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Interviste 46-64

Intervista di Giovanni Artieri, 1955 -1

By Febbraio 14, 2020Novembre 12th, 2021No Comments

Il Re si  oppose alla soppressione di Mussolini

L’intervista fu pubblicata sul settimanale Epoca nel 1955, appena dopo le nozze a Cascais della Principessa Maria Pia

Vittorio Emanuele si preoccupò di evitare al duce il rischio grandissimo di perire in un conflitto vero o simulato, nel caso che la cattura fosse eseguita a Palazzo Venezia o al Viminale. Villa Savoia doveva mettere il Capo del Governo dimesso al coperto da un immediato pericolo di morte. Il trapasso di regime, per quanto improvviso, venne operato senza un sol colpo di pistola e un sol ferito in tutta l’Italia.

Sarà perché i Re, per il solo fatto di essere nati, appartengono alla storia e qualcosa di «perenne» di non mutabile accompagna le loro cose e gli ambienti nei quali vivono; sarà perché anche i Re poveri, fanno «reggia» della più modesta casa; sarà per la forza delle memorie, dei riferimenti, delle coincidenze, sarà per altro, ma a Villa Italia mi sembra di essere entrato ieri, non sei anni fa, per la prima volta. Dei giorni di trambusto e di feste nuziali non resta, in un angolo della breve anticamera, che qualche trofeo di frutta e di fiori, una cesta di bottiglie di vino, delle maioliche portoghesi, dei festoni di fiori di carta, appassiti, (perché anche i fiori di carta appassiscono). E’ tutto ammucchiato e in disparte, in attesa di raggiungere nei piani superiori la grande marea di doni a Maria Pia: diecimila pezzi di ogni genere, meravigliosi servizi da tavola di cristallo e di porcellana, di argento e d’oro, mobili, quadri, statue, culle, e via di seguito. Ci vorranno, forse, due vagoni ferroviari per mandarli a Versailles. Ma le feste – dice questa vuota anticamera – sono finite.

Re Umberto II Cascais 1955

Re Umberto II Cascais 1955

Il silenzio ha riacquistato i suoi diritti nella casa del Re in esilio. Con Castellani, con mia moglie, con il cameriere cav. Tregati, parliamo sottovoce, in attesa di entrare nel salotto di udienza. Non è soltanto per l’ora insolita ad un’udienza con un Re (le dieci e mezzo di sera) ma anche, forse, perché nel piano di sopra le due Principesse Maria Beatrice e Maria Gabriella dormono. Traverso le porte ne abbiamo udito le voci pronunciare attenuate, indistinte parole: forse, davano la buonanotte alla governante, signorina Smith. Due voci, non tre. Stasera, per la prima volta, Maria Pia non dorme sotto il tetto di Villa Italia.

E’ questa, forse, la sola mutazione, dopo sei anni che non entravo in questa casa. Il resto è quello visto da tanti italiani venuti fin qui (cinquantamila o presso a poco, col ritmo di quattromila all’anno, a stare ai conti del cav. Tregati che ritira e sostituisce i libri per le firme in anticamera: il breve pianerottolo presso alla porta d’ingresso, l’ampio salone di pianterreno che dà in un altro salotto, l’ultimo presso l’ala occidentale della villa, con mobili antichi e scaffali contenenti atlanti in quarto ed enciclopedie. Passeggio lungo le pareti. Gli stessi quadri, a quello stesso posto, quadri e ricordi portati dall’Italia e, dopo la morte di Vittorio Emanuele III, dall’Egitto. Ecco il ritratto di Eugenio di Savoia giovinetto, in bianco e nero con pochi toni rosa. Ecco su una console il busto dorato di Carlo Emanuele I. Ecco le scene di caccia e presso la porta del salotto per le udienze, ai lati, i diorami di due celebri battaglie vinte dal Principe Eugenio, quella di Torino (1701) e quella di Belgrado (1713).

