Avrei voluto combattere fianco a fianco coi patrioti – Pranzo con Hitler – Molti mi scrivevano contro la guerra – Soffrii al capezzale dei feriti – Come passammo in Svizzera
Il luogo che Umberto prediligeva, per prendervi il bagno, era lo scoglio di Punta Nera, davanti a Marechiaro. Vi si faceva accompagnare con la barca dal marinaio di villa Maria Pia e sovente consumava lì una frugale colazione, che si portava in un cestino. Fece così anche il 3 settembre 1939. Contrariamente al solito, quel giorno era di nerissimo umore. Si tuffò, fece una nuotata, e quando uscì dall’acqua rimase a lungo pensieroso, guardando il mare. Alfonso aveva intanto steso per terra una tovaglia e apparecchiato per la colazione. Il principe rimaneva immobile, cupo, immerso nei suoi pensieri.
«Altezza Reale, è pronto», lo avvertì timidamente il marinaio. «Ma tu. Alfonso, non sai niente? ». «Altezza Reale, no». «è stata dichiarata la guerra. Pensa che cosa significa, un’altra guerra».
I principi di Piemonte erano tornati in quei giorni, mentre gli avvenimenti precipitavano verso la tragedia, dalle vacanze in montagna a Sarre. Trascorrevano tutti gli anni un altro breve periodo di riposo a villa Maria Pia e poi riprendevano, dopo l’intimità del periodo estivo, gli impegni della loro vita ufficiale a palazzo.
Maria José era succeduta all’anziana duchessa d’Aosta nella carica di ispettrice delle infermiere della Croce Rossa. Questo lavoro già assorbiva molto del suo tempo. Nella guerra in cui il Paese non avrebbe tardato ad essere coinvolto, avrebbe dedicato ad esso, come prima crocerossina d’Italia, tutta se stessa. Il 10 giugno 1940, dominando ogni altro sentimento, la principessa disse a una delle sue più intime collaboratrici: «Non perdiamo tempo. Ora bisogna pensare al Paese, venire in aiuto alla gente che soffre, pensare alla gente che muore». Si interruppe un istante, poi aggiunse: «Ma ho paura che questa guerra sia funesta per l’Italia e dannosa per la dinastia».
Maria José aveva fatto tutto quanto era in suo potere per scongiurare l’entrata dell’Italia nel conflitto. Sino all’ultimo, nel periodo della cobelligeranza, aveva sperato che il nostro Paese potesse staccarsi, prima che l’irreparabile accadesse, dalla Germania. Bambina, aveva visto la sua patria invasa dai tedeschi. Da allora le era rimasto vivo nel cuore l’odio per gli invasori. Hitler le incuteva timore, con la sua feroce volontà di dominio.
Hitler mangiava cioccolato
Lo aveva conosciuto nel 1938, quand’egli era venuto in Italia ed era stato anche a Napoli, per assistere all’imponente parata navale che Mussolini aveva fatto organizzare nel golfo per convincerlo della potenza fascista. «Al pranzo ufficiale», racconta Maria José, «ero seduta accanto a lui.”Parlava solo tedesco ed io naturalmente non facevo il minimo sforzo di attenzione per tentare di capire ciò che diceva; ho della lingua tedesca una conoscenza sommaria. Non toccava cibo, non beveva vino. Dicono che i cattivi non bevano vino e, se devo giudicare Hitler, il detto deve essere vero. Durante tutto il pranzo, non smise di sgranocchiare cioccolato. Mi parve ridicolo, coi uoi gesti troppo compassati e troppo ossequiosi». Neppure con altri personaggi del seguito di Hitler, Maria José fu loquace. Al ritorno dall’Italia, frau Meissner, consorte di un altissimo funzionario nazista, disse alla viscontessa Davignon, moglie dell’ambasciatore del Belgio a Berlino: «La vostra principessa, a quel che ho capito, non ci ama. Ci ha stretto la mano, ma non ha sorriso e non ci ha detto una parola».
Da tempo, assai prima che l’alleanza tra fascismo e nazismo si concretasse nel patto d’acciaio, italiani coscienti delle sventure che il perdurare della dittatura doveva inevitabilmente procurare all’Italia rivolgevano appelli a Maria José. Molti attribuivano alla giovane principessa, a una donna, possibilità di influire sul corso degli eventi che lei non aveva. Nei casi in cui poteva, Maria José aveva dato il suo aiuto. Aveva ottenuto che confinati politici, Italiani ingiustamente arrestati, venissero liberati, con interventi discreti, valendosi delle simpatie che sapeva suscitare fra persone che avevano un’autorità.
