Una bandiera italiana
Questa mattina il mare è tranquillo, il suo turchino intenso palpita dei riflessi del sole, gli scogli e gli alberi del grande arco della costa si disegnano puliti, nitidi,visibili a grande distanza uno per uno..
La tempesta di ieri sembra un ricordo lontano avvenuta in altri mari. nel giardino di villa Italia, un giardino per modo di dire, una breve fascia di terra intorno alla casa, con poche aiuole di gerani, giocano a rincorrersi le principessine. Il re è già sulla soglie della porta dai tre gradini sulla sinistra della facciata. Mi propone una passeggiata alla “Boca do Inferno”. Di qui alla ciclopica caverna ci sono due chilometri di bellissima strada fiancheggiata da un lato dai pini e dall’altra dalla scogliera. L’aria è tiepida, come d’Aprile. Il mio ospite mi sembra, stamattina, un altr’uomo. L’aspetto è se possibile, ancor più giovanile del solito; l’espressione serena, quasi lieta; in luogo del consueto riserbo, una cordialità, una disposizione alla confidenza che mi stupiscono. Seppur in minor misura, Umberto di Savoia ha ereditato dal padre il pudore, la gelosia dei propri sentimenti, ed è timido di quella timidezza che secondo il Leopardi è caratteristica degli uomini cui l’estrema sensibilità ed un orgoglio non comune rendono timorosissimi nel giudizio altrui. Ma stamane Umberto non si tiene in guardia com’è suo costume di fare gli altri giorni, quando, seduti nel suo studio l’uno di fronte all’altro, si direbbe che badi continuamente a non scoprirsi, ed un frequente risolino nervoso, talvolta del tutto fuori luogo, gli serve di difesa.
Di che parliamo, questa mattina, lungo il mare? D’ogni cosa, quasi – mi si perdoni il presuntuoso avverbio – amichevolmente. Di letteratura, di teatro, di sport. Poi la conversazione, leggera come la brezza che gioca con le fronde dei pini, scivola – come non può non avvenire, ormai di nessuna conversazione – nella politica.
Non nascondo al re quanto mi meravigli in questo remotissimo angolo di mondo, sentirlo perfettamente informato di tutto.”E’ molto semplice“, egli dice. ” Ci sono due categorie di re in esilio: quelli che si limitano a dar lustro ai grandi alberghi, e quelli che vivono appartati, in una modesta casa sul mare“.
“Vuol dire che quelli che vivono appartati sono i meno appartati?”.
“Può darsi. Anzitutto leggo un gran numero di giornali, italiani ed esteri, ed a chi sappia ben leggere i giornali non è difficile orientarsi. Poi ho i miei informatori“. Sorride”. Non pensi ad un servizio organizzato. Sono italiani che nell’intento di di riuscirmi utili mi segnalano i fatti e gli avvenimenti che non si leggono sui giornali; che d’ordinario sono i più importanti. Ricevo, infine, consigli, suggerimenti, avvertimenti e non tutti di uomini secondari nella vita politica italiana“.
“Posso chiederle qualche nome?”.
“Come amico non come giornalista“.
“E nemmeno mi è permesso”, domando dopo aver udito, fra gli altri, i nomi di due personaggi dei quali nessuno al mondo sospetterebbe una più che cordiale corrispondenza politica con Umberto di Savoia, “e nemmeno mi è permesso di lascia indovinare chi siano? Ci sarebbe da riempire di meraviglia tutta Italia”.
“Ho parlato all’amico“, ripete il re, “e non al giornalista. Debbo ammettere” soggiunge sorridendo, “che quella meraviglia della quale sono costretto a ad impedirle di riempire tutta Italia, provai anche io a un anno fa nel ricevere le prime loro lettere. Pensi che uno dei due, quando morì mio padre, non ebbe il coraggio di mandarmi le condoglianze“.
Ne ricevette molte?”
“Moltissime. Anche di uomini di sinistra. Perfino il presidente della Vittoria ritenne doveroso condolersi della morte di Vittorio Emanuele III“. Mi guarda. “Non le sembra un bel tratto?”.
“Bellissimo”, dico.
Un grido rauco viene dal mare. E’ la sirena della nave vedetta presso la quale debbono arrestarsi tutti i piroscafi diretti a Lisbona per imbarcare il pilota pratico dei passaggi del Tago. La scena si ripete trenta volte al giorno, ma ogni volta il cuore batte più rapidamente all’esule, che non fatica stamattina, nell’aria straordinariamente limpida a distinguere i colori sventolanti a poppa.
“Batte bandiera italiana!” esclama, e si illumina di gioia, e quasi vorrebbe gridare perché dalla nave lo sentissero, e quante volte, solo sulla costa deserta, Umberto di Savoia non avrà gridato, non avrà salutato agitando le braccia, pur sapendo che non l’avrebbero né visto né udito, ma era una nave italiana, era un lembo di patria sul mare straniero?
Oggi però non è solo. Si trattiene, domina la commozione, e guardando dinanzi a sé affretta il passo.
Un lungo silenzio. Poi riprendendo il discorso, gli chiedo un giudizio sugli uomini coi quali ebbe a che fare durante il tempo della luogotenenza e del breve regno.
“Lasci stare. Soltanto posso dirle che, salvo pochissime eccezioni, tutti posero ogni cura nel tentativo di stancarmi, di logorarmi, di indurmi a un’imprudenza, a un passo falso che rendessero inutile il referendum. Ma resistetti. Non mi conoscevano, E il passo falso alla fine non fui io a compierlo“. Tace un poco. Poi: “Ero solo. Solo contro tutti. Solo contro gli avversari dichiarati; solo contro gli amici che m’avevano abbandonato, molti dei quali gli ultimi giorni, sembrando in rialzo le le azioni della monarchia, tornarono contriti a offrirmi il loro appoggio; solo infine, contro tutti gli avventurieri che a quel tempo cercarono invano di avvicinarmi, ciascuno con un progetto, un idea, una trovata, una menzogna, un inganno. Solo contro tutti. Ma resistei“.
