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Regina Maria José, interviste

La mia vita nella mia Italia – di Giacomo Maugeri 1958 – 1

By Ottobre 27, 2018Ottobre 24th, 2021No Comments

Merlinge.

Maria José di Savoia, ritratta nella cucina della villa di Merlinge, mentre spiana la pasta per fare le tagliatelle. Questa inconsueta immagine, che presenta l’ultima Regina d’Italia in un momento della sua serena vita familiare, fa parte d’una serie di fotografie eseguite appositamente per illustrare l’eccezionale testo che incominciamo a pubblicare da questo numero: ”La mia vita nella mia Italia”, ricordi di Maria José. Per la prima volta, dopo dodici anni di esilio, la consorte di Umberto ha acconsentito a rievocare la sua adolescenza e, soprattutto, gli anni trascorsi in quell’Italia ch’ella ha considerato e considera la sua vera patria.
Il racconto evita lo stile ’’ufficiale”, ed anzi si attiene al tono intimo, quasi da diario; ciò che lo rende tanto più interessante e spesso commovente. Molte fotografie dell’infanzia di Maria José, messe a disposizione dalla regina madre del Belgio e finora inedite, completano il nostro servizio, che offriamo ai lettori come documento umano di straordinario interesse e, indirettamente, come testimonianza di prim’ordine su un intero periodo di storia italiana.

 

 


 

Sono stata forte nei momenti difficili e debole nei momenti facili», mi diceva ultimamente Maria José, nel confessare di aver avuto davvero paura di perdere la vista quando, nell’agosto del 1947, giunse in Svizzera, senza le sue bambine e senza Umberto.

L’avventura più dolorosa della sua vita era incominciata a Lisbona. Una emorragia che l’aveva molto anemizzata. Incertezze nella diagnosi ed esitazioni. da parte dei medici, trasfusioni di sangue eseguite con ritardo. Si ha ragione di ritenere che vi sia stato anche errore nella determinazione del gruppo sanguigno e di conseguenza una reazione violenta dell’organismo indebolito.

«Dopo due giorni non ci vedevo più. e allora mi sgomentai. Aruga, lo specialista fatto venire dalla Spagna consigliò, un clima più vivificante di quello atlantico. La Svizzera. Ginevra offrivano il clima adatto. E qui c’era Franceschetti, uno dei maggiori oculisti che si conoscano. Quello che era perduto era perduto. Parte dei nervi ottici, non irrigati sufficientemente era atrofizzata. La sola speranza era di frenare l’estendersi del male».

Lei sa com’è quando si tratta di una regina, ci ha detto a sua volta Adolphe Franceschetti. « prima che qualcuno osi fare quel che c’è la fare si perde del tempo prezioso. Quando la Regina è arrivata qui non si poteva dire subito se il male si sarebbe aggravato o no.
L’importante era non  perdere altro tempo, eseguire gli esami che erano necessari e praticare immediatamente le cure del caso.  E’ tutto quello che ho fatto. La mia cliente si rendeva conto del pericolo passato e di quello presente ma non l’ho mai vista abbattuta. Forse internamente lo era. A volte era difficile esaminarla: si sottoponeva agli esami con riluttanza e da questo capivo che preferiva non sapere se andava meglio o peggio. Dopo un anno circa di cure ho potuto dirle: ’’Credo che siamo fuori pericolo”».

Maria José ha avuto fortuna. Il campo visivo è tagliato in due, ma in alto e al centro i nervi ottici sono intatti. La parte di vista che ha potuto salvare è perfetta. Vede nitidamente tutto, anche a grande distanza, e non è mai stata miope, come qualcuno crede. I suoi occhiali da sole non sono graduati e non sempre se ne serve. Maria José vede come vedrebbe un individuo dalla vista normale che guardasse al di là di un muretto alto a livello degli occhi. Perciò piega la testa in avanti quando avverte un ostacolo vicino. Ma legge e scrive per giornate intere, senza risentire fatica agli occhi e da sola, in campagna, cammina sicura anche in terreno accidentato. La spaventano un poco i cani, perché quando le si avvicinano troppo escono dal suo campo visivo. In mezzo a molta gente si confonde un poco. In montagna, appena ha potuto, ha ripreso a praticare lo sci.


