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Regina Maria José, interviste

Intervista alla Regina Maria José – di Lazzarini – 1984 – 3

By Novembre 25, 2016Ottobre 24th, 2021No Comments

«Dopo un anno di esilio in Portogallo, fui in pericolo di vita per una gravissima malattia e dovetti cambiare  clima. Soltanto per questo mi  trasferii in Svizzera», racconta l’ex regina. «E mio marito non poteva risiedere per più di quindici giorni in un paese confinante con l’ltalia» – «Gli incontri con Mussolini e Hitler»

 

Credo che i miei figli posseggano una dote in comune, ereditata dal padre: la bontà, la gentilezza d’animo, insomma somma una specie di innato slancio verso gli altri che qualche volta addirittura li tradisce, deformando un po’ la loro immagine presso l’opinione pubblica. Dei miei quattro ragazzi” direi che, se penso a Maria Pia, penso a una donna che impersona la gaiezza e la serenità; se penso a Vittorio Emanuele, penso a un uomo generoso; quanto a Maria Gabriella, è sempre stata un misto di dolcezza e di determinazione, mentre Maria Beatrice è la gioia di vivere e 1’amabilità.

È questa la terza puntata dei ricordi di Maria José: una puntata nella quale l’ex regina non solo completa il ritratto, pubblica e privato, di Umberto di Savoia scomparso un anno fa, ma rievoca anche i suoi incontri con personalità politiche dell’epoca. E, come sempre, parla dei quattro adorati figli.

A Napoli, lo si è accennato la settimana scorsa, Maria José ha vissuto il periodo forse più felice di tutta la sua vita: là è stata infatti non sola sposa innamorata di un principe che le riservava tenere premure, ma anche giovane mamma trepidante. E’ stata amatissima da quella città che ha poi visto dilaniata dai bombardamenti e con la popolazione ridotta alla fame. Racconta l’ex regina: «Provavo una gran pena nel vedere tante rovine, gente sbandata, vittime innocenti. Ammiravo questa gente che sopportava e che lottava per sopravvivere. C’è un episodio che non dimenticherò mai e che dimostra la gentilezza d’animo napoletana. Fu nel periodo in cui aspettavo Maria Beatrice. Ero per strada a Posillipo, con Maria di San Cesario, una nobildonna napoletana. Erano circa le due del pomeriggio e improvvisamente vi fu un attacco aereo: vidi nel cielo dapprima delle macchie dapprima poi dei punti luminosi che cadevano. Vicino a noi una batteria aprì il tiro contraereo. “Meglio entrare in una casa”, consigliò la San Cesario. Entrammo: la gente si era rifugiata nel sottoscala, mi diedero una sedia. Una donna, incurante dei bombardamenti, uscì per cercare dei fiori. Un’altra andò a preparare il caffè e tornò con una caffettiera fumante, altre, guardandomi sorridenti, ripetevano: “Benedetti gli inglesi, che ci hanno fatto l’onore di conoscere la principessa”. Ecco, è un episodio che ancora oggi, a distanza di anni, mi commuove».

A Napoli Maria José si propone di dedicarsi a un’intensa attività assistenziale, ma i suoi progetti le creano subito dissapori con le autorità fasciste. «Un giorno», ricorda, «organizzai a palazzo reale una “kermesse” di beneficenza di due giorni, che si concluse con uno spettacolo. Tito Schipa si era offerto di cantare gratuitamente. Fu una festa che riuscì molto bene e si ricavarono duecentomila lire nette. Volevo destinare questo denaro all’Associazione per il Mezzogiorno. Ma il prefetto intervenne: si recò da mio marito e gli chiese che la somma venisse consegnata, perché al suo impiego avrebbero provveduto le organizzazioni assistenziali fasciste. L’Associazione non era fascista ed è per questo che non doveva essere aiutata, anche se da molti anni, assai prima che vi pensassero i fascisti, aveva creato nel Meridione scuole, asili, ospedali.

 

 

«La meschinità dei fascisti, certi stupidi soprusi, mi irritavano. Io sono nata in un paese libero, figlia di un re democratico. E se in Italia nessun altro personaggio di casa reale vedeva e ascoltava quelle persone, sentivo il dovere di farlo io. Ai fascisti che avevano le loro spie anche a corte, questo non poteva sfuggire. Una volta un gerarca mi disse con tono minaccioso: “Abbiamo tante veline sul suo conto”. Io non ho mai saputo che cosa siano le veline. Comunque i fascisti intervenivano in tutti i settori della vita pubblica, in qualsiasi iniziativa, anche se priva di un qualsiasi significato politico.

