Il piccolo armatore di Trani
L’atlantico è in tempesta. Da stanotte si avventa senza un attimo di tregua contro la scogliera che protegge la dimora dell’esule. L’onda, respinta, torna indietro, e con fragore di tuono si scontra con la sopravveniente, levandosi come una parete liquida a 20 metri d’altezza; poi ricade scrosciando e imbiancando si spuma le cupe acque per un gran raggio intorno.
Il cielo, basso, del colore del piombo, con le nuvole anch’esse rincorrentisi a ondate, sembra n altro mare in tempesta. Il molo di Cascais è completamente sommerso. La lanterna del faro si vede solo a tratti, quando il vento disperde i neri vapori che l’avvolgono.
Dalla vicina “Boca do Inferno” giungono assordanti i boati dell’immensa caverna invasa dalle acque. Villa Italia è illuminata, sembra una nave in mezzo all’uragano, e come intorno a una nave volano e gridano intorno ad essa le procellarie.
La piccola finestra del salotto nel quale mi trovo in attesa dell’ospite dà l’idea di un oblò; ogni tanto la luce dei lampi rompe il buio di questa mattina che non ha visto sorgere il sole. Qui dentro si sta bene, come in una grande, sicura nave.
Osservo un ritratto appeso alla parete, un bellissimo profilo della regina Margherita tracciato di getto con una linea unica e leggera su un cartone che il tempo ha lievemente ingiallito, e tutt’intorno gli fa da cornice un irregolare segno scuro simile alla traccia che l’onda, ritirandosi dalla spiaggia, lascia per un attimo sulla sabbia. Accanto, un Vittorio Emanuele II vestito da cacciatore, fiduciosamente addormentato sull’erba sotto un romantico cielo turchino con una bella luna risplendente nel mezzo. Lo veglia un suo fedele, il cappellaccio e la barba irsuta che pare un brigante, e in una mano lo schioppo, ma con l’altra gli ripara gli occhi dai raggi lunari.
Sulla parete di fronte il grande ritratto incorniciato d’oro di un antico principe di Casa Savoia, del sedicesimo secolo, tutto vestito di nero su fondo nero, neri gli occhi, alto, pallido, il viso lungo, sembra di veder, più giovane, Umberto II in costume di altri tempi. E intorno al viso, sfiorandolo, quello stesso segno scuro che circonda il profilo della regina Margherita e che nel quadro del re addormentato quasi tocca il disco della luna. Poi un vecchio Garibaldi seduto su una panca , e vicino un Giuseppe Mazzini, un Giuseppe Mazzini che il re non ha epurato. E anch’essi quel segno scuro, come li avesse corrosi l’acqua marina.
Ora accanto al quadro dell’antico principe appare, entrato silenziosamente Umberto di Savoia. Si scusa del ritardo. L’udienza era per le dieci e mezzo, sono le dieci e trentacinque. Si scusa del ritardo che gli sembra gravissimo, ma una difficile ricerca di carattere numismatico l’ha trattenuto oltre il termine stabilito. Sta completando la monumentale opera paterna e conta di poter dare alle stampe fra un anno il ventiduesimo volume, l’ultimo, cui farà seguire quello degli indici.
“Un editore italiano?”
“L’opera, sino ad ora è stata reputata degna d’attenzione soltanto dagli americane dai tedeschi“.
“In Italia corre voce che la preziosa collezione di monete lasciata da Vittorio Emanuele III allo Stato Italiano non sia stata ancora tolta dalle casse perché si teme di trovarla manomessa”.
“La voce è giunta anche qui. Ma mi rifiuto di crederla attendibile“.
“Non può darsi allora, che lo straordinario indugio a portar la raccolta dal buio di una cantina alla luce di un esposizione dipenda dal troppo difficile lavoro che l’impresa richiede?”.
“Lo studioso che ha aiutato mio padre a catalogare le monete e a riporle nelle casse vive a Roma, e con un lavoro di pochi giorni metterebbe lo Stato Italiano nella condizione di fare onore agli obblighi che gli vengono dall’aver accettato la donazione di Vittorio Emanuele III“.
“E’ vero che l’onorevole De Gasperi ritenne superflue non soltanto due sole righe di ringraziamento, ma anche una semplice ricevuta?”.
“La tempesta” dice a questo punto Umberto guardando fuori attraverso l’oblò, “non accenna a placarsi. Vedo che la nave vedetta, sempre al largo qui di fronte per indicare la rotta ai piroscafi in arrivo, va a cercare rifugio nel porto di Lisbona. Guardi“.