“Il mestiere di re”.
Sorride.”Appunto. Il mestiere di re“. Gli domando se a consolarlo di tanta amarezza non gli rimanga il ricordo di amici rimastigli fedeli fino all’ultimo.
“Di pochissimi. Ed un ricordo, per questo, ancora più bello, più luminoso. Senza dire“, aggiunge, “degli amici che non conoscevo e che mi si rivelarono il giorno della sconfitta accompagnandomi col saluto e con la speranza dei loro dieci milioni di voti. Questo è il ricordo che più mi conforta“.
Parliamo di quei gironi memorabili, delle alterne vicende che sino all’ultimo tennero incerto l’esito del “referendum”, della convinzione – radicata anche in ambienti non strettamente monarchici – che accanto al monumento a Giuseppe Mazzini, sorto sull’Aventino non sarebbe stato superfluo quello a Giuseppe Romita, padre anch’esso, seppur in maniera più contabile che spirituale della repubblica.
“Lei cosa ne pensa Maestà?”.
“Dell’onorevole Romita“, risponde Umberto di Savoia, “conservo un umanissima lettera inviatami quando ero luogotenente, con la quale mi assicurava che avrebbe restituito i figli a Edda Mussolini in quel tempo confinata a Lipari“.
A questo punto:”O Rey d’Italia”, sentiamo gridare, e di corsa vien giù per un declivio una frotta di ragazzetti e di bambini che se lasciano desiderare quanto a pulizia ne compensano la mancanza con la grazia, la gioia, l’affetto dei quali circondano, strettisigli intorno, qualcuno sin quasi ad abbracciargli le ginocchia, Umberto di Savoia. la pesca delle sardine non dà la ricchezza. Non sempre fumerebbe il camino della quattro o cinque capanne di pescatori poste sul fianco della collinetta da cui si sono precipitati questi ragazzi se ogni tanto non provvedesse la beneficenza del solitario ospite di Villa Italia. Di sulla soglia della capanne i vecchi salutano, i ragazzi ci seguono per un tratto, poi svelti come uccelli, eccoli già su per il declivio che di lontano mostrano ai nonni e ai genitori quel che di luccicante ha deposto nelle loro mani “o Rey d’ Italia”.
“Dopo il referendum, prosegue Umberto, venne a trovarmi l’onorevole De Gasperi. Era letteralmente sfinito. Lo ricevetti nello studio che dava sulla piazza del Quirinale. Il sole gli batteva sulle lenti, e non potei vedere i suoi occhi“.
Conversando in confidenza esprime su De Gasperi, Togliatti, Nenni ed altri uomini politici giudizi impressionanti per l’acutezza e la serenità. Di uno del quale riconosce le altissime qualità: “E’ forse il miglior uomo politico che abbiamo”, dice. Ma gli manca il senso della nazione, e il suo respiro non va oltre la stretta valle in cui è nato“. Di un altro, si duole di non essersi potuto intrattenere con lui se non in colloqui ufficiali.
“E’ pieno, dentro, di un’umanità tanto più profonda e dolorosa in quanto è tenuta nascosta, segreta come una colpa“.
Di un altro:”Al Quirinale entrava con tanta spavalderia, tanto compiacendosi del presentarmisi sciatto e giacobino, che sono certo che se fossi rimasto al mi posto mi si sarebbe straordinariamente affezionato. E’ focoso come tutti i romagnoli, ma in fondo è un gran brav’uomo“.
Siamo giunti. passo passo, alla Boca do Inferno. Qui c’è tempesta anche nei giorni di bonaccia. Il mare, a ogni ondata irrompe nella caverna con tremendo fragore, ed esce in sibilanti zampilli od in colonne spumeggianti dalle fessure e dai fori della volta rocciosa. Di masso in masso Umberto s’arrampica agilmente lungo i fianchi della caverna.
In breve tempo siamo sulla cima. Un gran volo di gabbiani spaventati. Mille piume bianche rimangono sul muschio. La roccia freme e rimbomba come se la scuotesse un continuo terremoto. Sconvolta irta di punte, tutta scavata di nicchie e di piccole caverne, chi vi salga rimane nascosto agli sguardi di tutti. E’ il rifugio preferito di quegli che fu il re d’Italia. “Il mio regno“, dice. Ora i gabbiani son tornati. E’ un continuo gridare, un continuo agitarsi intorno all’esule silenzioso e immobile il cui sguardo cerca nella vastità dell’Oceano la piccola bandiera di poc’anzi. Si vede ancora, spiegata al vento che qui disperde le piume bianche dei gabbiani. La nave sta imboccando la foce del Tago. Tra poco sparirà alla svolta del verde promontori di Caxias, e la bandiera non si vedrà più. Semplicemente il tricolore, senza più lo stemma di Casa Savoia, ma non importa. E’ la bandiera italiana, e dall’alto del suo regno di scogli e di piume il re la segue più ancora che con lo sguardo col cuore, mormorano le parole che, se fosse solo, oh ne son certo, griderebbe. Ma ci son io che per quanto amico, che per quanto fedele non posso e non debbo udire le parole che dice un re, in mezzo al mare, quando vede passare la sua bandiera che non è più sua.
M’allontano, lo lascio solo. Più tardi, grato, mi sorriderà e mi stringerà la mano.