Umberto a pranzo
Articolo di Luigi Barzini jr citato nel XII capitolo de “I Savoia nella bufera”
di Luigi Barzini junior
La sera prima della partenza per l’esilio il Re, come un borghese qualunque, fu ospite del giornalista che ha scritto questo articolo.
Storia Illustrata Anno II n.3, Marzo 1958
La sera del 12 giugno 1946 il generale Carlo Graziani telefonò a casa che sarebbe venuto a pranzo con un amico. Mia moglie era stata investita pochi giorni prima da un camion polacco Preparammo un tavolino ai piedi letto. Si dovette piegare la tovaglia in quattro perché il tavolino era piccolo. I posti erano quattro: l’amico, Graziani, il senatore Bergamini, io. E mia moglie, seduta letto, bendata.
La giornata era stata tumultuosa e caldissima Il consiglio dei Ministri sedeva in permanenza. Per loro, la Repubblica era già nata, De Gasperi era Capo provvisorio dello stato e Umberto un ospite ingombrante da allontanare. Per Umberto la vittoria repubblicana era inoppugnabile, tuttavia non era stata ancora proclamata con quella certezza legale che le avrebbe dato una tranquilla legittimità negli anni a venire. Si attendeva la decisione definitiva della Cassazione. De Gasperi andava e veniva in macchina dal Viminale al Quirinale, sempre più pallido, sempre più stravolto, sempre più stanco.
Io ero stato sul portone del Quirinale, per qualche ora, al pomeriggio, nel caldo, tra gli altri giornalisti, e i capannelli di folla silenziosa, in attesa di chissà che. I giornalisti inglesi erano orgogliosi in modo offensivo dell’accaduto, gli americani capivano poco, gli italiani, anche i repubblicani, tacevano.
Quando uscì la macchina del Primo Ministro ci gettammo tutti davanti al radiatore, sulla pedana, per fermarlo, per farlo parlare. Qualcuno socchiuse lo sportello: «Come è andata Eccellenza? Ci faccia una dichiarazione». «Non mi seccate, non mi seccate!» gridò con ira inaspettata l’urbano uomo di Stato. La faccia paziente e pallida quasi canina, di De Gasperi, prese per un istante un’espressione terribile che ci fece paura tanto era insolita, quasi l’espressione di una maschera giapponese di guerra. Gridò impaziente all’autista: «Via, via, avanti, avanti!».
Qualcuno, a Roma, davanti al Quirinale, sperava ancora in una decisione della Corte, in un altro referendum, in un miracolo. Era molto difficile abituarsi all’idea. Altri sostenevano che non restava al re che una cosa da fare, nella tradizione delle monarchie: ritirarsi nelle terre più fedeli, quelle che gli avevano dato la maggioranza, proclamare al Paese la illegalità del referendum e attendere. Sarebbe stata la guerra civile.
Sapevo che Umberto non l’avrebbe mai scatenata. L’ammiraglio Storie lo aveva avvisato (ma l’avviso era stato superfluo): «In caso di una difesa armata della Monarchia non possiamo garantire, con le forze in nostro possesso in Italia, la frontiera orientale». L’ammiraglio era venuto molti giorni prima a dire la sua battuta cauta, quando anche lui credeva in una vittoria monarchica. L’ipotesi che considerava era quella di una rivolta nella valle padana contro il risultato. E pregava il re di non muoversi, di non reagire, di lasciar fare, perché loro, gli alleati, avevano altre preoccupazioni che non la difesa dei diritti di Casa Savoia. Tito, secondo le agenzie angloamericane, stava ammassando divisioni alla frontiera giuliana. Ci voleva poco a provocare la terza guerra mondiale. E non avevano voglia di farla subito, per Umberto. A maggior ragione, il re, in minoranza nel referendum, non avrebbe scatenato la guerra. Ed era forse anche questa sua riluttanza umana, moderna, bennata, civile, a versare il sangue dei sudditi per la propria corona, che dimostrava che l’Istituto aveva perso l’antico e brutale vigore che aveva spinto, nei secoli scorsi, tanti re a sellare il cavallo, a spiegare le bandiere al vento, a marciare alla testa dei loro uomini, nel rullo dei tamburi e allo squillo delle trombe.