M’indica, alla continua luce dei lampi che rigano il cielo come una pioggia di fuoco, una nave sballottata dai flutti con la prua rivolta verso la foce del Tago. Una piccola nave incandescente.
“Non è precisamente questo l’esilio che immaginava lei?” mi chiede sorridendo. ” Il classico esilio. La casa sulla scogliera , la tempesta, il mare che s’accanisce intorno all’esule e sempre di più lo stringe e lo incalza quasi volesse cancellarlo da questa terra, così come queste macchie scure d’acqua marina le immagini della regina Margherita e del mio lontano antenato“.
Fisso a lungo il ritratto dell’antico pallido principe vestito di nero.
“Dicono che attraverso di esso si riveli la mia somiglianza con Carlo Alberto“.
Gli domando se tra le ragioni che l’hanno indotto a scegliere come luogo d’esilio il Portogallo ci sia quella sentimentale dell’aver già qui trovato ospitalità Re Carlo Alberto.
“No. Benché io abbia, come forse lei saprà, un vero e proprio culto per la sua memoria, e benché il Portogallo sia pieno di ricordi Italiani e particolarmente della mia famiglia. Ma nel chieder ricovero a questo Paese che mi onora della sua ospitalità ho obbedito, fuori di ogni sentimentalismo soltanto a ragioni pratiche, prima fra le quali l’assenza, di fronte alla mia richiesta, di quelle difficoltà che altri pur cortesissimi Paesi sarebbero stati costretti ad oppormi come , ad esempio, la Francia e la Svizzera, confinanti con la repubblica italiana. Senza dir poi degli altri che forse m’avrebbero ospitato ma ai quali avevo io le mie ragioni di non chieder rifugio“.
Molti dopo il 2 giugno del 1946, pensavano all’America. Ma forse era troppo lontana”.
Sorride. “Non esiste una tecnica dell’esilio. Ad ogni modo, lei vuol dire che lontani si finisce con l’esser dimenticati, e troppo vicini on sembra nemmeno che si sia in esilio, non è vero?“.
Intanto s’erano aperte le cateratte del cielo, ed una pioggia quale io non avevo mai veduto cominciò a flagellare le acque e gli scogli del litorale. Ma all’orizzonte, improvvisamente, le tenebre si ruppero e la linea del mare s’illuminò debolmente dei primi segni di una schiarita..
Vidi il re assorto in un pensiero lontano. Gli chiesi:” Che cosa le vien di ricordare?”. Rispose: ” Il giorno che dovetti abbandonare l’Italia, nel cielo del mediterraneo non trovai un tempo migliore di questo. L’apparecchio faticava a mantenere la rotta, e giunti che fummo sulla Sardegna venne ad un tratto preso come una foglia in mezzo all’uragano. Più volte ci credemmo sul punto di precipitare. M’accompagnavano pochi fedeli. Ad un certo punto il pilota, reputando impossibile proseguire il viaggio verso il Portogallo, gridò non rimanerci che tentare il ritorno. Finsi di non udirlo. Gridò nuovamente che l’unica probabilità di salvezza era nel virar di bordo e nel tentare un atterraggio di fortuna sulle coste della Sardegna che avevamo da poco oltrepassata. E mi fissava negli occhi, quasi per strapparmi l’ordine di virare. Gli chiesi se la Sardegna non facesse ancora parte dell’Italia. Rispose di si. Ma non capiva ancora.
“Capitano, gridai a mia volta lei ha la sfortuna di avere a bordo il passeggero più scomodo di questo mondo: un passeggero che non può tornare in Italia, che può solo andare avanti”. ” Anche a rischio di finire tutti in mare?”. “Anche a rischio di finire tutti in mare. Chi è con me, segue on soltanto la mia persona, ma la mia sorte”. ” Che Iddio ce la mandi buona” disse il pilota, e fattosi il segno della croce s’avventò diritto in mezzo all’uragano che raddoppiava di violenza. Perché non dirlo? più volte durante quel viaggio invocai la morte. Ma essa non mi volle. Atterrammo verso sera a Barcellona, l’aeroporto pareva abbandonato, poi sentimmo qualcuno che ci intimava di rimanere a bordo ed un soldato con la baionetta inastata si mise di sentinella al fianco dell’apparecchio, in attesa di ordini. rimanemmo prigionieri per un paio d’ore, sino all’arrivo delle autorità spagnole le quali furono di una cortesia squisita. Pronunciarono dei discorsi, non potei non rispondere. Dopo di che dovetti accettare l’invito ad un banchetto, durante il quale credo di non essere stato particolarmente brillante. Il giorno dopo proseguimmo per il Portogallo, dove dapprima mi stabilii a Cintra, di qui passai ad una villa nell’interno di Cascais, ma avevo messo gli occhi su questa che mi piace in particolar modo, vicina al mare com’è e solitaria“.