L’eroe di Casa Savoia guarda da un angolo sotto una quercia i ranghi dei suoi fucilieri e gli squadroni della sua cavalleria mentre manovrano contro il nemico. Un grappolo di cherubini gli tende sul capo la corona di lauro. Il vagabondaggio di anticamera finisce dinanzi al registro delle firme; leggo e trascrivo questa di un italiano arrivato fin qui: «Spampinato Carmelo, Roma – Via Tor Pignattara 44, operaio».

La stanza delle udienze piglia luce da due finestre attenuate da tendine chiare, Umberto siede in una poltrona con le spalle ad una delle finestre, l’interlocutore alla sua sinistra, in un largo divano. Qui, forse per il fatto di non avvenire al Quirinale, l’udienza diventa un amichevole colloquio e, a tratti, persino confidenza. Bisogna essere attenti a certe sfumature della conversazione di Umberto e al modo come, qualche volta, indica certi doveri di riservatezza e giustifica certe reticenze. E per quanto io non lo abbia mai avvicinato in privato, a Roma, pure ritengo che anche nel palazzo con i suoi collaboratori e visitatori egli sapesse trovare il giusto punto, quella specie di luogo geometrico dell’anima e dell’intelligenza per cui pensieri e parole traducono precise verità. Perfino Nenni, nel ’45, all’epoca della crisi Parri fu prossimo, per un momento, alla semplice e profonda umanità di Umberto quando i due uomini si incontrarono per le consultazioni al Quirinale e ricordarono di avere qualche cosa di terribilmente doloroso in comune: l’uno la sorella, l’altro la figlia, morte in un campo di concentramento tedesco.

Lo scorso settembre Umberto ha compiuto cinquant’anni. La vasta radura delle tempie è diventata più vasta; è già una nobile calvizie. Ma la figura è sempre quella: svelta, alta, elegante; il volto giovane, gli occhi della madre, la Regina Elena, ombrati da una espressione di ansiosa sollecitudine, che gli fu notata mentre era ancora in fasce. Il suo gestire è posato, proprio dell’età in cui dalle esperienze vissute si comincia a distillare il vino della saggezza. Il vestire è quello che ai bei tempi fecero di lui, a detta degli anglosassoni che apprezzano giustamente certe cose, uno degli uomini di più sobria eleganza d’Europa e d’America. E poiché è di prammatica informare anche di questo, dirò che indossava un abito blu a righe pallide e rade, mocassini di capretto, camicia bianca di seta, e cravatta grigia. Per un momento, sedendo e volgendo il capo controluce potetti vedere di Umberto il profilo netto: il colletto della camicia gli era un poco stretto e la testa si delineò quasi staccata come nel cerchio di una moneta. Subito quella immagine si associò nella mia mente alla curiosa circostanza nella vita di questo re, figlio di un grande numismatico, che non ebbe tempo di lasciare traccia nella monetazione del suo Paese.

Una interessata polemica

Umberto conosce e valuta, meglio di noi, i fatti quotidiani dell’Italia. Il suo modo di « essere » in Italia è quello di seguirne, sui giornali e le riviste dei nostro Paese e di ogni lingua, al cinema, alla radio, i casi e le fortune. E’ un esule avido dell’aria del suo Paese e, diciamolo pure, soffre senza nasconderlo l’ostracismo al quale è costretto. Si è descritta tante volte la costa dov’egli vive, la scogliera dantesca aperta sulla vastità dell’Atlantico, la « Boca do infierno », alla quale si affaccia la Villa Italia. Si è richiamata la malinconia della landa che l’attornia, tra le basse colline digradanti verso l’immensa spiaggia del Guincio e il fragore costante del mare e i solitari battelli dei pescatori, attoniti al largo, attorno alle boe delle reti da sardine, e l’aria di quest’ultima Thule: « A fin do mundo ». Ma non si è detto abbastanza delle reazioni particolari di Umberto alla vita di esilio. Ne parlerò più avanti.

