Sebbene egli (Dino Grandi) avesse capeggiato il movimento d’opposizione in seno al Gran Consiglio, Vittorio Emanuele III non lo ritenne adatto a trattare con gli Alleati. Il Re lamenta che, fra tutti gli esuli della storia moderna, egli sia il solo, insieme con Maria Josè e il suo primogenito, a non avere la possibilità di visitare la Patria.
Cascais, marzo
Questa volta, durante la conversazione, mi si è fatta chiara un’altra diversità tra Umberto II e suo padre. La diversità consiste nella passione e nella partecipazione diretta alla vita, storia e cronaca che lo avvolge; nel continuo contatto con le cose, i fatti lieti e tristi di ogni giorno. Vittorio Emanuele III, certamente, non avrebbe parlato con tanto aperta e, a tratto, chirurgica precisione di certi casi recenti, della storia del suo Paese come Umberto II. Temeva di dire troppo, il vecchio Re, e temeva pure, in genere, i giornalisti che « per arricchire l’articolo ci mettono del proprio ». Preferiva tacere. Ma anche per i re, la necessità di una chiarezza nuova, fondata sulla conoscenza dei fatti, è diventata pressante; il silenzio obbligato al quale i sovrani si costringevano essendo adoperato molte volte dalla politica come un’arma di offesa. Naturalmente con questo non si vuole affermare che i re, in esilio o regnanti, oggi entrino sul vietato terreno della polemica; ma essi, come sì è detto, rappresentano dei brani di storia; possono e debbono contribuire con la loro testimonianza a ristabilire certe verità.
Nel carattere di Umberto II con la coscienza del proprio rango e dei doveri connessi, esiste anche la coscienza del cittadino comune, dell’uomo della strada, per il quale certe verità vanno dette e conosciute. Per questa franchezza e per una intervista concessa a un giornale americano, durante il Regno del Sud, l’allora Luogotenente dispiacque a Benedetto Croce; ma fu un salutare urto: poco dopo il filosofo dovette ricredersi, capire di aver avuto torto; e scrisse un commosso elogio di lui. Voglio dire, insomma, che Umberto è un amico della verità e cioè della libertà, come si è visto in tante occasioni, e non nega – siamogliene grati – il suo insostituibile contributo a chi lavora per informare e chiarire.
Continuammo, dunque, verso le undici di sera di lunedì 14 febbraio scorso a parlare del recente passato. (Segnaliamo che per errore di trasmissione, nel testo della prima parte di quest’intervista viene detto che la riunione seguita all’arresto di Mussolini, nella quale venne chiesta la soppressione del dittatore, si tenne nel giardino di Villa Savoia. Il drammatico convegno, invece, non è – nelle dichiarazioni di Umberto II – precisamente localizzato.) Dopo di aver ascoltato la rivelazione di quanto fece Vittorio Emanuele III per assicurare, dopo l’arresto del 25 luglio, la incolumità del dittatore prigioniero, chiesi a Umberto perché quella drammatica crisi fosse stata condotta a quel modo. Perché, insomma, Re Vittorio non avesse preferito di avviare la mutazione di regime, affidando agli autori stessi del voto del Gran Consiglio, il grave compito di liquidare il fascismo. Due mesi prima del 25 luglio, dico a Umberto, il Re conferì al conte Dino Grandi il Collare dell’Annunziata. Sembrò, e se ne parlò in molti ambienti, una vera e propria «designazione», Anche Ciano era stato insignito del Collare e forse anche lui pensava alla eredità. Forse era il solo a pensarci seriamente. Ma chi capeggiò il movimento di opposizione fu Grandi, chi giocò tutto per tutto convogliando con molto coraggio la maggioranza determinante la caduta del regime, fu Grandi. Tuttavia il Re Vittorio non gli dette alcun incarico, né vi pensò? Perché?
“Ricerca della pace”
Umberto parla a lungo su questo punto, del resto già dibattuto, anche in libri. Ma ecco introdursi un nuovo elemento di valutazione, concernente più da vicino Vittorio Emanuele III.