«Un anno, per esempio, con Umberto feci un viaggio in Sardegna e mi colpirono moltissimo i nuraghi, vestigia di un’antichissima civiltà. Mio marito si informò subito se si faceva qualcosa per preservare dalla rovina quegli antichissimi ruderi, se a questo scopo esisteva un comitato o qualcosa del genere e se si poteva farne parte. Gli fu risposto che i nuraghi non erano opere del regime».

Se il giudizio sul fascismo è duro; né può essere diversamente, nei confronti di Mussolini l’ex regina si è sempre espressa senza acredine, senza astio, con un sereno distacco. Ecco come rievoca alcuni suoi incontri: «Lo vidi per la prima volta al matrimonio di Mafalda a Racconigi. Non era ancora ingrassato. Bello non era nemmeno allora, ma gli occhi sì, gli occhi erano veramente straordinari. Era ancora un Mussolini umano. Ho parlato diverse volte con lui. Agli inizi ascoltava con interesse, con cortesia, ogni mia richiesta. Non toccavamo argomenti di politica. Gli parlavo di un ospedale e di un asilo, di qualche finanziamento che sarebbe stato necessario ottenere, di un inconveniente che bisognava eliminare. “Ah, sì?”, rispondeva lui. “Manderò un ispettore”. Oppure: “Senz’altro, farò destinare due milioni”.

«Dopo, non so che cosa sia successo, non si poteva ottenere più niente. Ma i primi anni, debbo dirlo, era molto gentile. Una volta avevo bisogno di soldi per un asilo di maternità che era in condizioni deplorevoli di sovraffollamento, con una dotazione di letti insufficiente. Gli spiegai come stavano le cose e l’indomani mi telefonò per comunicarmi che avrei ricevuto un assegno. Poi cambiò, anche fisicamente. Da quando incominciò a portare le uniformi e si alleò con Hitler, iniziò il suo declino. Un giorno lo incontrai nel giardino del Quirinale. Tornava da un colloquio con il re, io ero con Vittorio Emanuele che pedalava sul suo triciclo. Mussolini non aveva mai visto mio figlio. Gli dissi: “Questo è Vittorio”. Lui si fermò a guardarlo e poi disse con amarezza: “Beato lui che ha quell’età”. Quel giorno era preoccupato, accasciato.

«Sentivo raccontare, poi, che voleva farsi incoronare imperatore. E quando fu votata la legge che conferiva al Gran Consiglio il diritto di pronunciarsi sulla successione, andai a trovarlo. Lo scopo della mia visita era il solito: chiedergli dei fondi per opere di beneficenza. L’idea di domandargli che cosa significasse quella legge mi venne lì per lì. “Voglio sentire che cosa mi dice”, pensai. In seguito è stato scritto che quella mia domanda lo irritò molto. A me non parve. Anzi, fu molto pronto nel rispondermi, non manifestò il minimo imbarazzo o dispetto. Disse che al Gran Consiglio sarebbe spettato decidere solo nel caso, puramente ipotetico, in cui mancasse un erede al trono».

La guerra che si annuncia in Africa Orientale chiama Maria José a un’attività per la quale, avendo frequentato il corso per infermiere della Croce Rossa, è già preparata: durante tutto il 1935 ed il 1936sarà la «Sorella Maria José di Piemonte». È infaticabile, si sposta da un punto all’altro d’Italia per visitare ospedali, avviare iniziative e interessarsi alla vasta organizzazione sanitaria. La si vede anche nelle sale operatorie, calma e disinvolta e porge i ferri al chirurgo. Capace di imporsi una disciplina di stampo teutonico, non si concede soste, lavora senza pause dall’alba al tramonto mettendo a dura prova le sue dame di compagnia. Nel febbraio del 1936, poi, frequenta un corso per malattie tropicali, diretto dal professor Aldo Castellani, che da allora in poi avrà spesso accanto e che l’accompagnerà anche in esilio.

 

 

«FUI RIMPROVERATA»

 

«Mi sembrò di essere tornata a scuola», confessa divertita, «confusa com’ero tra tante allieve di un corso affollatissimo». Supera l’esame con ottimi voti e verso la fine di marzo si imbarca sul Cesarea per l’Africa Orientale, dove ancora si combatte e dove le truppe italiane si predispongono all’ultimo balzo per la conquista di Addis Abeba. «Al molo di Beverello», racconta, «lo stesso molo dal quale dieci anni dopo sarei partita per 1’esilio, venne a salutarmi mio marito assieme alla duchessa d’Aosta. Umberto mi abbracciò teneramente, poi il Cesarea si staccò dal molo ed iniziò il suo lungo viaggio… Visitai la Somalia e poi passai in Eritrea. II 3 maggio appresi, felice, che il Negus era fuggito e che la strada verso la capitale era ormai aperta a Badoglio. Il 5 maggio ascoltai, commossa, il discorso che Mussolini pronunciò alla radio. Il giorno dopo, ancora emozionata, non potei fare a meno di inviargli un messaggio per il quale fui in seguito rimproverata. Il messaggio diceva testualmente: “Esulto per la completa vittoria delle nostre valorose truppe. Sono fiera del privilegio di aver ascoltato il vostro annuncio, accanto ai feriti e agli ammalati, a bordo della nave Cesarea. Non dimenticherò mai questa grande emozione. Grazie. Vostra affezionatissima Maria, principessa di Piemonte”. Il 10 maggio rientrai in Italia, orgogliosa di sentirmi italiana».

