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Il re in un Angolo di Giovanni Mosca

Il Re in un angolo – di Giovanni Mosca – 2

By Gennaio 7, 2021Gennaio 24th, 2022No Comments

Il mestiere di Re

Nostalgia?, dice Umberto di Savoia al quale ho domandato se non lo tormenti, in questa sua lontananza , l’acuto doloroso desiderio di rivedere l’Italia. “Non precisamente”. E prima che, stupito, io possa chiedergli quale sentimento provi mai, allora per la terra dove, pur si brevemente, regnò, “ C’è una bellissima parola portoghese la quale esprime alla perfezione ciò ch’io sento. Una parola intraducibile: “saudade”. “Saudade significa gioia di riandare con la memoria una per una, le cose lontane “. Dice lontane, non perdute.” Riandarle con la memoria una per una,e quanto più le si ami e meglio le si conosca, tanto più grande è il piacere di rivederle nei minimi particolari, quasi non le avessimo abbandonate, quasi fossimo ancora in mezzo ad esse, quasi i nostri passi risuonassero nelle strade, nelle piazze, in tutti i luoghi che ripercorriamo, invece, soltanto col cuore. Ed io la conosco città per città , paese per paese, villaggio per villaggio, la mia Italia…”, gli si illuminano gli occhi, il tono della voce non è più fermo e misurato come all’inizio. E poiché un re non può commuoversi come un comune mortale , e la voce non gli deve tremare, così il mio ospite troncò a mezzo discorso, e rimane per un poco in silenzio.

Si udì il frangersi delle onde contro la scogliera . Poi di nuovo sereno : “L’amo tanto, la mia patria, che mi dà gioia anche di lontano”, e subito, scherzosamente, : ”Seppure si possa chiamar lontana una patria, guardi, così vicina”, e mi mostrò, appese alle pareti dello studio, in cornici tutte uguali, le fotografie dei più diversi luoghi d’Italia, e ciascuna era piena di firme. “E non soltanto fotografie. Venga a vedere”. Lo seguii per un oscuro corridoio scricchiolante di legno, quel bel legno scricchiolante di legno, quel bel legno odoroso di cui sono rivestiti tutti gl’interni delle case portoghesi, ed entrammo in una piccola stanza con nient’altro di mobili che una gran tavola che l’occupava tutta, e su quest’altra tavola un’Italia alla rinfusa, col duomo di Milano accanto alla Ghirlandina, la torre di Pisa addossata alla Mole Antonelliana , l’ombra dell’arco di Tito gettata sulla cattedrale di santa Rosalia. Come le fotografie, ogni edificio era pieno di firme. Firme sugli archi, sulle colonne, sui tetti, sulle cupole di quest’Italia che , un giorno una chiesa, un giorno una statua, un giorno una torre, Umberto di Savoia riceve con la posta del mattino dentro cassette  imbottite di Paglia o di trucioli di legno.

“ Un’Italia assai piccolina”disse il Re sorridendo“fatta di legno sughero, di cera. Un’Italia che la possono mangiare i topi, o una mattina di sole la può disfare”.

In un attimo la percorse tutta con lo sguardo. “Pur così piccolina”, aggiunse sorridendo, “ non le sembra già molto grande per un re così breve… per il re di maggio?”.

Dalla piccola stanza tenuta fresca e al buio perché la torre di Pisa fatta di cera non si strugga come una candela in chiesa, tornammo nella grande e luminosa stanza dove il re passa leggendo o scrivendo la maggior parte della giornata. E’ posta al primo piano di una villa solitaria sorgente in mezzo a un gruppo di magri pini piegati dal vento, circondata dalla miracolosa fioritura d’un giardino la cui terra rossiccia non è che un velo disteso su uno sterile fondo di roccia e di sabbia. Un muretto separa il giardino dalla strada e protegge dal vento il velo di terra. Il margine della strada è già irto delle rocce della scogliera  selvaggia contro la quale  tutte le sere all’ora dell’alta mare  si accanisce l’Atlantico. Nelle giornate di tempesta l’acqua sommerge la strada e lambisce il muretto della villa. Dalla loggia su cui dà l’ampia vetrata dello studio si vede a sinistra il grigio faro del promontorio di Cascais. A destra la scogliera  corre a perdita d’occhio lungo l’arco di un’ampia insenatura, e la sua asprezza culmina nell’orrido di una ciclopica caverna entro la quale le acque penetrano, avventandosi, con fragore assordante, uscendo poi in altissime, spumeggianti colonne dagli sfiatatoi che ne crivellano le pareti.

Non si può dire che al luogo non sia stao imposto un nome adatto : si chiama “Boca do Inferno”, ed i rimbombi della caverna accompagnano minuto per minuto le lunghe giornate del re in esilio.

“Mi vuol dire perché ieri mattina, allorché nell’uscir di chiesa l’ho invitato ad avvicinarsi, lei, come non m’avesse visto, s’è invece allontanato?”

Gli rispondo sinceramente. Vederlo a migliaia di chilometri dal suo paese, in questi luoghi che sembrano la fine di ogni terra e il principio di un mare senza fine, inginocchiato nell’angolo d’una chiesa di pescatori, m’ha stretto il cuore. “Lei m’è sembrato, Maestà, uno che non potesse più tornare, uno destinato a finir qui i suoi giorni. E non ho avuto il coraggio di avvicinarmi.”

“Lei ha avuto pietà di me, non è vero? Pietà dell’esule”. Sorride, con un lieve gesto previene le scuse che m’indovina sul labbro.

