lei. « Mi si chiedeva se il re avrebbe fatto il colpo di Stato. Io non sapevo nulla e rispondevo: “Sì, lo farà”. Così mi assicurava Acquarone. Volevo tranquillizzare tutti coloro che si rivolgevano a me, non potevo deluderli».
I principi di Piemonte, nell’imminenza della nascita di Maria Beatrice, si erano trasferiti a Roma.
Era prudente che Maria José trascorresse le settimane che mancavano alla venuta al mondo del quarto figlio in un luogo meno esposto.
Trenta bombe era cadute nel recinto del palazzo reale di Napoli. Nel luglio del ’42 vi erano stati nella città quattordici pesanti bombardamenti. Tanto Maria José quanto Umberto appresero l’arresto di Mussolini, il 25 luglio 1943, a cose avvenute. E dieci giorni dopo, inaspettatamente, Maria José ricevette ordine dal re di partire con i quattro figli per Sant’Anna di Valdieri.
Il suo invio in quella residenza costringeva la principessa a rimanere, per un lungo periodo, appartata dalla vita italiana. « La situazione è così grave che non dovràrimanere lassù per molto tempo», le disse uno dei suoi amici più fedeli, per confortarla. La calata delle divisioni tedesche, dopo 1’8 settembre, avrebbe obbligato Maria José e i suoi figli a cercare scampo in Svizzera.
“Ci hanno cacciato a calci”
« Da Sant’Anna di Valdieri ci eravamo spostati a Sarre », racconta là regina; «di qui, prima di partire per la Svizzera, volli andare ad Aosta, dove feci una minuziosa visita dell’ospedale militare. Dopo colazione, con j figli e con un piccolo seguito, iniziai il viaggio. “Carolina” (così avevo battezzato la mia automobile, di un modello antiquato) era guidata dall’autista Fabretto, che rimase con noi durante tutta la guerra. Sulla macchina c’erano con me Maria Pia, Vittorio e il marchese Resta Pallavicino. In un’altra Gabriella, Titti, la loro istitutrice inglese, miss Smith (”Missy”), due camerière e l’agente di polizia Cecinato. Ricordo la gioia di Titti, che era piccolissima, quando vide i cani del Gran San Bernardo. Pernottammo a Martigny, poi proseguimmo per Montreux. Non vi rimanemmo a lungo. Sull’altra sponda del lago c’erano i tedeschi e il governo svizzero temeva un colpo di mano. Dicono che esistessero le prove di un piano tedesco per rapire mio figlio Vittorio, ma io non ci credo, il generale Guisan, comandante in capo dell’esercito svizzero, mi comunicò che dovevamo andare in un luogo più sicuro. Ci trasferimmo sul lago di Thun, a Oberhofen, in un piccolo albergo abitato da vecchie signore.
Era un soggiorno triste: studiavo, facevo passeggiate, andavo a sciare con i bambini, ma ero sempre in pensiero per l’Italia, per mio marito, per gli amici rimasti laggiù. Ricevetti inviti per andare coi partigiani, ma mi si disse che invece di portare aiuto avrei portato impiccio e di fronte a tanta responsabilità rinunziai. Però debbo dire che tante volte fui assalita dalla tentazione di rivarcare clandestinamente la frontiera. C’erano altre donne, con i partigiani, io avrei potuto benissimo dividere la loro vita. Una volta andai a Lugano e vidi quelli che partivano per portare dei messaggi in Italia. Morivo dalla voglia di accompagnarmi a loro. Avrei messo gli scarponi e sarei andata, per essere vicina a quelli che si battevano contro i tedeschi. Sono stata trattenuta dal farlo.
Passammo il primo Natale a Oberhofen, si fece l’albero per i bambini. Ebbero in dono dei pullover di lana e i coupons per il cioccolato. I bambini erano discoli, spensierati, allegrissimi. A Montreux, le mie figlie canzonavano Vittorio, giocando ai tedeschi che venivano a rapirlo. La notte, al minimo rumore. Resta Pallavicino si levava e ispezionava il giardino con una torcia elettrica in mano.
I miei figli lo chiamavano ”il fantasma”. Per tenerli buoni dicevo loro che gli svizzeri ci avrebbero cacciati via, ma era inutile. Erano scatenati. A Oberhofen, un giorno, chiusero a chiave dal di fuori tutte quelle vecchie signore e fecero scomparire le chiavi. Ricordo le urla indignate delle prigioniere, le occhiatacce che mi lanciavano perché non sapevo tenere a freno i miei figliuoli.
«Sul finire della guerra, quando fummo trasferiti a Glion e di lì spesso scendevano a Losanna, misero la rivoluzione in un grande magazzino. C’erano delle scale mobili e loro le percorrevano all’inverso: salivano sulla rampa che scendeva e scendevano sulla rampa che saliva. Il direttore chiamò la polizia. ”Ci hanno cacciati via a calci”, mi raccontò tutta trionfante, arrivando a casa, mia figlia Maria Pia. Dovetti sgridarla, pur comprendendo che nella descrizione dell’avventura aveva esagerato i particolari, per spaventarmi».