Un nuovo periodo di perfetta armonia coniugale, di affettuosa intesa con Umberto comincia per Maria José il giorno del suo rientro dalla missione compiuta a bordo del Cesarea. E soprattutto di questo periodo molto si è scritto per spiegare che i rapporti fra la principessa di Piemonte e i Savoia non furono mai eccellenti. Vìttorio Emanuele III, poi, era autoritario con tutti, e si chiudeva nel più impenetrabile silenzio quando si sfioravano questioni politiche o dinastiche. E tuttavia Maria José deve aver tentato, nel corso di certe conversazioni culturali che nuora e suocero facevano, di manifestare con cautela le proprie idee in materia. «Con il re però si può parlare», dirà una volta a una persona amica alludendo al fatto che qualche volta la conversazione era andata avanti. E ad Enzo Biagi molti anni dopo confiderà: «La regina Elena era una donna dalla gentilezza squisita, sempre molto affettuosa con me, E anche il re, contrariamente a quanto si è sempre creduto, in famiglia era un uomo estremamente affabile, gentile, affettuoso. Aveva anche un certo senso dell’humour. Ha avuto una vita lunga che fa parte della storia d’Italia. Ma se dovessi ricordarlo come nuora, da donna che lo ha conosciuto da vicino, potrei dire che era un uomo intelligente».

Il luogo nel quale ogni anno ritrova riuniti per le vacanze estive tutti i Savoia è San Rossore. Qui si ricompone l’unità familiare. Di queste vacanze Maria di Borbone-Parma, la più giovane sorella di Umberto, racconterà: «Maria José ed io facevamo musica insieme: suonavamo a quattro mani Beethoven e Mozart. Lei suonava benissimo, da vera artista. Le bastava leggere un pezzo difficilissimo, Chopin o Brahms, e la volta seguente lo eseguiva a memoria…».

Gli avvenimenti si susseguono a ritmo incalzante, Maria José sente parlare da tutti di «uomo della Provvidenza», di trono in pericolo. Chi le apre gli occhi sul pericolo che il fascismo travolga nella sua inevitabile caduta la monarchia, è Benedetto Croce. L’incontro con l’illustre filosofo avviene nella Casa del cane, a Pompei. «Io avevo sempre la polizia alle costole», racconta l’ex regina, «e dovetti fare in modo quel pomeriggio di liberarmene. Dissi che andavo a Capodimonte dalla duchessa d’Aosta, e così non venni seguita. Il colloquio due o tre ore, Croce fu molto franco e mi disse: “La monarchia è finita. Il fascismo rovina tutto”».

 

 

«SOLO CIOCCOLATA»

 

I ricordi ora si legano ai personaggi che in quei momenti hanno in mano i destini dell’Italia o del mondo. Gli incontri con Hitler, per esempio: «Conobbi Hitler per la prima volta a Napoli nel 1938. Al pranzo di gala a Palazzo reale era seduto al mio fianco. Mangiò solo cioccolata, una grande tavoletta di cioccolata. Lo invidiai perché ero ghiotta e da bambina mi proibivano di mangiarne. Tutti hanno parlato di magnetismo del suo sguardo, io non l’ho mai avvertito. Era educato, freddo come certi austriaci, sempre impettito, rigido. Anche cortese. A tavola mi disse: “Distruggeremo l’Impero Britannico”. Diffidava dei Savoia, ma non me lo disse.

«Lo rividi in seguito in Germania. Mio fratello, re Leopoldo, mi incaricò di chiedergli di liberare certi ufficiali valloni, e di permettere al governo di comperare farina negli Stati Uniti, nazione non belligerante. Da parte mia gli domandai di favorire il ritorno in Germania di una zia novantenne. Hitler mi rispose no su tutta la linea e a sua volta mi pregò di chiedere a Leopoldo di sfilare con lui per le vie di Bruxelles. “Jamais dans la vìé”, urlò mio fratello quando gli riferii la richiesta».

