DUE ORE ALLA REPUBBLICA
Umberto sente nostalgia anche di quelli che gli hanno votato contro, gli mancano le nostre strade, la nostra terra, e perfino le nostre beghe.
Cascais, maggio
Un giorno, passando davanti a Villa Italia, trovammo Umberto che stava potando le rose sulla loggia. Ci disse subito: «Avete visto che sono passate due macchine italiane?». « Sì », dicemmo noi, « un’Aprilia seguita da una Millequattro. » Ma lui fece subito: « No. La prima era una Millecento delle ultime serie e la seconda una Millequattro. Tutt’e due targate Milano. Diamine », soggiunse, « non riconoscete nemmeno le automobili italiane? »
Noi avevamo appena notato le due automobili, ma lui le aveva guardate bene, di lassù. Lui s’era fermato un momento, già le aveva riconosciute dal motore, certamente sorrise al passaggio di esse e nessuno, fra quelli che erano a bordo, vide che lassù c’era il Re, che il Re rideva alle due targhe di Milano e ridendo sembrava tornare il Principino di tanti anni fa, quel Principino del quale andavamo un po’ tutti fieri come di cosa nostra, e : Umberto, spesso lo chiamavamo semplicemente a Milano e a Napoli, Umbertino nostro. (Così come i nostri vecchi, il più delle volte, dicevano semplicemente : Margherita.)
Umberto sta bene. I tanti dolori gli hanno portato due rughe sulla fronte, ma qualche volta – più frequentemente man mano che il tempo passa – lui prova a cancellarsele, a togliersele via. Può farlo quando gli sono attorno le sue bambine e Maria Beatrice gli salta sulle ginocchia, lo abbraccia, gli monta sulle spalle. Può farlo quando la sera recita le preghiere con le figlie e dice con loro, in fine, come i soldati di ieri e di adesso: «Signore, benedici l’Italia».
Monarchia o Repubblica che sia, l’Italia. Ma talvolta è difficile togliersi le due rughe dalla fronte e togliersi, quindi, qualcos’altro ch’è in mezzo al cuore. Un giorno eravamo nell’anticamera di Villa Italia mentre lui, nel salottino, si intratteneva con un vecchio signore di Torino. La porta del salottino era socchiusa e noi potevamo sentire quasi per intero la conversazione fra il Re e il vecchio torinese. Ma era quasi sempre quest’ultimo che parlava : e non faceva che rievocare a Umberto momenti e immagini di diciotto o vent’anni fa, appassionato, accalorandosi, con una sorta di ostinazione. Gli diceva : « Si ricorda, quel giorno, nella caserma del Nizza Cavalleria? E si ricorda quella volta, alla Gran Madre di Dio, appena sposato? Vostra Maestà mi vide e mi disse… Sapesse come mi ricordo parola per parola. E quell’altra volta, quando venne a Torino Suo Padre e Vostra Altezza… » (disse così, per errore, lo chiamò come allora, vent’anni fa).
.Ma si sentiva soltanto la voce del vecchio signore di Torino, giunto chi sa come in Portogallo, che a un tratto, peraltro, prese a esprimersi in dialetto piemontese e sempre chiedeva a Umberto se si ricordava di questo, di quello, di vent’anni prima.
Non potevamo vedere il viso del Re ma sentivamo il suo silenzio, doloroso e pesante, nel salotto ormai in -penombra, nella dolce sera che aveva i colori delle sere di maggio a Torino, a Roma, sotto i nostri cieli. Poi quel signore uscì con gli occhi pieni di lacrime. Ma il Re, che subito dopo venne ad affacciarsi sulla soglia del salotto, rideva al vecchio torinese, alla caserma del Nizza Cavalleria, alla Gran Madre di Dio al di là del Po, rideva al millenovecentotrenta, vent’anni fa. Perché i vecchi signori di Torino possono piangere. Ma i Savoia non piangono, si sa. Tutt’al più, come fece Umberto quella sera, si portano una mano al risvolto della giacca, che sarebbe come dire una mano al cuore. E poi, ma ancora sorridendo, fanno fìnta di cercare qualcosa nel taschino.