Nella situazione creatasi (riassumo, come sempre, con parole mie i concetti ascoltati) e che doveva considerarsi una vera e propria « ricerca della pace », gli autori del 25 luglio non perdevano, per questo, il loro carattere storico di fondatori del fascismo. Le Nazioni con le quali l’Italia doveva stabilire rapporti non avrebbero accettato di trattare con uomini coinvolti nelle responsabilità di aver appoggiata o subita la politica bellicista di Mussolini. Anche se i singoli, in singoli importanti momenti della loro azione – Federzoni, Grandi, Bottai, De Stefani e lo stesso più volubile Galeazzo Ciano – fossero stati contrari alla guerra.
A questo punto è bene precisare che la « ricerca della pace » fu un’ansia, un’angoscia di tutti gli italiani, e il voto del Gran Consiglio è da considerarsi il riflesso di una volontà generalizzata del Paese (senza distinzione di fascismo o antifascismo) raccolto dal Re Vittorio. Il 25 luglio e l’armistizio non vanno considerati come si è detto per stortura polemica un «tradimento» o altro. E’ forse opportuno ricordare, dice Umberto II, che l’altro alleato del Tripartito, quello la cui classe dirigente maggiormente credeva alla vittoria finale, anche per le enormi conquiste effettuate nell’intero continente asiatico, cioè il Giappone, pensò di stabilire un contatto con gli Alleati assai prima dell’Italia, cioè nel maggio del 1943. E’ una storia riferita dall’attuale ministro degli Esteri del Governo di Tokio, signor Mamoru Shìgemitzu, che firmò la tregua con gli Stati Uniti a bordo della corazzata Missouri e raccontò la vicenda dei suoi tentativi in un libro intitolato I giorni turbolenti dell’era Showa. (A questo punto dobbiamo ancora una volta meravigliare della memoria precisa e lucida di Umberto II.)
Come Vittorio Ernanuele III, l’Imperatore Hiro Hito che non aveva voluto la guerra subendo il sistema militare dittatoriale, riuscì a imporsi e obbligò il Primo Ministro Tojo (impiccato, poi, con altri sei tra generali e ammiragli come criminale di guerra) a iniziare i tentativi di porre fine al conflitto. Il signor Shigemitzu fu ministro degli Esteri del Terzo Gabinetto di guerra del signor Tojo, proprio per assolvere questo compito, e ciò avvenne nel maggio del 1943. Bisogna aggiungere che i tentativi di Shigernitzu non furono meno affannosi e laboriosi di quelli del generale Castellano, di Lanza d’Ajeta, di Prunas, di Guariglia. Ma – aggiunge Umberto II – non è neppure da trascurare lo sforzo dell’opposizione tedesca per cercare una soluzione al conflitto. Si ricordi la congiura fallita con l’attentato di Stauffenberg, che è del 20 luglio 1944, in cui si trovarono coinvolti i grandi capi ,dello Stato Maggiore tedesco della classe politica nazista e non nazista. I tedeschi mancarono di un Capo di Stato, capace di intervenire e promuovere quelle misure che in Italia evitarono il peggio.
Materiale per un libro
«Il peggio» dice Umberto II «l’ho visto in un mio viaggio a Monaco e a Francoforte, qualche settimana fa. Ho visto ciò che queste città sono diventate. A distanza di dieci anni dalla fine della guerra esse offrono, tuttavia, l’aspetto di spaventosi campi di macerie. Non sono ancora andato a Berlino, ma Francoforte e Monaco mi hanno fatto desiderare di partire subito. Pure, non si può disconoscere che i tedeschi posseggano straordinarie qualità di lavoratori e di costruttori. Malgrado ciò, l’immenso danno fatto dalla guerra al loro Paese non è stato ancora riparato. Il nostro pensiero corre» e qui la voce di Umberto diventa più grave « alle città d’Italia e a Roma e ci figuriamo come ci apparirebbero se non si fossero avverati gli avvenimenti che sappiamo. E in questa visione occorre tenere conto degli stati d’animo dei belligeranti nei confronti del Vaticano e dei grandi monumenti della cattolicità». (Qui è appena necessario aggiungere la testimonianza del generale Castellano, dalla pagina 140 del suo libro già citato, Come firmai l’armistizio di Cassibile, a proposito delle decisioni anglo-americane nel caso che l’Italia non avesse mantenuto la parola impegnata dal Governo Badoglio: « Smith è irremovibile; anzi passa alle minacce…: Roma e le principali città italiane verrebbero bombardate e distrutte, se necessario, nessun riguardo per il Vaticano … », eccetera.)
