«Arrivarono a scrivere che lui una sera mi lasciò con una scusa e raggiunse di nascosto sulla Costa Azzurra la famosa attrice americana Jeannette Mac Donald. Assurde fantasticherie su un legame inventato», racconta l’ex regina riferendosi alla piccante vicenda che, «sparata» da un giornale francese, turbò il suo primo anniversario di matrimonio. «Appena arrivata a Torino, mi sentivo quasi prigioniera tra i divieti, la rigida etichetta, le ossessive misure di sicurezza» – «Quando mio padre morì in un incidente di montagna, dovetti rinunciare ad andare a Bruxelles per non mettere in pericolo la gravidanza» – «Mi criticavano perché educavo i figli lasciandoli liberi»
I1 mio matrimonio con Umberto aveva suggellato l’unione di due dinastie regnanti e fu ben accolto in tutti gli ambienti sociali; il futuro si annunciava felice, ma i più avveduti vedevano addensarsi grosse nubi sull’orizzonte politico italiano». Con questa seconda puntata prosegue la pubblicazione dei ricordi di Maria José: ricordi con i quali Oggi vuole proporre un ritratto. di Umberto di Savoia, pubblico e privato, a un anno dalla sua scomparsa.
«Il periodo di ambientamento fu, lo confesso, piuttosto lungo e laborioso», continua l’ex regina, «e io fui costretta a compiere uno sforzo notevole per evitare errori. L’etichetta della corte belga, sebbene severa, perdeva ogni significato se raffrontata alla rigidità un po’ anacronistica del protocollo della Corte italiana, in contrasto con la naturale spontaneità del carattere latino…
«Trascorremmo i primi quattro anni del nostro matrimonio a Torino, una città che conservava ancora l’aspetto della capitale, dove mio marito, comandava un reggimento di granatieri. Avevamo un orario molto preciso, i giorni si succedevano senza fantasia e senza contatti con il mondo esterno. La vita mondana era però molto intensa e la nobiltà torinese, profondamente affezionata a casa Savoia, si “rovinava” in balli in onore del principe. I monarchici benpensanti rimproveravano a mio marito la sua mondanità; i fanatici del regime lo accusavano, invece, di tenersi lontano dalle attività fasciste: posizione delicatissima per un principe ereditario e per la sua sposa costretti sotto il giogo della dittatura. Piccolo dettaglio della nostra vita quotidiana: una schiera di agenti di sicurezza ci seguiva ovunque. Ci voleva tutta la buona grazia di Umberto per sopportare una simile restrizione».
Gli anni di Torino non sono certo felici per la principessa belga andata sposa all’erede al trono d’Italia. Intanto viene criticata subito per la breve luna di miele trascorsa a Courmayeur, giudicata troppo borghese oltre che troppo breve. Poi la coppia si trova al centro di chiacchiere salaci per la decisione di stabilirsi a Torino, città nella quale Umberto aveva vissuto da scapolo facendo stragi di cuori femminili. Poi le abitudini democratiche della principessa, il gusto che provava a uscire da sola, la sua insofferenza a sottoporsi a certe regole di etichetta suscitavano diffidenza nella chiusa e un po’ bigotta aristocrazia piemontese. A Maria José piaceva spostarsi in tram, pranzare al ristorante, avvicinare chiunque. Avrebbe voluto perfino girare in bicicletta, se glielo avessero permesso.
Estate 1931, il bel mondo che ruota attorno ai Savoia è a rumore, un anno soltanto dopo le nozze. Maria José e Umberto sono sfiorati dallo scandalo. Sul giornale francese Gringoire Marcel Privat fa una sensazionale rivelazione: l’erede al trono d’Italia si è follemente innamorato della supervamp Jeannette Mac Donald, una delle più affascinanti attrici cinematografiche americane. Non solo lui l’ha raggiunta a Montecarlo, dove lei è arrivata da Parigi, ma addirittura i due progettano di fuggire insieme.
Ancora oggi Maria José si chiede perché mai qualcuno abbia pensato di architettare una storia simile e racconta: «Si scrisse che Umberto una sera si era allontanato da me con una scusa e nascostamente aveva raggiunto la Mac Donald sulla Costa Azzurra. Di lì progettavano di fuggire insieme addirittura in Belgio, fu scritto. Proprio dove c’erano i miei genitori! L’unico spunto vero in tutta la storia è che una sera, mentre eravamo invitati in casa della contessa Borgogna, mio marito che aveva un forte raffreddore andò via prima di me per tornarsene a casa e mettersi a letto. Quella sera c’era Curzio Malaparte in casa Borgogna. Era la prima volta che lo incontravo e mi dispiaceva lasciare a metà la conversazione intavolata. Fui io a chiedere a Umberto il permesso di rimanere.
TRASLOCO A NAPOLI
È incredibile come su un particolare così insignificante si siano potute imbastire tante fantasticherie. Umberto, poi, in quei giorni rimase a casa a curare il suo raffreddore e io non mi mossi dal suo fianco. Non avevo mai visto la Mac Donald e, a quel che so, quest’attrice a quell’epoca non si trovava in Europa, anzi non c’era mai venuta.