Diciamolo : Umberto sente nostalgia degli italiani, anche di quelli che gli hanno votato contro. Non saremmo dei fedeli cronisti se c’ingegnassimo a disegnare un esiliato alla prussiana, chiuso, insensibile, freddo sia pure apparentemente. Abbiamo detto che Umberto è uno di noi ; e quand’è che uno di noi, andato al di là delle nostre frontiere, non si mette a sognare di notte l’Italia dopo la prima settimana di lontananza? Umberto legge i nostri giornali tutti -, i nostri libri, sente la nostra musica, ascolta la nostra radio, s’interessa di tutte le nostre faccende più o meno allegre, ma gli mancano le facce degli italiani, le nostre strade, i nostri colori, le nostre beghe, voci e umori. Gli manca la terra, il paese.
« Tutte le volte che guardo lontano mi sembra di vedere un campanile d’Italia » disse una sera. Poi nascose tutto dietro un sorriso e parlò d’altro.
Lavora, studia, accoglie tutti quelli che chiedono di vederlo. Riceve i nostri emigranti di passaggio da Lisbona, industriali che vanno in America, disoccupati che gli chiedono lavoro, professori e personalità, calciatori e corridori ciclisti. Bartali venne a Villa Italia con Giovannino Corrieri, e Coppi – un giorno – si presentò con la moglie e il fratello Serse. (« Coppi è bravo e molto simpatico » ci disse Umberto).
S’informa del paese di ciascuno, chiede se quel ponte è stato ricostruito, se la fabbrica lavora, se quel tale capitano è poi guarito da quella ferita al braccio. A un calciatore della nostra squadra nazionale chiese : « E la tua mamma, sta meglio? Sì? Vedrai che si rimette presto, sai».
In questi giorni sta riordinando, per pubblicarlo a sua firma, un vasto carteggio di Vittorio Emanuele II comprendente alcuno lettere tuttora sconosciute e di altissimo interesse storico non soltanto per l’Italia.
Curiosa, fra queste, una lettera di Mazzini al Re Galantuomo nella quale il Genovese si esprime press’a poco così (ricorriamo alla memoria non avendo avuto il modo di trascrivere il passo della lettera mazziniana): « Io sono naturalmente repubblicano; ma una Repubblica, in Italia, la vedrei soltanto se capeggiata da Vostra Maestà ».
Umberto lavora nel piccolo studio al primo piano, al tavolo chiuso tra i libri che gli giungono ogni giorno da tutti i paesi, dedicatigli dall’autore o dall’editore. Anche i comunisti gli mandano i loro libri – parliamo dei nostri comunisti – con un biglietto in cui gli dicono: Lei deve sapere come la pensano i suoi avversari. « Io », commenta Umberto, « so benissimo come la pensino i miei avversari : ma non posso non essere sensibile a queste gentilezze. » E risponde di pugno, anche ai comunisti rossi come il fuoco, risponde con un biglietto che dice : La ringrazio di cuore e la saluto cordialmente. (Ma Togliatti lo sa che certi suoi amministrati, con la scusa di far sapere al Re i loro pensamenti, mandano libri a Cascais in pacchetti raccomandati?)
Nello studio, tutto disposto a libreria, i volumi sono di tutti i paesi e in tutte le lingue; ma immediatamente intorno a lui, nello scaffaletto ch’è dietro la scrivania e in quello che l’attornia come se l’abbracciasse, ci siamo noi, ci sono gli italiani. C’è Pirandello, la Deledda, Verga, il D’Annunzio delle Laudi, Trilussa e Tozzi. Ci sono Ojetti, Palazzeschi, Baldini e la Negri, Térésah e Vittorini, Buzzati del « Deserto dei Tartari » e Panzini de « Il padrone sono me ». È la piccola e grande Italia che è rimasta a Umberto e la sera, quando le bambine dormono, quando tutta la casa tace e il faro di Cascais, paziente, allunga le braccia bianche sul mare, lui sbarca nella piccola e grande Italia dei libri che l’attorniano, passa in rivista le fantasie del professor Panzini. sale al forte del « Deserto dei Tartari », scende ad Aci Trezza con Verga, torna a Roma con Trilussa, rivede Capri con Ada Negri e serra le labbra sul libro di Térésah : « Dobbiamo vivere la nostra vita ». Ma poi ci sono Pirandello, Baldini, la Sardegna di Grazia Deledda e « Tutta Frusaglia » di Tombari. E la strada seguita, buona e veloce.
Il lume del piccolo studio qualche volta non si spegne. Qualche volta accade che lo spenga il sole.
di Nando Sampietro