Il discorso così come, dopo i saluti, andò avviandosi toccò subito la materia che più interessava il Re, oltre – s’intende – i riflessi del matrimonio di Maria Pia nella stampa nazionale e straniera per cui un giornale non so se spagnolo o belga aveva stampato – echeggiando una frase della Regina Margherita – che « Umberto aveva ripristinata la poesia di Casa Savoia »; e un altro, a Lisbona, che « Maria Pia aveva cacciato Bulganin dalle prime pagine dei quotidiani italiani ». Questa materia, sempre scottante, era poi il brano di storia italiana, ancora molto oscuro e mal noto, tra il 25 luglio e l’8 di settembre, richiamato alla ribalta dalla pubblicazione della lettera di Vittorio Emanuele III, sulla cattura di Mussolini.

Questa lettera – ci dicemmo – è sicuramente falsa. Non è necessario ricorrere a trucchi, alterazioni, svisamenti della verità, per comprovare azioni di persone storiche, sulle quali si è abbattuta per dieci anni un’interessata polemica. (A questo punto mi tocca avvertire che riferisco indirettamente, solo rare volte riproducendole tra virgolette, le parole di Umberto II. Va quindi perduto in gran parte l’effetto, certe volte stranissimo e in qualche modo curiosamente solenne delle frasi udite dalla sua voce pacata, come, per esempio, quando, ricordando il vecchio sovrano lo chiama il Re: « Il Re fece questo… », « il Re disse quest’altro… » e pare ancora che lui, Umberto II, sia il Principe ereditario dritto dritto sugli « attenti » dinanzi al padre che lo guarda compiaciuto di sotto in su, mentre sfilano le truppe nelle chiare domeniche di giugno, festa dello Statuto.)

Ricostruzione degli avvenimenti
Il 25 luglio 1943 – dicemmo – con il periodo che ad esso si connette non è del tutto chiarito. Ne fu al centro Vittorio Emanuele III che, solo, conservò la calma e il coraggio per dirigere e condurre al fine necessario il trapasso dì regime. Gli elementi fondamentali, e, ormai, fissati dalla storia di questa «operazione» sono noti; non più suscettibili di modificazioni: non sono noti alcuni lati, o meglio, angoli di quegli avvenimenti. Se la lettera di Vittorio Emanuele III a Badoglio è sicuramente falsa (la carta intestata, certe modalità calligrafiche, il tono) ben altre prove, e queste autentiche, debbono esistere a favore dell’opera svolta dal medesimo Re Vittorio Emanuele III per impedire la fucilazione di Mussolini dopo l’arresto. Esistono o dovrebbero esistere verbali stenoscritti, lettere e prove su una seduta avvenuta il 25 luglio 1943 verso sera, i cui partecipanti sono tutti viventi. Al Re Vittorio veniva proposta la necessità di sopprimere Mussolini. «E’ un’operazione facile e sbrigativa alla quale non potrà essere collegata in alcun modo la responsabilità di Vostra Maestà. Mussolini sarà “spedito”, senza traccia e il Re non saprà nulla dell’operazione». Questo venne detto. Vittorio Emanuele III rifiutò nettamente, per ragioni umane, politiche e storiche. Non poteva autorizzare l’uccisione del suo ex Primo Ministro. Questo atto stesso avrebbe smentito il significato che egli intendeva conferire al 25 luglio, che era, come è noto, quello di una « crisi » di proporzioni vastissime e di svolgimento doloroso, date le contingenze di guerra e la svolta negativa presa dalle operazioni; ma pur tuttavia una « crisi » nella normale accezione della parola. Non è inutile rammentare (Umberto parla con molta passione, accentuando con caloroso affetto le argomentazioni più significative per la difesa di suo padre) che il Gran Consiglio del Fascismo, forse all’insaputa dei suoi stessi membri, in quella seduta del 24-25 luglio si trasformò in un organo in un certo senso democratico: per la prima e l’ultima volta in tutta la storia, il Gran Consiglio discusse e votò ordini del giorno e mise in minoranza il suo Presidente.