Ancora personaggi storici, ancora un giudizio senza astio su Mussolini: «Aveva talento, era un tribuno nato. Si è guastato dopo, lo ha rovinato Hitler, del quale era gelosissimo».

Gli avvenimenti politici si intrecciano quindi con il «privato»: gli italiani votano repubblica, i sovrani partono per l’esilio. «Sono stata forte nei momenti difficili e debole nei momenti facili. La parentesi forse più dolorosa della mia vita cominciò a Lisbona, nel 1947. Una emorragia mi aveva anemizzata, incertezze nelle diagnosi, esitazioni da parte dei medici, trasfusioni di sangue eseguite in ritardo, misero fortemente in pericolo la mia vita. Bastarono un paio di giorni e io non ci vedevo più. E allora caddi in uno stato di profondo sgomento. Aruga, lo specialista fatto venire dalla Spagna, consigliò un clima più vivificante di quello atlantico. La Svizzera, Ginevra offrivano il clima adatto. E in Svizzera c’era Franceschetti, uno dei maggiori oculisti dell’epoca».

Quando nell’agosto del 1947 arriva a Ginevra, Maria José nasconde la sua infermità a tutti, si comporta con eccezionale coraggio, sbalordendo medici e infermiere che non la conoscono. Suo fratello Leopoldo l’aiuta a trovare una villa poco lontano da Ginevra. Così Maria José si installa in una villa antica, in aperta campagna, a monte della strada che da Ginevra va a Evian. Sceglie quella casa che abita tuttora dopo aver visto la cucina: ampia, ariosa, con un’atmosfera casereccia. «Era una giornata tetra, uggiosa, quando venni a visitare Merlinge», ricorda, «ma non appena entrai nella cucina mi sentii riconfortata. La cucina è importante. Ricordo che la regina Elena passava sempre qualche ora della sua giornata in cucina e che le piaceva moltissimo stare davanti ai fornelli. Mio figlio Vittorio ha preso dalla nonna: ai fornelli è bravissimo, cucina sempre lui la salsa per gli spaghetti quando invita i suoi amici».

Umberto, ultimo capitolo di questi ricordi di Maria José. Tanto si è scritto sulla loro separazione, lui a Villa Italia a Cascais, lei in Svizzera a Merlinge. Dice: «Hanno raccontato che ci eravamo separati, che non ci vedevamo mai. Non è vero. E si dimentica che fino a qualche anno fa una convenzione internazionale vietava al re di risiedere per più di quindici giorni in un paese confinante con l’Italia. Io dovevo rimanere sempre a Ginevra, e incontrarci non è mai stato facile. Mi hanno sempre chiesto se io avrei potuto rientrare in Italia. Rispondo che Einaudi sarebbe stato favorevole: avrei potuto recarmi ad Ischia come privata cittadina per le cure dei fanghi. No, non sono rientrata in Italia perché non volevo lasciare il re solo nell’esilio».

 

«POTESSI TORNARE…»

 

La malattia di Umberto. «Di quei mesi, un anno fa», dice Maria José, «ricordo fra le tante cose la sua commozione per la famosa lettera che gli scrisse Pertini. Dopo anni di esilio sapere che la più alta autorità dello Stato aveva avuto la nobiltà d’animo di scrivere quelle parole, lo commosse profondamente… Durante tutta la malattia non ci sono state giornate drammatiche, Umberto non ha mai perso la conoscenza. È sempre stato un uomo molto coraggioso. Dal giorno che avvertì i primi sintomi del male, non l’ho sentito lamentarsi. A Londra sono andata a trovarlo cinque volte.

Un sogno, un desiderio segreto? Risponde Maria José: «Sarei felice se potessi anche per un solo giorno ritornare nei luoghi dove ho vissuto prima dell’esilio. Sarei felice se potessi rivedere Roma, Napoli, Firenze; se potessi visitare il mio vecchio collegio fiorentino, i vicoli di Napoli affollati di donne e bambini, piazza Navona che mi piaceva tanto. Sarei felice se potessi rivedere la via Appia Antica. Era la nostra passeggiata preferita: spesso di sera io e mio marito raggiungevamo in automobile la zona attorno alla tomba di Cecilia Metella e percorrevamo a piedi un tratto verso i colli Albani illuminati dalla luna.

«Pur di rivedere l’Itàlia sarei disposta perfino a travestirmi, a pettinarmi diversamente, a tingermi i capelli. Anche mio figlio Vittorio farebbe qualunque cosa. Solo che è così alto e lo riconoscerebbero subito: a volte fantastichiamo un po’ insieme su un immaginario viaggio in Italia. Ma saremmo poi capaci, io e Vittorio, di tornare in Italia da soli, senza il Re?»