Intervista di Bruno Gatta
Trent’anni dopo Umberto Ricorda le vicende che segnarono la sua deposizione da re con distacco storico ed umano. “A volte sembra ieri tanto intensamente ho vissuto quelle giornate, ma a volte sembra che siano passati secoli, tanto uomini e cose di allora sono lontani“, mi dice ricevendomi a Cascais ed accompagna la frase con un sorriso gentile e semplice. In questa piccola Villa Italia, che mi ricorda per certa successone di salotti e certo stile di arredamento le sale della palazzina del Quirinale, l’ala abitata dai genitori di Umberto con i ragazzi, prima di trasferirsi a Villa Ada sulla via Salaria , l’ultimo Sovrano regnante della Casa dei Savoia, non vive da ex re in esilio che rimpiange il passato e sogna la restaurazione. No, lui è sempre re, cui quel destino che si chiama storia ha tolto il regno.
E’ difficile per un repubblicano come chi scrive, comprendere fino in fondo la ragione dinastica di questo dovere di re, esercitato per tuta la vita, anzi che è tutta una vita, ma umanamente è possibile anche per me intuire e rispettare il perché di questa devozione interiore al proprio nome, alla propria casata, al proprio ruolo storico. Era cresciuto per essere re e per fare il re, ma le vicende drammatiche di una guerra perduta, sotto il regno di suo padre, non glielo hanno consentito. Aveva conosciuto nella giovinezza il sogno di Gloria di Vittorio Veneto ( Umberto nel rispondere ad una mia domanda è tentato di sovrapporre la vittoria militare di Vittorio Veneto alla stessa epopea risorgimentale, allo stesso momento storico conclusivo di Roma Capitale), ed aveva vissuto da principe ereditario il capitolo della guerra africana, con le brevi illusioni e sogni di gloria, aveva accentuato l’isolamento della monarchia nel paese, aveva spezzato i legami tradizionali della dinastia con il suo popolo ( un isolamento voluto ed imposto dal regime fascista), aveva finito col travolgere il re e il suo stesso trono.
Ma quanto intensa e profonda dovette essere la tensione di quegli anni, quanto quelle prove dovettero incidere nell’animo suo, me lo dice una sua frase: “Qui fui io lo sfortunato protagonista e voglio fermarmi in ogni giudizio“.
L’ultimo re di Casa Savoia prende su di sé il peso di tutte le responsabilità storiche della sua Casa, è il suo ruolo, è in fondo, questa del dovere dinastico, la ragione umana del suo sentirsi re e non ex re. Ma torniamo alla storia, perché questa mia intervista vuole avere una prospettiva soprattutto storica, a trent’anni dalla caduta della monarchia e dalla nascita della repubblica, cosi come il colloquio tra il re e me, a conclusione dall’intervista, ha avuto toni ed accenti molto umani: del resto nella storia sono proprio le vibrazoni umane che danno un’anima ai fatti.
Vostra maestà – gli domando – da trent’anni vive esule in terra portoghese, scelta per fedeltà, di ricordo, al suo trisavolo Carlo Alberto, lo sfortunato re sabaudo al cui nome è associato il legame storico tra la sua Casa e il Risorgimento. Fra lui e Lei passa un secolo di storia italiana: vuole Vostra Maestà, che è un cultore di studi storici, tracciare originalmente la traiettoria di questo percorso storico, i punti di maggiore altezza, il punto in cui incomincia il declino?
“Per la verità la scelta del Portogallo come mi dimora di esilio non dipese dal precedente storico del Re Carlo Alberto. Comunque mi è gradito e sento il dovere di dire che ringrazio questo ospitale paese ove sono stato accolto e ognora trattato con schietta cordialità e affetto.
Mi pare difficile in un breve, sia pur gradito incontro, come questo con lei e con “Il Tempo”, di cui sono quotidiano lettore, tracciare, come lei dice, una traiettoria del percorso storico della mia Casa. Lasciamo, comunque, questo compito agli storici, e agli storici italiani che hanno studiato e scritto sul risorgimento come – mi piace ricordarne alcuni – Gioacchino Volpe, Niccolò Rodolico, Alberto Maria Ghisalberti, Francesco Cognasso, Ruggero Moscati, Emilia Morelli, Rosario Romeo, hanno a lungo indagato nelle vicende storiche della mia Casa.
Essi hanno posto in rilievo quelle fortunate e grandi dell’Unità relative al mio bisavo che fu chiamato “Padre della Patria” e le altre che – come tutte le vicende umane – hanno avuto alti e bassi.
Ma mi pare che non si possa seriamente contestare – checché ne abbia scritto recentemente uno storico inglese – che ognora l’aspirazione dei Re della mia Casa fu l’unità della Patria e poi lo sforzo di renderla socialmente prospera, moralmente felice.
Lei vuole che io precisi quali, secondo me, sono stati i punti di maggiore altezza e mi pare che avrei difficoltà a scegliere tra le vicende dell’Unità – dallo Statuto Albertino a Roma Capitale – e quelle che ci condussero a Vittorio veneto.