E vi furono anche, più tardi, condannati che erano destinati alla pena estrema i quali per intercessione di lei poterono essere salvati.
L’Italia era ancora in pace, non belligerante, quando Maria José venne avvertita che il Belgio, che la sua patria di origine stava per essere invasa per la seconda volta.
«Lo seppi», racconta, «da Galeazzo Ciano. Sapevo che Ciano era bene informato. Comunicai la cosa, immediatamente. al l’ambasciatore del Belgio a Roma, con tutte le precauzioni di segretezza. Egli mi ringraziò, ma mi disse che riteneva impossibile un’eventualità del genere. Era persuaso invece che i tedeschi spargessero ad arte quelle voci, raccolte da Ciano, proprio perché avrebbero attaccato lo schieramento franco-inglese da un’altra parte. Qualche giorno dopo, l’ambasciatore mi telefonò. Disse una sola frase: «Vostra altezza può dormire fra due guanciali». Non so in base a quali più solide informazioni egli avesse acquistato la certezza che il Belgio non correva pericolo. Io stessa mi tranquillizzai. Quarantotto ore dopo, invece, le divisioni tedesche varcavano di sorpresa la frontiera belga ».
Nel 1939, presaga che la guerra l’avrebbe per lungo tempo separata dai suoi, era andata a Bruxelles per rivedere la madre e i fratelli.
Al ritorno, si era fermata a Parigi, per visitare un istituto di puericoltura. «La sera », mi ha detto, « amici francesi mi portarono in un teatro di chansonnier. Davano una rivistina di attualità e c’era uno sketch che prendeva in giro Hitler e Mussolini. Il fuhrer e il duce stavano davanti a una porta e litigavano perché ciascuno dei due si riteneva in diritto di passare per primo. Era esilarante. Risi, come tutti quanti nella sala. Arrivata in Italia, seppi che la cosa era stata riferita immediatamente a Mussolini e che egli ne era rimasto offeso. Per una ragione o per l’altra, Mussolini si arrabbiava spesso. I miei viaggi a Salisburgo, dove mi recavo unicamente per ascoltare dei concerti diretti da Toscanini, lo indispettivano. I dittatori spesso non hanno senso di humour e per paura del ridicolo finiscono per rendersi ridicoli davvero».
L’invasione del Belgio aveva posto fine a quella prolungata stasi degli eserciti che i francesi, ritenendosi al sicuro dietro la Maginot, avevano allegramente definito “la drôle de guerre”. Si iniziava la guerra-lampo. Ancora poche settimane e l’Italia sarebbe entrata nel conflitto. « Mi giunsero in quei giorni », dice Maria José, « da ogni parte, molte lettere di persone che mi incitavano affinché, facendo intervenire mio marito o parlando io stessa a mio suocero, impedissi una partecipazione italiana alla guerra, al fianco dei tedeschi. Degli ufficiali mi scrivevano: ’’Siamo con lei, non vogliamo essere complici degli invasori del Belgio”. Oppure: ’’Amiamo la Francia. Non vogliamo combattere contro i francesi”.
Dovevo andare a Torino, per ispezionarvi la sede della Croce Rossa. La questura di quella città comunicò che il viaggio era sconsigliabile, perché si temeva che, approfittando della mia presenza, i torinesi facessero una dimostrazione contro la guerra. Dovetti rinunziare al viaggio. E distrussi anche, obbedendo al consiglio che qualcuno mi aveva espresso quando gliele avevo mostrate, tutte le lettere.
Moltissime erano firmate; effettivamente, conservarle significava far correre un rischio a chi le aveva scritte. Ma mi rincresce di non averle più, perché ora sarebbero un documento. Non potevo, comunque, rimanere inerte. Dovevo fare un tentativo per esaudire il voto di tanta gente. Chiesi a Balbo e ad Amedeo d’Aosta di mettere in guardia Mussolini, di rivelargli il vero stato d’animo del Paese, di persuaderlo a non lanciare l’Italia nella guerra. Ma non è servito a niente ».