“L’ha comperata?”.
“L’ho presa in affitto. Qui in Portogallo non possediamo nulla, tranne ad Oporto, una cappella fatta innalzare alla memoria di Carlo Alberto“.
“Ma i quadri, ma i mobili che arredano la villa son di Casa Savoia”.
“Vuol sapere la storia di questi quadri?”, dice sorridendo il re. “la storia di questo profilo della regina margherita, di questo Vittorio Emanuele addormetato sull’erba? E degli altri quadri, e di tute le miniature, le stampe, le statue che ha visto in casa mia? Torino al tempo dell’assedio francese, Vittorio Amedeo II incoronato a Palermo Re di Sicilia, questa miniatura di Carlo Felice, questa antichissima Croce di Savoia?, d’argento n campo rosso, ricamata nel 1310, al tempo di Amedeo V? Vuol sapere la storia di questi quadri corrosi in parte dall’acqua di mare?“.
Umberto s’è animato, parla in fretta, quasi volesse dirmi nello stesso momento il principio e la fine della curiosa storia che ha preso a narrarmi.
“Tutto quello che lei vede qui intorno“, prosegue, ” era a Napoli, nella villa Maria Pia. Pochi giorni prima che arrivassero i tedeschi, vi furono delle anime fedeli ” ( e qui mi dice alcuni nomi ch’io mi guardo bene , naturalmente dal sottoporre all’attenzione della repubblica) ,
“le quali pensando forse che per i Savoia sarebbero venuti tempi assai più tristi, misero in salvo quanto più di cose poterono. Vennero i tedeschi e trovarono vuota Villa Maria Pia. Partiti i tedeschi quelle anime fedeli continuarono a tener nascosto il tesoro anche agli italiani, sino a quando partii io per l’esilio, non giudicarono venuto il tempo per riconsegnarmelo. Ma occorreva una nave. Allora si rivolsero a un’altra anima fedele, un piccolo armatore di Trani, che una notte caricò il tesoro su uno dei suoi velieri e coraggiosamente, con un pugno di marinai che seppero custodire il segreto, affrontò il viaggio da Trani a Lisbona. la tempesta non li risparmiò, l’acqua penetrò nelle casse ove erano custoditi quadri, molti ne rovinò completamente, altri, come questi che lei vede, guastò soltanto in parte.
” Una mattina, mentre sono nel mio studio, m’avvertono che un pescatore italiano desidera di vedermi. Discendo, il pescatore è il piccolo armatore di Trani che con rispettosa semplicità mi si presenta e, dettomi:”Maestà, c’è nel porto qualcosa per lei”, m’invita a seguirlo. Questo qualche cosa era una fila di cento casse contenenti tutto quel che può sognare un uomo che abbia dovuto abbandonare il proprio paese senza portarsi dietro un pacchetto. Non mi fu possibile far accettare a quegli uomini altro segno di gratitudine che la mia fotografia firmata.. Partendo mi dissero: ” Maestà, quando sarà venuto il giorno del ritorno, non ci vorrà fare il torto di non chiamarci. La nave è a sua disposizione. Tiene magnificamente il mare”. E sino a che fummo reciprocamente in vista, continuammo a salutarci”. Un breve silenzio. Poi “Ecco la ragione del segno scuro intorno al viso della regina Margherita e del principe che mi somiglia. Ma vede? Non li ha toccati , sono salvi. Il mare non ne ha cancellate le immagini. Così come, almeno per questa volta , non cancellerà me. Guardi“.
Aprì la finestra, non pioveva più. La tempesta andava placandosi, Qua e là, tra la nuvolaglia, si vedevano lembi di sereno. Di lì a poco il sole avrebbe illuminato ogni cosa. E Vittorio Emanuele II, vestito da cacciatore, dormiva placido sull’erba del prato, il braccio che gli faceva da cuscino, sotto la gran luna risplendente nel più sereno dei cieli.