Semplicità e sincerità

 

 

Ma quando nel 1947 arrivò a Ginevra, nascondeva la sua infermità a tutti. Una suora disse, la prima volta che le fu fatto l’esame della vista: « Questa donna è straordinaria. Non ci vede quasi più ed è entrata qui con tanta disinvoltura». Maria José andava e veniva dalla clinica anche per sottoporsi a dolorose punture agli occhi. «Grazie, sto molto bene», rispondeva sempre quando usciva. Suo fratello Leopoldo, che abitava Le Reposoir, aiutò a trovare una villa non lontano da Ginevra. Così Maria José si installò a Merlinge, in una villa antica, in aperta campagna, a monte della strada che da Ginevra va ad Evian. All’ingresso della tenuta c’era una fattoria, che entusiasmò Maria José. Ma decise la scelta di Merlinge (le erano state offerte altre due ville) perché le piacque la cucina: ampia, ariosa, cordiale. «Era una giornata tetra, uggiosa, quando venni a visitare Merlinge», mi ha raccontato Maria José, «ma quando entrai nella cucina mi sentii riconfortata. La cucina è importante». E soggiunse scherzosamente: «Si mangia ogni giorno, non è vero? Ricordo che la Regina Elena passava sempre qualche ora della sua giornata in cucina e che le piaceva stare davanti ai fornelli. Mio figlio Vittorio ha preso dalla nonna: è bravissimo. Cucina sempre lui la salsa per gli spaghetti, quando invita i suoi amici. A me mia suocera insegnò molti piatti e anzi ricordo che mi legalo un libro alto così, pieno di ricette, accompagnandolo con una affettuosa dedica. Anche a mia suocera è piaciuta la cucina di Merlinge. Mi fece una visita di due giorni, appena dopo che si era stabilita a Montpellier. Era ghiotta delle nespole del Giappone: le mangiava cogliendole dall’albero. Ce ne sono molte nel giardino. Ma allora erano ancora acerbe. Quando maturarono gliene mandai un cesto. Mi ringraziò con una lettera assai gentile».

Mentre Maria José parlava, pensavo alla complessa personalità di questa donna non comune, principessa, madre e regina, che in realtà pochi hanno intimamente compreso. Ho avuto ripetute occasioni di parlare con Maria José, in questi ultimi tempi. La prima volta, a Parigi, quando sono nati i gemelli diMaria Pia. Poi a Bruxelles, dove trascorreva un periodo di vacanze presso la madre regina Elisabetta del Belgio. Infine a Merlinge, in questo paesaggio ginevrino tra il lago e la montagna che fa da sfondo abituale alla sua vita. Ho anche parlato in Francia, in Belgio, in Svizzera, in Italia con le persone che meglio la conoscono. Nel nostro Paese, Maria José ha lasciato vecchi amici fedeli che condividono i suoi ricordi di un’epoca inquieta che ebbe per lei i suoi giorni di felicità. A Ginevra si è creata nuovi amici che le sono assai affezionati, che ammirano il suo coraggio e la sua forza di volontà, di oggi e di ieri.

Al di fuori di questa cerchia di intimi, Maria José è un personaggio discusso. Alcuni la dicono fredda,
distante e anche bizzarra, ricordando a questo ultimo proposito che sua madre discende dai Wittelsbach. È uno sciocco luogo comune.
Altri la giudicano una timida incorreggibile, costantemente ricacciata nell’involucro della sua timidezza dai disinganni subiti. Per molti, soprattutto dacché è incominciato il suo esilio, è una figura malinconica ammantata di solitudine. Questo giudizio è il più corrente, è quello che si trascinano dietro tutti i sovrani che non hanno potuto rimanere sul trono, come se l’autorità, il fasto delle corti, l’ossequio dei sudditi fossero i soli elementi indispensabili della loro vita.
Gli italiani di cuore tenero, quando la rivedono, irresistibilmente piangono.

Ci sono due Marie José, lei stessa lo ammette; affrettandosi però a soggiungere che ora queste due
immagini contrapposte si sono molto avvicinate e quasi si fondono in una sola. Una è la Maria José che,
costretta a recitare una parte, si rifugia dietro atteggiamenti alteri.