Tanto travaglio dell’Italia e degli italiani, tanta drammatica e mal conosciuta azione di Vittorio Emanuele III chiedo a Umberto di Savoia è, in qualche modo, fermata nelle favoleggiate Memorie del Re, suo padre? La risposta è quella già datami altra volta. Nello studio del piano superiore di Villa Italia, in una cassaforte, esistono lettere, appunti, note, documenti, memoriali, ritagli di giornali, raccolti da Vittorio Emanuele: il materiale per comporre un libro, ma non un libro già composto. E questo sfata definitivamente la leggenda di un’opera organica, posata. Evidentemente l’affermazione del Torella di Romagnano, ultimo aiutante di campo in Egitto del vecchio Re («attendeva al completamento delle, sue Memorie…»), si riferisce a semplici appunti stesi su fogli protocollo.
Il Principe di Napoli
Dal recente passato il nostro lungo conversare, interrotto da larghe escursioni nel campo dei ricordi d’Italia, precisi e quasi dolenti per troppa vivezza, scivola nel presente: sullo stato dell’opinione, in Italia, in certi settori che più davvicino si interessano del Re esule e della Famiglia; in particolare della Regina Maria Josè e del Principe di Napoli, Vittorio Emanuele, non necessariamente, secondo alcuni, divisi: Umberto ai margini dell’Europa, a Cascais con le due figliole; Maria Josè, nel centro dei continente a Merlinge, presso Ginevra, con l’altro figlio.
Non tutti sanno, intanto, che il conte Umberto di Sarre, portatore di un passaporto del Sovrano Militare Ordine di Malta, può soggiornare solo per quindici giorni di seguito, e a intervalli, nel territorio della Confederazione Elvetica. In Francia potrebbe soggiornare più a lungo ma, per il momento, se ne astiene per evidenti riguardi al Governo di Parigi,
Sia Maria Josè che Vittorio Emanuele debbono vivere in Svizzera, la Regina come il Principe per ragioni di clima. Gli occhi di Maria Josè non sopportano la grande luminosità della costa atlantica, l’organismo del giovane Principe di Napoli sarebbe esposto a variazioni troppo brusche dell’aria oceanica. A Ginevra soltanto, inoltre, Vittorio (così Umberto di Savoia chiama, con profonda tenerezza, suo figlio) trova l’ambiente adatto alla sua educazione. Com’è noto egli frequenta il liceo italiano Vilfredo Pareto, dove tutti gli insegnanti sono italiani; il suo ripetitore è l’italiano prof. Bonetto e il suo governatore è il comandante Cordero di Montezemolo, eroico ufficiale dei sommergibili in guerra, fratello della medaglia d’oro della Resistenza.
A proposito di suo figlio e delle voci sparse sulla sua scarsa educazione italiana, Umberto racconta, ridendovi su, un incontro in Svizzera con un’auto guidata da una signora di Milano. La gentile automobilista italiana, accompagnata da un’altra signora, fece in modo di arrestare la macchina di Umberto, che era pilotata da Vittorio. Uscì con la sua amica e dopo di aver salutato il Re, rivolse la parola al Principe che rispose giovialmente. «Non immaginavo», disse la signora, sorpresa «che il Principe Vittorio Emanuele sapesse parlare in italiano» Umberto aggiunge: « Vittorio possiede un italiano così ricco che talune parole io non le ho mai adoperate in cinquant’anni». Parole, diremo, più propriamente romanesche.
