Intervista di Luigi Cavicchioli, 1960
Cavicchioli scrive: Durante i nostri colloqui a Cascais ho fatto notare a Umberto di Savoia:
”Molti italiani ritengono che la partenza di vostra Maestà per l’esilio sia stata una vera e propria abdicazione, la rinuncia perpetua al trono per sé e per i discendenti di Casa Savoia”.
Ha risposto:
“Lo so : ancora oggi ricevo lettere di gente umile che mi rimprovera, sia pure affettuosamente, di avere rinunciato al trono”per sempre”. Si tratta di un equivoco. Non ci fu affatto abdicazione, da parte mia, né poteva esserci nulla di simile. Avrei abdicato, senza esitare, senza rimpianti, e per sempre per me e per i miei discendenti, se dal referendum istituzionale avessi tratto la certezza, suffragata da un libero approfondito giudizio della Magistratura, che la maggioranza del popolo italiano ne aveva veramente abbastanza della Monarchia e dei Savoia. Ma questa certezza, in tutta coscienza, non l’ebbi. Anzi , malgrado tutto, ebbi la certezza del contrario: certezza che è andata via via cementandosi in questi anni d’esilio.
Non potevo dunque abdicare: e non per considerazioni egoistiche o nell’interesse della mia Casa. Regnare non è facile, né divertente, mi creda. La posizione di Re (come pure quella di Principe ereditario) impone sacrifici a volte durissimi. Tutto sommato è assai più comoda la vita di esule, che mi permette di coltivare i miei studi, di viaggiare in incognito, di passare intere giornate nelle biblioteche e nei musei, di fare dello sport, di educare ed amare i miei figli come un padre qualsiasi senza il rigore ed il distacco che la posizione ufficiale imporrebbe e che io sperimentai nella mia adolescenza e giovinezza. La mia vita d’esule sarebbe addirittura piacevole ed invidiabile, se non ci fosse ad amareggiarla un solo rimpianto: quello di non rivedere, almeno di quando in quando, il mio Paese. Non potevo abdicare e non abdicai semplicemente perché così facendo avrei avuto la netta intollerabile impressione di tradire i sentimenti e la volontà del mio popolo”.
Ciò significa che Vostra Maestà si considera ancora, di fatto, e di diritto, il re degli italiani?
“Ebbene le dirò allora che non mi sono mai considerato pomposamente il Re degli italiani, come dice lei. Mi sono sempre considerato e mi considero tuttora il più umile e devoto servitore del mio Paese e del mio popolo, ecco tutto”.
Quindi Vostra Maestà non ha rinunciato alla speranza di una più o meno prossima restaurazione monarchica in Italia?
“Non si tratta di una speranza, io non lo spero e non chiedo nulla. Ma se Iddio vorrà un giorno pormi di nuovo al servizio del mio Paese e del mio popolo, non esiterò certo a rispondere all’appello. Io, lo ripeto, non spero e non chiedo nulla. Mi affido serenamente a Dio. Sarà ciò che Dio vorrà”.
Circa l’impressione che la continua diminuzione dei voti a favore del Partito monarchico coincida con quella più grave che gli ideali monarchici si identificassero con i programmi politici o sociali di tali partiti, il Sovrano risponde:
“Impressione errata, ovviamente, perché il referendum del giugno 1946, malgrado tutto, dimostrò che la fede monarchica era più o meno largamente diffusa in tutte le classi sociali e nelle file di tutti i partiti politici. Mi è stato riferito che qualche tempo dopo la mia partenza per l’esilio, De Gasperi ebbe a confessare ad un mio collaboratore : ” io sono il rappresentante del più forte partito monarchico, perché a conti fatti si è visto che degli otto milioni di italiani che hanno votato per la democrazia cristiana circa sei milioni e mezzo votarono al referendum per la monarchia”. E persino dall’estrema sinistra, benché possa sembrare inverosimile data la situazione esistente in Italia al 1946, vennero voti alla Monarchia: la maggioranza repubblicana al referendum risultò inferiore al numero dei voti ottenuti dai soli socialcomunisti nella simultanea consultazione per la Costituente”.
Concludendo i suoi numerosi incontri con il giornalista, il Sovrano dice:
“Se non è facile fare il Re, è altrettanto difficile fare il Re in esilio. Ho dovuto apprendere giorno per giorno questo ingrato mestiere. Vuole che le racconti un episodio? Ero in Portogallo da pochi mesi, quando, un mattino, gettò l’ancora nel porto di Lisbona una nave con a bordo trecento italiani diretti in Argentina. Tre di questi emigranti vennero a Cascais e mi chiesero per tutti i loro compagni un’udienza collettiva nel poco tempo che avevano a disposizione prima che la loro nave partisse. Risposi senza esitare che anziché riceverli a Cascais mi sarei recato io stesso a Lisbona per visitarli sulla loro nave. Fu un impulso spontaneo che mi suggerì quel gesto: fui spinto da un’ondata impetuosa di commozione e d’amore per quei trecento italiani che, come me, abbandonavano la Patria, forse per non rivederla mai più, che andavano incontro a un oscuro e triste avvenire in un paese straniero. MI recai a Lisbona con la coscienza assolutamente serena: salii a bordo, convinto di compiere un gesto legittimo e di umana solidarietà. Strinsi trecento mani. Ricevetti manifestazioni commoventi di affetto. Feci ritorno a Cascais col cuore più leggero. Ma non avevo previsto le catastrofiche conseguenze di un gesto che a torto avevo giudicato innocente e, più che legittimo, doveroso. Il Ministro Italiano a Lisbona venuto a conoscenza della cosa protestò energicamente presso il Governo portoghese. Sorsero complicazioni e polemiche che misero a repentaglio i buoni rapporti diplomatici fra l’Italia e il Portogallo. Appresi così che non mi era concesso di mettere piede su una nave italiana: neppure per stringere la mano a trecento italiani che forse l’Italia non l’avrebbero vista mai più, costretti a partire per un paese straniero, in cerca di pane, verso un oscuro e triste destino. Fu una lezione dura ma efficace: da allora non ho più commesso gesti così gravi e pericolosi per la sicurezza della Repubblica italiana”.
Quasi ogni giorno da più di tredici anni, c’è qualche italiano che giunge a Cascais e chiede di essere ricevuto da Umberto, conclude Cavicchioli. Sono entrati a Villa Italia, durante tredici anni, personaggi importantissimi e poveri emigranti, uomini di cultura e contadini illetterati, artisti famosi e famosissimi campioni ( anche la nazionale italiana di calcio, trovandosi in Portogallo per un incontro, si recò a Villa Italia al gran completo, cosa che provocò poi una ridda di polemiche e recriminazioni).
Luigi Cavicchioli Oggi 7 gennaio, 25 febbraio 1960