Ne avevamo parlato tempo addietro, insieme, nel suo studio al Quirinale. Nell’ombra della grande stanza, che era stata lo studio dell’altro Umberto, c’era la luce verdognola della lampada sul tavolo che gli illuminava appena il volto. Mi chiese poi che cosa ne pensassi del referendum che stava per venire. Ne parlava pacatamente. Gli uomini attorno a lui, per antichissima consuetudine, affettavano il più smaccato ottimismo. Non permettevano al dubbio di appannare le loro previsioni di successo trionfale. Ma i sovrani non si nascondevano nessuna delle difficoltà. La regina non era certa del risultato. Il re prevedeva una piccola maggioranza, in un senso o nell’altro, senza poter decidere da quale parte si sarebbe inclinata la bilancia. Cosa ne pensavo io?
Io non vedevo molto probabile una vittoria monarchica.
Perché?
Spiegai. Dopo le sconfitte, le dinastie cadono sempre. Inoltre la pressione della parte repubblicana era fortissima. Partiti organizzati per la resistenza, partiti legati alle organizzazioni alleate, movimenti sorti in funzione della guerra alla Germania, che avevano ricevuto grossi vantaggi iniziali, conducevano, ormai da anni, una dura campagna. L’atteggiamento degli alleati, soprattutto degli inglesi; era per la Repubblica. Sconfiggere l’Italia e lasciarle la Monarchia sarebbe sembrato loro forse come lasciarle la flotta: di non aver completato il compito. La propaganda fascista, al Nord, aveva predisposto grandi masse all’idea di una Repubblica. Gli argomenti della propaganda di Salò erano quelli stessi che, in quei giorni, si leggevano sui muri. Il Governo era repubblicano, era stato repubblicano dalla liberazione di Roma. In un Paese disabituato alla politica il peso dell’opinione ufficiale, della propaganda, il prevalere di certe correnti risolute, avrebbero spostato quei pochi milioni di voti sufficienti a far vincere la Repubblica. C’era da aggiungere l’atteggiamento della Chiesa che non poteva, per ragioni storiche, difendere la dinastia e quell’Italia che la dinastia aveva aiutato a creare.
Soprattutto, gli dissi, quello che mi sembrava significativo era l’atteggiamento dei monarchici. Casa Savoia non portò al Quirinale guerrieri in corazza, ma borghesi in stiffelius e cilindro. La loro era la dinastia del Risorgimento, degli intellettuali laici, delle ferrovie, delle bonifiche, dei trafori alpini, dei congressi scientifici, del progresso industriale, delle compagnie di navigazione. La Corte italiana era la Corte dei burocrati, degli ingegneri, dei viaggiatori, dei colonizzatori, degli amministratori. I militari e la vecchia aristocrazia non vi avevano avuto una parte preponderante, paragonabile al loro posto nella Corte degli Hohenzollern. Molti di loro, dopo l’Unità, erano rimasti fedeli alle dinastie spodestate. E tutto questo mondo borghese, la vecchia destra e la vecchia sinistra, era allora stanco e sfiduciato. Le idee si erano consumate, sembrava avessero perso il lustro. I figli non ricordavano che vagamente gli ideali umanitari che avevano spinto i padri a fondare industrie, giornali, società commerciali. La vecchia borghesia era chiaramente in crisi. La nuova voleva la Repubblica, per ricominciare senza il peso degli errori passati.
Il re disse: «Tutto dipende dai risultati. Potrei essere anche il re di questa nuova Italia. Non è detto che una Dinastia si identifichi con una classe sociale sola, con un solo periodo storico. Le monarchie hanno sempre trovato il modo di rinnovarsi interpretando la volontà del popolo contro i signori, i padroni, i ras, gli sciogun. Ma se i risultati non saranno decisivi, in un senso o nell’altro, temo per il nostro Paese. Una Monarchia con il 51 per cento? C’è da tremare a tentare l’esperimento. Significa continuare come ora, nell’asprezza di polemiche che ci umiliano tutti, che avviliscono ogni cosa, nell’incertezza, nella separazione, nell’egoismo, nel disfacimento. Una Repubblica col 51 per cento? C’è chi dice che il compito può essere facile perché i monarchici si adatteranno. Adattarsi vuol però dire accettare soltanto. Otterrà una debole Repubblica, nei momenti decisivi, quella dedizione istintiva, primordiale, che una Monarchia amata riesce ad ottenere dal suo popolo, perché è un Istituto radicato nei secoli, nella coscienza degli antenati? Quella dedizione che la mia Casa ha ottenuto nel 1859-60 e nel 1917-18? ».