“No, anzi la ringrazio. Ed è naturale, del resto, che lei m’abbia prestato il suo animo, ed attribuito lo sconforto e l’angoscia che senza dubbio proverebbe se si trovasse nelle mie condizioni. Oh, non ch’io mi ritenga superiore a lei né ad altri, ma , vede, diverso, si, e per nessun altro merito che di appartenere ad una famiglia che non per la prima volta conosce l’esilio. La storia della mia Casa, lei lo sa, è una storia – insieme alle glorie ed ai trionfi – di dolori e di sventure. Su questa medesima terra, di fronte allo stesso oceano che si scorge di qui, or è precisamente un secolo morì Carlo AlbertoQui morì infelice , parecchi secoli orsono, la contessa Matilde di Savoia, prima regina di Portogallo. Non è la prima volta ch’io sono in esilio. Non per la prima volta io morirei di fronte a questo mare”.

Parla serenamente. Non una serenità artificiale ch’egli si sia fabbricata per gli occhi della gente, ma la naturale disposizione dell’animo che gli viene dal sentir profondamente, com’egli sente, la propria appartenenza alla grande, superiore famiglia dei re, i cui membri debbono fin dalla prima giovinezza esser pronti a sostenere col medesimo animo la parte oscura o luminosa che gli eventi assegneranno loro.

Questa meravigliosa superiorità sugli avvenimenti e sugli uomini, modestamente Umberto di Savoia chiama “il mestiere di re”.

“ Come si nasce falegnami o architetti per tradizione di famiglia, così si nasce re, e come s’impara sin dai primissimi anni a piallare il legno o a disegnare un arco, così si impara, ed è il mio caso, a riguardar le sventure come semplici accidenti del mestiere, a rassegnarsi alla volontà di Dio, a giudicar serenamente gli uomini, sia gli avversari che gli amici, a non serbare rancore verso di quelli e a non illudersi sul conto di questi, e a on stupirsi quando t’abbandonano e ti tradiscono, essendo cosa, questa, assai naturale che i re, nella disgrazia, rimangano soli o peggio che soli , mal circondati.”

Gli domando se tanta sua serenità non sia, per avventura, stata messa a dura prova due anni orsono, quando, proibendogli di sorvolare il territorio italiano, il governo della repubblica ritardò di un giorno il suo arrivo al letto di morte di Vittorio Emanuele III.

Risponde: ” Ero preparato”.

Gli domando se era preparato anche al divieto opposto l’estate scorsa alla regina Elena di tornare da Cannes in Egitto, con un piroscafo che avesse fatto scalo in un porto italiano.

Risponde: “Ero preparato”.

“Benché”, aggiunge sorridendo, “il ministro dell’interno abbia forse esagerato attribuendo a mia madre, ch’è una vecchia signora di ottant’anni, l’intenzione e la capacità di pericolosi sbarchi nella penisola”.

Tace un poco pensando a sua madre.

Poi: ” Molti anni fa, quando a Bruxelles, ricorda?, si attentò alla mia vita, mia madre che m’adora e ancor oggi allorché siamo soli ripete teneramente il gesto antico di quando, fanciullo, m’accarezzava sulla fronte, ebbene mia madre nell’apprender la notizia né impallidì né perse la calma; disse semplicemente: “Iddio ha voluto serbarmelo”. La stessa semplicità, la stessa tranquillità con le quali , se la notizia fosse stata diversa, avrebbe detto: Iddio ha voluto togliermelo”. E, badi, la sua serenità – come le mia oggi- non era il frutto di uno sforzo, ma la conquista di una disciplina interna che pur senza soffocare i sentimenti ne impedisce il trasparire, non solo, ma vieta ad essi, se non di commuovere, di turbar l’animo, il quale rimane sempre superiore ad essi”.

Il mestiere di re.

“Il mestiere di re, appunto, del quale con questo episodio ho voluto darle esempio”.

Ma lei – esclamo – non si sarà, credo, rassegnato a finire i suoi giorni su questi scogli. Avrà una speranza nel cuore.

“M’affido a Dio. E affidarsi a Dio è assai più che rassegnarsi, ed assai più che sperare. Se Dio vorrà che un giorno gli italiani tornino a credere la monarchia utile alla nazione….”.

Non sono pochi gli italiani che di questa utilità sono già certi. I monarchici sono in continuo aumento in Italia.

“Può darsi. Ma io non sono il re dei monarchici. Io sono il re degli italiani. Del resto, più ancora dell’opera – della quale pur son loro grato  – che vanno svolgendo coloro che risono rimasti fedeli, saranno gli avvenimenti – ben superiori agli uomini – i quali o affretteranno il nuovo proporsi della questione istituzionale in Italia o decreteranno il mio esilio perpetuo”.

Ma più forte di questa sua stupenda serenità non è, Maestà, il pensiero angoscioso d’esser l’unico italiano che non può rivedere l’Italia?.

“Lei dimentica, risponde, quella saudade di cui si parlava poc’anzi”.

La gioia, cioè, di rivederla con la memoria?

“Precisamente”.

Benché lo scorso autunno, mi dicono, quella sua improvvisa partenza da Cannes per una “località imprecisata” ch’erano poi le Alpi, di là dalle quali non che si vedesse, ma s’indovinava l’Italia, deponga mi perdoni, più in favore della nostalgia che della “saudade”.

“Chi glielo ha detto?”

Uno che le è molto vicino e che la segue nei suoi viaggi. Quando tornerà in Francia Maestà?

“Forse presto”.

Per rivedere le Alpi?

Va discendendo la sera, è venuta l’ora del congedo. Hanno acceso il faro del promontori di Cascais. Il re m’accompagna all’uscio.

“Si”, dice ” per rivedere le Alpi”.

E questa è “saudade”?

“Oh, non precisamente”, confessa Umberto di Savoia.