«Molto tempo dopo mi dissero che la Mac Donald aveva ammesso di aver lasciato correre la notizia, senza smentirla, perché in fondo le faceva pubblicità. Io ero stupita che dal niente si potessero inventare certe cose».
Mondanità e pettegolezzi di questo periodo si scontrano poi con il racconto che Maria José fa della loro vita torinese. Dice infatti: «L’esercito era la grande passione di Umberto: si occupava attivamente del suo reggimento seguendo ciascuno dei suoi soldati con un’attenzione commovente. Quanto a me, dedicavo gran parte della giornata all’adempimento di quei doveri detti “di carità”. Cercavo nel limite del possibile di evitare le mondanità per seguire le attività della Croce Rossa e per visitare le numerose istituzioni di beneficenza fondate per la maggior parte dai duchi di Savoia e dai re di Sardegna. Umberto mi proibì però di visitare il celebre Cottolengo: temeva che m’impressionassi troppo».
I principi di Piemonte si trasferiscono a Napoli tre anni dopo il loro matrimonio, nel 1933 quando Umberto, promosso generale di Corpo d’Armata, viene mandato dal padre ad assumere il comando militare della città. Gli sposi prendono alloggio nell’antica reggia borbonica e per loro viene sistemato un appartamento al secondo piano, in quel lato del palazzo che si affaccia sul golfo. Maria José avrebbe preferito Capodimonte, ma vi abitava la duchessa d’Aosta. Il suo desiderio di avere una casa più intima, che non fosse situata nel centro della città, può realizzarsi però l’anno dopo, quando il comune di Napoli mette a disposizione dei principi, per il periodo estivo, la villa Rosebery.
Quanto ai napoletani, dapprima giudicano Maria José altera, distante, e le signore che frequentano la corte sono tutte occhi per Umberto che, al solito, è brillante, mondano, sa conversare e presta orecchio a tutte le indiscrezioni dei salotti. E in quella ristretta cerchia di privilegiati che si stringono attorno al marito, Maria José appare impacciata e annoiata. Solo per poco tempo, però. Perché ben presto la principessa belga dagli splendidi occhi azzurri e dai capelli biondi conquista i napoletani: cominciano ad amarla e lei ricambia in maniera totale questo amore.
«LE MIE TRAGEDIE»
«A Napoli», ricorda Maria José, «ebbi la gioia di apprendere che ero in attesa del mio primo figlio. Ma nelle primissime settimane di gravidanza la nostra vita fu sconvolta da una tragedia: la morte di mio padre». Un incidente inspiegabile: re Alberto, grande scalatore di pareti, provetto alpinista, muore proprio nel corso di una delle ascensioni più facili tra le rocce di Marche-les-Dames. Maria José ricorda che a lei la notizia venne data da Umberto: «Fu chiamato al telefono da Bruxelles, subito dopo pranzo. Quando tornò nella stanza era cupo, sconvolto. Mi disse che mio padre aveva avuto un incidente, che non si capiva bene quello che era successo. Cercava di nascondermi sul momento, preso alla sprovvista dalla telefonata, la gravità dell’accaduto. Ero proprio nei primi giorni di gravidanza, voleva evitarmi un’emozione improvvisa. Telefonammo a Roma all’ambasciata del Belgio, poi a Bruxelles. Parlai con mia madre e appresi tutta la verità. Volevo partire subito, ma Artom, il ginecologo, si oppose. Avevo atteso per più di tre anni la nascita di un figlio, non potevo correre il rischio di un viaggio così doloroso in quella fase delicata dalla maternità».
Il 24 settembre 1934 nella nursery preparata al secondo piano del palazzo reale, in quella parte dell’edificio che dà sul molo grande da dove partono i vaporetti che vanno a Capri, nasce Maria Pia.
«Desideravo un maschio», racconta l’ex regina, «ma quando Maria Pia nacque era così bellina che si fece perdonare subito di essere una femminuccia. Aveva ì capelli fini come seta, dei fili d’oro. Dormiva con i pugni chiusi, stretti, e le braccine levate in alto, come ho visto dormire appena nato, uno dei suoi gemelli, Dimitri. La presenza di un essere nuovo, accanto a me, mi pareva un’esperienza straordinaria. I primi passi di mia figlia, i primi bagni di mare: ricordo ogni piccolo gesto di lei. Ricordo quando stringeva un oggetto in una mano e non voleva lasciarlo mai più. Ricordo il suo costumino da bagno, blu chiaro. Aveva due anni ed era bionda bionda. Suo padre giocava con lei come un ragazzo. C’erano parole che Maria Pia non riusciva a pronunciare e il re si divertiva moltissimo a fargliele ripetere. Non riusciva a dire, per esempio, “cinematografo”».