E’ ben noto che in quell’assise suprema del fascismo, sebbene fosse consentita una relativa libertà di discussione, i deliberati venivano approvati dalla voce di Mussolini, secondo un’invariabile formula: « Approvato questo punto passiamo al seguente… ». L’ordine del giorno Grandi era perciò, nelle mani di Re Vittorio Emanuele, un documento che serviva a dare inizio ad un nuovo periodo storico e questo non poteva e non doveva incominciare con un assassinio. Gli interlocutori del Re non si tennero dall’insistere nella necessità della « soppressione ». Essi sottolineavano drammaticamente la tremenda pericolosità di un Mussolini libero, di ammutinare le camicie nere, di fare ricorso ai tedeschi, di chiamare sul Paese nuove sventure. Uno dei più convinti, persona ancora vivente, disse: « La vita di un uomo non conta in certe circostanze ». Ma il Re fu irremovibile.

A questo punto del discorso cercammo, tra Umberto II e me, di ricordare e ricostruire, nei dati più sicuri ed essenziali lo svolgersi degli avvenimenti di una parte di quella giornata. Ricordavo la ricostruzione di Monelli, nel Roma ’43 e quella dello stesso Mussolini, nel Bastone e la carota; Umberto II non aveva bisogno di riferimenti, aveva tutto nitidissimo a mente, mentre io come uno scolaretto avevo segnato su un pezzo di carta ore e nomi.
La decisione di far dimettere Mussolini è già stata presa dal Re dopo il resoconto della seduta del Gran Consiglio ricevuta da Acquarone alle sei del mattino. Effettivamente il Re non ha autorizzato alcun arresto. Ma un piano per arrestare Mussolini ed una precisa intenzione di eliminarlo esiste ed egli ne è a conoscenza. Per chi ami le date, anche approssimative, si può stabilire che l’idea di abbattere il fascismo viene agitata per la prima volta dal Duca Acquarone e dal generale Castellano, secondo la testimonianza di quest’ultimo, già nel febbraio del ’43. I1 Castellano nel libro Come firmai t’armistizio di Cassibile (pag. 38), dice: « Ribadivo il concetto che bisognava eliminare il Capo del Governo anche senza riceverne l’ordine – Ambrosio non mi seguiva, naturalmente, su questa via; ché mai avrebbe preso una decisione del genere senza l’approvazione superiore », cioè del Re. In un giorno imprecisato tra febbraio e marzo ’43 Ambrosio dice a Castellano che «con quell’uomo non si sarebbe giunti a nulla . Castellano risponde: «Non rimane che farlo fuori, ma per questo occorre prepararsi adeguatamente ». La preparazione consistette in due « progetti », il primo – battuto a macchina dal tenente colonnello di Stato Maggiore De Francesco – comprendeva tre partì: 1) Misure per fronteggiare la eventuale reazione fascista; 2) Atti da compiere per la cattura di Mussolini e dei suoi seguaci più pericolosi; 3) Misure per opporsi alla reazione tedesca. Approvato questo memoriale, Ambrosio lo tiene in tasca per ventiquattr’ore. Poi lo restituisce e Castellano – come ci racconta nel libro citato – lo mostra a Ciano. Rischia, ma ha capito che Ciano è nemico di suo suocero.

Ai primi di luglio Ambrosio ordina a Castellano di compilare un altro progetto per « liquidare » Mussolini, Castellano ubbidisce. Il piano consiste: 1) Concentramento di forze nella Capitale per affrontare l’eventuale reazione tedesca e delle « SS » sparse a Roma, come le Squadre di azione che si diceva fossero state ricostruite da Scorza; 2) Mussolini poteva essere catturato a Palazzo Venezia, a Villa Torlonia, o all’uscita da una udienza reale, nel cortile del Quirinale. Ma questo – dice Castellano – « non era simpatico »; 3) Arresto simultaneo delle più alte personalità fasciste a Roma e nelle altre città d’Italia. Il progetto fu consegnato da Ambrosio ad Acquarone. Acquarone disse essere tutto prematuro, ma al momento opportuno sarebbe stato dato l’ordine di esecuzione: « Entro qualche ora l’operazione doveva essere eseguita ».