«Per spezzare questo disgraziato nodo » dissi « gli avversari sono tentati di combattere una vittoria dubbia o debole della Monarchia. C’è scritto sui muri: O la Repubblica o il caos. E’ uno degli argomenti in favore della Repubblica, che i timorosi ripetono. Lei, Maestà, difenderebbe con le armi un suo diritto? »
Umberto disse di no. Scosse il capo, perplesso, sorpreso dalla domanda.
«Allora» gli risposi «avete perso. Non perché sia necessario versar sangue. Non parlo del coraggio, ma della volontà di combattere, della voglia di combattere. Dall’altra parte si vuol combattere. Lo scrivono sui giornali, lo dicono nei loro comizi, lo fanno sapere. Sono armati. Tutti lo sanno. Il Paese, queste cose, queste differenze, le intuisce.»
Si parlava tranquilli, come si fosse trattato di un altro Paese, e non del nostro, di un’altra famiglia e non della sua, di un’altra bandiera e non quella che avevamo sempre conosciuto dalla nostra nascita, quella che credevamo non sarebbe mutata mai. Lui disse:
«E’ forse vero. Mi sottometto al giudizio del referendum. Gli italiani sapranno trovare la via giusta. Non voglio comprarmi la corona né col denaro né col sangue.»
Quel giorno, dunque, il 12 giugno, tutti sapevamo che non c’era più nulla da fare. Io sapevo anche che il re non sarebbe andato tra le popolazioni fedeli ad attendere il destino.
A notte, quindi, mentre i Ministri sedevano tempestosamente al Viminale e Nenmi spingeva il riluttante De Gasperi a gesti di forza, il re arrivò a casa mia, rannicchiato in una piccola automobile, accompagnato dal generale Graziani. I giornali dissero, il giorno che Umberto aveva passato la notte in una casa di caccia di Castel Porziano. Nessuno immaginava che era invece andato una qualunque villetta romana, ospite di uno di quei giornalisti accaldati che avevano assediato il portone del Quirinale, con la matita e il taccuino in mano.
Umberto era stanchissimo e visibilmente commosso. Da giorni riceveva moltitudini di persone piangenti, sconosciuti arrivati da ogni parte d’Italia in pellegrinaggio, vecchi generali, veterani, fedeli alla Casa, popolani, donne del popolo, ministri, e l’emozione continua lo aveva logorato.
Tuttavia conversava scherzosamente, come un uomo che avesse lasciato dietro le spalle sul tavolo da lavoro, le preoccupazioni e le noie e non permettesse che gli disturbassero il pranzo. Ma gli occhi tristi, stanchi, e pazienti lo tradivano.