Diciotto mesi dopo la morte di re Alberto, la tragedia si abbatte di nuovo sulla famiglia belga: in un incidente stradale muore la regina Astrid. La regina madre Elisabetta riceve la notizia mentre si trova a Napoli, ospite dei principi di Piemonte. «Toccò a me», dice Maria José, «informarla di ciò che era accaduto. Eravamo sulla spiaggia quando venni avvertita che mio fratello chiedeva di me al telefono da Lucerna. La sua voce era ferma: “È accaduta una grande disgrazia”, mi disse, “Astrid è morta”… Partimmo per il Belgio con il primo treno. Era la prima volta che facevo ritorno in patria, da quando ero partita per l’Italia: e questo ritorno, che avevo lungamente desiderato, avveniva in circostanze così tristi».
Nel 1937 nasce Vittorio Emanuele. Già la nascita di Maria Pia aveva profondamente cambiato Maria José; dopo aver atteso tanto a lungo un erede, la gioia della maternità l’aveva fatta diventare più sicura di sé, più consapevole del suo destino di donna. La nascita dell’erede della dinastia completa questa trasformazione.
«Vittorio», ricorda l’ex regina, «era tanto grasso e paffuto quando nacque; aveva un enorme doppio mento: tutti ridevano e lo chiamavano Budda. Ed io ero offesa che ci si prendesse gioco di lui. Fin da piccolissimo ha avuto la passione della velocità. A tre anni e mezzo, con la sua automobilina a pedali si buttava nelle discese a capofitto. Quando lo portavo a Capodimonte mi faceva stare con l’animo sospeso; c’era un pendio molto ripido e lui lo percorreva a tutta velocità. Ma era molto abile, come adesso».
«TITTI», LA PIÙ BUFFA
Dopo Vittorio Emanuele nel 1940 e nel 1943 nascono rispettivamente Maria Gabriella e Maria Beatrice. Dei suoi figli e dell’educazione che viene loro impartita, Maria José ha ricordi precisi: «Maria Pia ha dimostrato un carattere risoluto sin dai primi anni. Sapeva quello che voleva o che non voleva e non c’era modo di farle cambiare idea. Era sorprendente la facilità con cui studiava. Bastava spiegarle una cosa una volta e lei non la dimenticava più. E nelle sue simpatie o antipatie era decisa: quando qualcuno non le andava a genio, lo faceva capire subito.
«Gabriella appena nata era molto bella, una bambina stupenda. Crescendo, quanto a carattere ha preso ad assomigliare a mia madre. Ha sempre fatto una quantità di cose, anche troppe in una giornata. Ancora oggi, quando si sta con lei, si ha la sensazione di essere sfiorati da un turbine. È sempre riuscita bene in tutto, brava a scuola, brava nella pittura, brava nello sport. Ha spirito organizzativo, è la più capace come testa. E fin da piccola ha dimostrato di essere la più indipendente: metteva k.o. tutte le istitutrici. La più buffa da piccola era invece Titti, Maria Beatrice. Era sicura di sé, prepotente, non si lasciava intimidire da nulla. Faceva delle birichinate, poi andava a chiudersi in una stanza e quando la chiamavo mi rispondeva: “Non ci sono”.
«Sono stata spesso criticata dalle persone benpensanti per come ho educato i miei figli, per la libertà che ho sempre accordata loro fin da quando erano piccoli: in questo ero perfettamente d’accordo con mio marito. I ragazzi devono imparare da sé a fare le loro esperienze. Non sono d’accordo con chi dice che debbano avere delle persone vicine che facciano tutto per loro. Io da bambina ero ribelle perché troppe cose mi erano vietate, e le cose che potevo fare dovevo farle sotto la costante sorveglianza degli altri. Nei miei figli non c’è mai stato questo spirito di rivolta, perché non ho mai posto dinanzi a loro dei divieti, né nelle piccole cose né in quelle importanti . Quando l’ho giudicato necessario, lì ho messi in guardia dai pericoli ai quali potevano andare incontro, dagli errori che potevano commettere. Li ho avvertiti delle difficoltà che la vita poteva e può ancora riservare loro, ho sempre detto loro che dovevano essere preparati a tutto e non ritenersi degli esseri privilegiati».
Racconterà molti anni dopo Vittorio Emanuele: «Stavo raramente con la, mamma quando ero bambino, a Napoli. Le cose cambiavano quando andavamo a Sarre. Per questo ogni anno io non vedevo l’ora di partire per Sarre. Allora, sì, facevamo i campeggi, gite in montagna, lunghe passeggiate con lei».
Dirà Maria Pia: «Papà e mamma abitavano a Napoli in un appartamento separato da quello di noi bambini. Si mangiava per conto nostro, si era sempre assieme alle governanti. Di Napoli non ricordo molto, ma a Roma, quando si andava, dalla mamma, prima c’erano i corazzieri, poi il poliziotto, poi l’anticamera piena di gente. Noi non eravamo mai soli col papà e con la mamma: c’erano dame, gentiluomini di corte, visite. C’era sempre qualcuno tra loro e noi. Ogni tanto papà ci faceva un’improvvisata e veniva a guardarci giocare»