Inizia Lupinacci:
Dopo 10 anni di repubblica non si può dire che le nuove istituzioni abbiano fatto salde radici in Italia. Un disagio rimane, un vago senso di vuoto: e in molti che al tempo del referendum furono fieramente antimonarchici, adesso sorge un pentimento confuso . Lo stato appare come spogliato di ogni poesia, epica o intima; sta lì duro e severo come un esattore, e nulla ne ingentilisce la presenza; e ci si comincia ad accorgere, che certi elementi sentimentali non erano solo fanciullesco sentimentalismo, ma esigenze naturali, la cui mortificazione diffonde, nei rapporti tra lo Stato e il cittadino, un distaccato cinismo.
E aggiunge oltre: il Re ha la vocazione del regno come altri ha quella dell’arte. Quando parla dei suoi due anni di luogotenenza e di corona, si sente che parla del periodo della sua vita nel quale fu interamente se stesso; ne parla come potrebbe uno scrittore del tempo in cui scrisse il suo libro più spontaneo. Quello che mi ha colpito, è il gusto con il quale rievoca la trama quotidiana delle sue esperienze di sovrano, quella che rassomiglierebbe all’esercizio normale della regalità. Anche in quei mesi tempestosi ci sono stati giorni di ordinaria amministrazione: “Lo sa che ho firmato decreti con i quali una minacciosa ripresa della malaria è rimasta contenuta e poi eliminata per sempre?“.
Il Re si sofferma su quelle brevi parentesi nelle quali un problema non politico consentiva tra la Corona e i ministri una tranquilla armonia; lo scambi pacato e disinteressato delle osservazioni su questa o quella legge sottoposta alla firma, il fondersi delle speranza comuni nel tracciare le linee di un’azione diplomatica per alleggerire il controllo straniero, ecco le ore che il Re ricorda con affetto; un sentimento che ha tentazione di diventare gratitudine per coloro con i quali le ha condivise, ministri di ogni partito che in quei momenti diventavano con lui unicamente e soltanto servitori dello Stato.
“Creda”, dice il Re “ vi sono nella posizione di un Re costituzionale, di un Re in democrazia, alti doveri e alte soddisfazioni da trovare nel compierli: la breve esperienza che ne ho avuto, pure tra tante lotte durissime, me ne ha confermato il convincimento; è un convincimento che mi ero formato studiando la storia del mio Paese e osservando le Monarchie del Nord.
Avrei lavorato con tutti quelli che la scelta del Paese avesse mandato al potere….”
A proposito della costituzione repubblicana il Sovrano dice:
“Nella nuova costituzione italiana vi è un istituto utilissimo, anzi indispensabile anche per una Monarchia democratica: la Corte Costituzionale. Se la libertà non è più come ha dimostrato l’esperienza del primo dopoguerra, il denominatore comune di tutti i sentimenti, ma può essere offuscata da altre passioni, occorre munirla di una costituzione di tipo rigido, che il Parlamento non possa modificare con semplici leggi, e le cui immutabili prescrizioni democratiche siano custodite da una suprema magistratura indipendente”.
Dopo aver affermato:
“La mia Casa ha sempre avuto la sua più severa deferenza per la Magistratura e nella storia gli esempi di ossequio alle sue decisioni sono innumerevoli”.
Il Re accenna all’atteggiamento della Cassazione e della corte dei Conti al tempo della crisi Pelloux: poi il suo viso, che a parlare di una nuova Monarchia si era rischiarato, si oscura: gli torna in mente il passato, richiamato da quel nome Corte di Cassazione, che tanto pesò negli ultimi giorni del suo breve regno.
“Anche allora il mio atteggiamento non fu ispirato che dal rispetto della Magistratura Suprema e del diritto che essa aveva per gli accordi stabiliti, di proclamare il risultato del referendum. La sua parola doveva decidere in nome del popolo italiano fra la continuazione dei cento anni si storia comune all’Italia e alla dinastia e lo spezzarsi di quella continuità. Avevo il dovere di essere messo di fronte ad una certezza giuridica che solo la Corte di Cassazione poteva darmi; avevo questo dovere di fronte al popolo italiano , alla mia Casa,e, pur nella massima volontà di abnegazione individuale, anche alla mia coscienza di Re e di cittadino. Volli assolvere fino all’ultimo mio compito, che era quello di trasmettere agli italiani la nuova forma do Governo con tutte le garanzie della sua corrispondenza con la loro decisione. Ne fui impedito, e creda che questo è il solo ricordo amaro che conservo di quel tempo tempestoso, del quale conosco troppo bene le difficoltà per non comprendere anche il comportamento degli avversari. Non è mancato chi mi ha rimproverato di aver ceduto, di essere partito prima che la Corte di Cassazione avesse dettola sua parola; è un rimprovero che dovrebbe venir meno, se si pensa che il prolungarsi del conflitto avrebbe potuto suscitare tumulti, che sarebbero stati repressi da forze armate straniere”.
Per tornare al futuro Lupinacci chiede al re se della nuova Costituzione Italiana è solo la corte costituzionale che accoglierebbe, o non anche molte altre parti. Il Re acconsente alla domanda, poi esamina con succinta precisione la carta costituzionale nelle sue linee essenziali., nell’equilibrio dei poteri e osserva che non vede davvero che cosa, in essa, sarebbe incompatibile con un Capo di Stato ereditario, che voglia conformemente alla natura della Monarchia moderna, collocarsi a distanza uguale da tutti i partiti, non compiacente di questo o ispiratore segreto di quello, ma collaboratore di ognuno, con uguale buona volontà verso tutti.
“La Monarchia fa del capo dello Stato un potere autonomo, che nulla deve ai partiti per l’origine della propria autorità e che appunto per questo rimane equidistante da tutti. Poi la Monarchia suscita legami affettivi, familiari, che rendono il senso dello stato più intimo, più facile a stabilirsi nelle coscienze . Vi è finalmente a grande giustificazione della Monarchia per l’Italia : la garanzia che essa dà di buon vicinato tra la Chiesa e lo Stato, vicinanza prossima, vicinanza intima,ma vicinanza sempre, non commistione. La chiesa rappresenta oltre tutto una delle colonne della civiltà occidentale, e ogni anticlericalismo vecchia maniera sarebbe stolto ed imprudente: ma io penso che la Monarchia in Roma abbia anche questa funzione, di impedire il sorgere di situazioni, o comunque anche solo di impressioni, dalle quali potrebbe nascere una ventata di ostilità pericolosa per la Chiesa, e , per quello che mi sta a cuore, anche per la concordia nazionale”.
Conclude Lupinacci: “Coloro che cerchino in Umberto di Savoia il capo di un partito, rimarranno delusi; ma coloro che invece, sapendo che nulla è definitivo nella storia, vorranno sapere se si può contare su Umberto II come su una suprema soluzione di riserva per sciogliere situazioni aggravate; coloro che vogliono sapere se questo eventuale ricorso abbia un prezzo di risentimenti e di sconvolgimenti; coloro, insomma , per i quali la Monarchia dovrebbe presentarsi come un elemento di maggiore stabilità aggiunto agli attuali equilibri, e non come un’ipotesi di avventura e di sovversione; tutti costoro possono guardare al Re con serena fiducia. Dopo tutto, vi è una definizione classica elaborata dall’esperienza e che l’esperienza dei paesi veramente liberi ha ancora confermato: “La monarchia costituzionale è la migliore delle repubbliche”. Con Umberto II, questa definizione non sarebbe certo smentita.
Manlio Lupinacci, Il Giornale d’Italia , 1-2-1957