A contatto con una vera folla, tuttavia, il diciottenne Principe di Napoli si è trovato per la prima volta alle feste per le nozze di stia sorella. Anche a Maria Pia è accaduto di compiere una esperienza simile solo tra il 10 e il 14 scorso. Per la prima volta nella loro vita i figli di Umberto, partiti bambini ignari da Roma, si sono visti al centro di alcune migliaia di persone o, com’è accaduto un pomeriggio alla Villa Italia di Cascais, sono venuti alle prese con centinaia di fotografi e di entusiasti, assiepati sotto la loggia del pianterreno, decisi a dare la scalata (come, del resto, avvenne). Gli assalitori porgevano scatole, pacchetti, fotografie, quadri, gridavano, apostrofavano, cantavano in cinque o sei dialetti.
Sguardo sul passato
Si é visto allora come Umberto sapesse rispondere a tutti, stringere tutte le mani, firmare fotografie e taccuini, prendere i doni per la figlia e trovare il tempo per una rapida parola di ringraziamento che, pure in tanto trambusto, arrivava a destinazione, mentre i figliuoli rimanevano intimiditi e sorpresi. «E’ la mancanza di abitudine » dice Umberto. « A me sembrò naturalissimo, per esempio, recarmi la mattina del 4 giugno 1911 alla inaugurazione dell’Altare della Patria, accompagnato da mia zia la Regina Maria Pia del Portogallo, tra la immensa folla e la truppa schierata a Piazza Venezia. Avevo sette anni. »
E’ questo un fuggevole sguardo sul passato, un bagliore presto acceso, presto estinto. E’ molto difficile penetrare nell’animo di un Re, sempre così composto e padrone dei suoi sentimenti e reazioni. Nelle fotografie del plumbeo pomeriggio del 13 giugno 1946 si vede il volto di Umberto sorridere, sia pure pallidamente, agli amici che lo salutavano al momento del distacco dal suolo italiano. Anche quel sorriso scompare adesso dal volto di Umberto se si parla dell’esilio, a lui più doloroso di qualunque altra perdita. Molte volte amici affettuosi gli procurano, senza volerlo, momenti di acuta malinconia, come per esempio quando gli telefonarono a Cascais da un ritrovo di Via Veneto a Roma e, traverso il microfono, gli fecero ascoltare certe bellissime canzoni napoletane eseguite da un celebre chitarrista.
Doloroso esilio
In definitiva l’esilio lo avverte e lo soffre solo chi « non può» rientrare in patria; non chi, volontariamente, ha scelto di star lontano dalla sua terra. Gli esili storici, almeno nell’epoca moderna, furono quasi tutti volontari. « Tre sole persone» dice Umberto « non possono rivedere il loro Paese: io, mia moglie e mio figlio». Così, egli cita i membri della famiglia reale di Spagna e di Portogallo che possono, sempre che vogliano, rientrare nel loro Paese; il conte di Parigi e i suoi; ricorda gli esili di grandi artisti suoi personali amici, come Pablo Casals e Pablo Picasso, che, quando lo vogliano, possono andare a Madrid, a Burgos o altrove, per ascoltare un concerto di organo o passeggiare tra i Velasquez del Museo del Prado. « Io, mia moglie e mio figlio non possiamo recarci in incognito a visitare una città italiana. » E questa impossibilità – da addebitarsi assai più al fatale volgere delle cose che alla volontà degli uomini suscita nella voce di Umberto un misterioso, doloroso accento.
Gli dico di permettere al fotografo di Epoca di trarre alcune pose a colori di lui e dell’interno di Villa Italia. Subentra un diversivo. « Mi farò fotografare come suocero, ormai. L’ho detto anche ieri alla Principessa Olga, madre di Alessandro. Lei ed io siamo diventati suoceri, in attesa di diventare nonni. » Umberto ha cinquant’anni. Ha perso i capelli della giovinezza. Ma è difficile immaginarlo nonno.
Durante l’ultima campagna elettorale lessi su un muro di Napoli: « Viva Sua Maestà il Principe ereditario». Per i re, è così: perdono l’età. In qualche paese della Campania, in qualche villaggio della Sicilia si trovano vecchi e vecchie che parlano ancora di lui, Umberto, come se lo vedessero in vestito bianco da marinaretto, sotto la larga paglia di Firenze, andarsene in «vittoria» a cavalli, accanto alla Regina Maria Pia del Portogallo, alla inaugurazione dell’Altare della Patria. Una chiara mattina di giugno del 1911, quando aveva solo sette anni.