Quando cominciò il declino? Non sono uno storico, ma mi pare che dalle delusioni della pace perduta a Versaglia, dopo la grande vittoria militare, e dalle drammatiche condizioni economiche e sociali in cui cadde il Paese, si acuirono le divisioni interne, fino alla disfatta ed alla perdita del Regno. Qui fui io lo sfortunato protagonista e voglio fermarmi in ogni giudizio. Credo di poter solo affermare di avere sempre cercato, con dedizione e servendomi degli uomini migliori del mio tempo, in ogni campo, di servire l’Italia, col proposito riassunto nella felice frase del mio bisavo, dopo la presa di Roma: “L’Italia è libera ed una, ormai non dipende più che da noi farla grande e felice”.
Ma il mio discorso, pur rispettoso del desiderio di arrestarsi sulla soglia dei ricordi e dei sentimenti, si fa più vicino a quello che ritengo essere il vero problema storico ed umano, dell’ultimo re di Casa Savoia e del suo brevissimo regno e gli chiedo: ” Vostra Maestà è salito sul trono in momenti drammatici, quando rientrò a Roma liberata nel giugno del 44. Ha vissuto, quindi, in posizione di non primaria responsabilità le vicende degli anni e dei mesi precedenti: la dichiarazione di guerra, il 25 luglio ( il modo del 25 luglio), l’8 settembre, la partenza dalla capitale decisa dal Governo di Badoglio, la lunga polemica con i partiti antifascisti?
“Formalmente ascesi al trono il 9 maggio 1946, all’abdicazione del mio Genitore, ma di fatto assunsi la funzione del Re fin dalla mia nomina a Luogotenente Generale del Regno, all’atto del ritorno a Roma dopo Brindisi e Salerno. Perfettamente conscio delle difficoltà dell’ora e rattristato, ma mai sfiduciato o rassegnato, mi proposi di riprendere la funzione unitaria della monarchia, che in quel momento era più che mai di superamento delle sciagure della guerra perduta e delle tristi divisioni tra i cittadini . Per quel che potei, seguendo man mano le truppe di liberazione fino al 25 aprile 1945 e l’azione di ripresa di tutti i valori nazionali, di tutta la passione per la ricostruzione e il lavoro – che è dote peculiare degli italiani in ogni luogo – conscio della necessità di oblio delle divisioni, della urgenza di ritorno alla fratellanza – anche attraverso la logica dialettica delle diverse opinioni – mi proposi e credetti e sperai e, per quanto fu in me, volli che l’Italia riprendesse giorno per giorno, evento per evento, il suo volto abituale. Trovai collaborazione schietta di uomini anche di fede repubblicana – come d’altra parte nella mia Casa era avvenuto già ne risorgimento con Vittorio Emanuele II e nella guerra 1915- 1918 e dopo con mio Padre – e insieme ripercorremmo una buona strada.
Se taluni dirigenti di partiti volevano acuire le lotte io con la mia immediata dichiarazione dello stesso giugno 1944, di deferire al popolo italiano la scelta della forma istituzionale preferita, diedi la possibilità di immediata distensione degli animi. E voglio ripetere che fu una responsabilità non mia se da parte di taluni uomini politici si drammatizzò la questione istituzionale, creando anche slogan che ritenni e ritengo antidemocratici e intimidatori, come “o la repubblica o li caos” . IO fin dal primo momento dell’assunzione della Luogotenenza – vale a dire dei poteri di Re – impostai la questione sulla più schietta sostanza democratica:”o la monarchia o la repubblica secondo la volontà della maggioranza del popolo italiano, liberamente espressa.
So che molti monarchici non approvarono questo mio gesto, ma, a parte la mia schietta convinzione democratica, ritenevo necessario di attenuare le asprezze della lotta politica, le divergenze, i rancori, onde essere tutti uniti nella ricostruzione materiale e morale della patria. E nelle mie visite continue qua e là per le regioni d’Italia vedevo con gioia ricominciare la ricostruzione, riprendere il lavoro ovunque. Ricordo che allorché sorvolavo le nostre amate contrade, le campagne avevano ripreso il loro aspetto di terre coltivate, malgrado tante zone fossero state molto danneggiate dai bombardamenti.
Se non fui seguito in quel mio fermo proposito, che ritenevo e ritengo meritevole di ogni sacrificio, non si può certo addebitarlo a me.
L’oblio e il sacrificio erano necessari ieri e ritengo che siano necessari anche oggi, perché quelli e questi, tempi ed eventi, nelle loro molteplici difficoltà richiedevano e richiedono fatti concreti e non vane parole“.
La risposta di Umberto è discreta ma non elusiva. Mentre il re mi risponde sottolineo dentro di me certe sue affermazioni:” funzione unitaria della monarchia, oblio delle divisioni, urgenza di ritorno alla fratellanza attraverso la logica dialettica delle diverse opinioni”, collaborazione schietta con gli uomini anche di fede repubblicana, come era stato sempre nella tradizione di Casa Savoia ( chi non ricorda le lettere che Mazzini e Vittorio Emanuele si scrivevano, passando per la stessa testa di Cavour?) : sembra il programma del regno che non ci fu e dal confronto con la storia del regno precedente, soprattutto con l’ultima parte di esso, balza in tutto il suo dì significato quella che è la vera risposta di Umberto alla mia domanda.