L’altra Maria José è quella che cerca la semplicità e la sincerità.
Allora il suo riserbo, che è lo schermo di una innata timidezza, cade: ha slanci spontanei e i suoi occhi
azzurri e trasognati si illuminano.
Una libertà soprattutto, che solo l’esilio poteva accordarle, seppure non interamente, è quella che gelosamente difende: la libertà di scegliere i suoi amici, di frequentare soltanto le persone che più stima
ed apprezza: i semplici e gli artisti. «Vi sono persone», mi diceva, «che in me provocano una reazione di tedio invincibile: la loro presenza, la loro vanità, la vuotaggine, i loro atteggiamenti mi stancano o addirittura mi impoveriscono. Davanti a loro mi sento irritata, paralizzata ».

 

Non volevo studiare

 

Anche se le vicissitudini della sua vita sono state molte. Maria José non pensa che la dose che il destino ha riserbato a lei sia più pesante e più penosa di quella riserbata alla media degli uomini e delle donne. Soprattutto poiché ritiene di essere giunta a una felice svolta dell’esistenza, al di là della quale si aprono nuove strade. Si era preparata con impegno ad essere regina, e se avesse potuto rimanere in questa alta funzione l’avrebbe assolta con entusiasmo, con la dignità e la nobiltà che sono nel suo carattere e con la passionalità di un temperamento che, in lei, nata nel nord, ha i caldi toni di quello italiano. «Nella sua vita e nelle sue esperienze fra noi nelle sue speranze e delusioni, assai più che in quelle del marito e degli altri principi, ritroviamo le esperienze, le speranze e le delusioni della nostra generazione, tra il fascismo e l’antifascismo, tra la guerra e la catastrofe. Lei, una straniera, una donna è il personaggio più espressivo della decadenza dinastica» : così ha scritto, con obbiettività e non per un ossequioso moto di cavalleria, nell’esemplare ritratto di lei tracciato dopo il referendum, Domenico Bartoli, convinto repubblicano.

L’Italia, con i suoi tesori d’arte, con la vitalità e la spontaneità della sua gente, è il tenace, profondo, indistruttibile amore di Maria José: un amore che data dall’infanzia e che via via si è arricchito di nuovi
scopi e di nuovi entusiasmi; Firenze, Napoli, Roma, il mare, l’azzurro, il calore e il sapore della vita tra noi hanno lasciato una traccia incancellabile nel suo cuore. Si sentiva italiana, ancor prima di diventare principessa italiana per matrimonio. Una volta, riferendosi a gente di un Paese straniero, scrisse a una compagna di collegio, al Poggio Imperiale: « Non sono come noi ». Si è immedesimata della nostra vita, delle vicende alternate di grandi speranze e di sventure che caratterizzano gli anni da lei trascorsi in Italia, non solo per difendere il suo posto di regina, ma perché avrebbe voluto continuare a vivere tra noi fino all’ultimo giorno della sua vita. Pianse e si disperò molto la notte che precedette la triste, indimenticabile alba della sua definitiva partenza da Napoli.
«Non potrei rimanere in Italia, come privata?», chiese al senatore Zanotti-Bianco, il più fedele dei suoi amici, che non ebbe la forza d’animo di accompagnarla sino alla nave che doveva condurla a Lisbona.

Vide per la prima volta il nostro Paese prima dell’altra guerra. Ve la condussero, in viaggio-premio, i suoi genitori, Alberto ed Elisabetta, per un breve soggiorno in Riviera. Di questo suo incontro con l’Italia mi ha parlato, a Bruxelles, la sua prima istitutrice, un’attempata, dignitosa signora che da molti anni ha lasciato il servizio della casa reale belga e ora ha un negozio sul boulevard Anspach.

 

I sovrani del Belgio viaggiavano in veste privata e il sindaco di Santa Margherita aveva fatto affiggere
un manifesto di benvenuto per raccomandare alla popolazione di rispettare il loro incognito. Ciò che incantò Maria José bambina fu di trovare i fiori sul piatto, sulla bella tavola imbandita all’italiana. La signora belga mi ha descritto com’era allora la principessina, i suoi giochi, i suoi capricci. Per un eccesso
di riguardo, mi ha taciuto certi episodi che poi la stessa Maria José ha tenuto a raccontarmi. Nel Belgio ho riscontrato una certa tendenza a far cadere nell’oblio certe marachelle della giovanissima principessa che stridono con la mentalità compassata dei sudditi belgi e di cui invece Maria José va molto fiera. I belgi ’’ufficiosi” dicono: «Era ubbidiente e studiosa». Maria José smentisce vivacemente: «Ero indisciplinata e non volevo studiare».