Dopo il convegno di Feltre, Acquarone aveva comunicato a Castellano la decisione del Re di sostituire Mussolini con Badoglio; la data dell’arresto non era fissata ma doveva cadere presumibilmente il giorno 26, lunedì. Viene abbandonata l’idea dell’azione di forza contro Palazzo Venezia e Villa Torlonia. Si pensa di indire una esercitazione militare alle porte di Roma e di catturare Mussolini via facendo. Prevale la tesi di prenderlo ,all’uscita da una udienza reale. Il campo di operazione previsto era il Quirinale. Lo sviluppo degli avvenimenti lo trasferì a Villa Ada, sulla via Salaria: ma la tecnica. fu quella, un po’ teatrale, di « sfilare » Mussolini, chiuso nell’autoambulanza, sotto il naso della propria scorta ferma e ignara fuori del muro di cinta. (Queste chiarificazioni tratte da documenti esistenti convalidano ciò che Umberto II mi dice.)
Effettivamente l’ordine di arresto fu protratto, secondo le dichiarazioni del generale Puntoni, sino all’ultimo. Il più coraggioso di tutti, in definitiva, era poi sempre Vittorio Emanuele che, avendo deciso di mandare via il suo Primo Ministro, glielo avrebbe detto personalmente, senza temere reazioni.

Castellano fornisce una notizia curiosa: Vittorio Emanuele rifiutò di far disporre persone dietro la porta, o, comunque, nascoste e pronte a intervenire in caso di ribellione di Mussolini. « Terrò in tasca una rivoltella », avrebbe detto. Ma se quella frase fu pronunciata, essa si colorisce ai nostri occhi di una strana ironia.
Ma perché l’arresto a Villa Savoia? (Ai Re non si può rivolgere la parola per i primi e mai in tono interrogativo, secondo il vecchio protocollo. E’ impossibile tuttavia non incorrere in questa indelicatezza. La conversazione continua e il lettore troverà la risposta tra le righe.)

La macchina del Primo Ministro entrò nei viali di Villa Ada alle 17, alle 17,20 usci l’autoambulanza. Secondo Monelli, il Re, dopo aver pronunciata la frase « Questo è il mio 18 Brumaio », continuò a passeggiare a lungo con il generale Puntoni. Nel giardino fra le 17,20 e l’una del mattino deve essere avvenuta la riunione tra le non nominate personalità che avevano attuata la cattura per decidere la sorte del prigioniero. « Venne impartito l’ordine di non toccare Mussolini, di assicurarne la incolumità e l’umano trattamento. Vittorio Emanuele III si informò dove esattamente l’ex Primo Ministro si trovasse. Probabilmente temeva che la discussione in cui gli era stato chiesto il consenso a « liquidare » il prigioniero fosse stata fatta per cercare una discriminazione ad un atto compiuto senza suo ordine. Il Re si preoccupò di evitare a Mussolini il rischio, grandissimo, di perire in un conflitto vero o simulato, nel caso che la cattura fosse eseguita a Palazzo Venezia o al Viminale o in qualunque altra delle sedi dei suoi molteplici uffici. La casa del Re doveva mettere Mussolini al coperto da immediato pericolo di morte. Si è visto che il trapasso di regime del 25 luglio venne operato senza un sol colpo di pistola e un sol ferito, a Roma e in tutta Italia. Si doveva garantire, quindi, che Mussolini non venisse travolto o da decisioni sbrigative in contrasto col pensiero del Re o da azioni di piazza. La lettera consegnata da lui al generale Ferone, nella caserma Pastrengo, all’una di notte del 26 luglio, dice tra l’altro: « … Faccio voti che il successo coroni il grave compito al quale il maresciallo Badoglio si accinge per ordine e in nome di Sua Maestà il Re. Del quale durante ventun anno sono stato leale servitore e tale rimango. Viva l’Italia». Una eloquente dichiarazione, non omessa neppure nel libro Storia di un anno. Forse indica che Mussolini si rendeva conto di avere la vita salva per ordine del Re. A questo punto, finisce la prima parte della mia conversazione con Umberto II, che comprende sguardi e giudizi sul suo recente passato, sul presente e sul prevedibile futuro.