Strana persona è Umberto. Tanti anni fa quando lo conobbi la prima volta, e io ero giovane e scanzonato, razionale e irriverente, mi aveva fatto una curiosa impressione Eravamo a pranzo in pochi in una casa di Milano. Non l’avevo mai visto prima. Lo osservai attentamente con l’attenzione fotografica del giornalista. (Collezionavo ricordi di personalità viste a pochi centimetri, sapevo che a Mussolini nasceva un pelo nero in ogni poro del naso, che al Duca d’Aosta la barba rossiccia arrivava fin sotto gli occhi, che il cappello borghese di Vittorio Emanuele era un Lock, e molte altre cose inutili.) Era, Umberto, allora, l’elegante ufficiale, il bel ragazzo che si riteneva un po’ fatuo, dalle guance lisce e azzurre di barba rasa, il principe che rimase solo nelle caricature dei giornali umoristici, fino all’ultimo giorno. Bel ragazzo un po’ fatuo? mi chiesi. La descrizione superficiale non era esatta. C’era qualcosa di più che non mi riusciva di afferrare. C’era una rigidezza appena percettibile nel portamento, l’inclinazione della testa, l’autorità inconsapevole con la quale parlava al proprio gentiluomo, con la quale accettava gli inchini… Cercavo di capire, cercavo un paragone, solo per me, perché non pensavo che l’avrei mai potuto scrivere. Indossava, come gli altri, un abito da sera, ma di quelli che possono mettere i militari quando si vestono in borghese, fatto fare con indifferenza, senza i piccoli particolari frutto dell’attenzione di un uomo esperto di queste cose. Era un buon vestito anonimo ed elegante come quelli delle vetrine. Rigido, vestito anonimamente con correttezza, alto, autorevole… Trovai un paragone irriverente; pareva un maggiordomo, un grande maggiordomo, uno di quei maggiordomi patrizi che, da ragazzo, ti fan tremare le gambe e asciugare la voce in gola, che ti guardano attraverso come se tu non esistessi. Un maggiordomo? Assaporai il paragone assurdo. C’era qualcosa ma non era quello. Veramente non aveva l’aspetto di uno di quei grandi nomi, di quei duchi, arciduchi, granduchi, principi che si incontrano nei club, uomini dalla pelle piegata da mille sottili rughe, vecchi anzitempo, dal sangue antico e stanco, dagli abiti raffinatissimi, dal sorriso disarmante e infantile, dalla volontà capricciosa e femminile, dalle collere subitanee. Non sembrava un duca di quelli che avevo visto. E che cosa era allora?
Alle frutta capii e mi vergognai. Era semplicissimo. lo venivo dall’America, da un mondo dedito alle pacche sulle spalle, alle mani in tasca, ai piedi sul tavolo. Ero giornalista e nel giornalismo ci si dà tutti del tu, giovani e vecchi, bravi e incapaci, e ci si giudica l’un l’altro solo dal modo come si sa scrivere e dalle cose che si raccontano, perché la nostra apparenza fisica è ingannevole, molti essendo i buoni tra noi dall’aria trasandata e molti i cattivi giornalisti impeccabilmente vestiti ed educati.
Umberto era un re. Era un re di una dinastia che aveva ininterrottamente comandato da secoli. La scoperta mi empì di confusione e di vergogna,
Dopo la liberazione di Roma, quando lo rividi, l’elegante ufficiale, il bel ragazzo non esistevano più, come ho detto, che nelle caricature della stampa di sinistra. Al Quirinale era un uomo. La calvizie, la sofferenza che gli si leggeva negli occhi scuri, la pazienza, il controllo dell’espressione, la gravità con cui ascoltava discorrere di problemi vitali, le domande attente e informate che faceva, rivelavano una maturazione improvvisa, come capita a certi giovani quando, alla morte del padre, si trovano di colpo aziende, fratelli, sorelle e affari sulle spalle. La sua giornata era un ininterrotto sfilare di persone. Le poche ore libere le dedicava ai bimbi mutilati nel giardino del Quirinale, che gli si aggrappavano agli abiti, quando appariva tra loro, perché si fermasse e giocasse. Le preoccupazioni del suo posto, il dolore impotente di fronte alla rovina del Paese, l’assillo quotidiano dei molti colloqui lo logoravano visibilmente, giorno per giorno. Tuttavia il suo sorriso era chiaro e rassicurante, i suoi modi erano tranquilli e sereni, tanto che quelli che lo vedevano uscivano riconfortati, e il pensiero che lui stesse al suo posto di lavoro al Quirinale dava a molti una sensazione di tranquillità.
Quella sera del dodici giugno non parlammo di gravi problemi. Né io chiesi particolari curiosi che avrebbero potuto fare di queste pagine un ghiotto documento storico, né lui aveva voglia di raccontare. L’argomento, tuttavia, era sempre lo stesso. Vi si passava vicino, per quanti sforzi si facessero. Parlò, ad esempio, del Portogallo. Quando ero ragazzo, disse, a Racconigi, una volta all’anno partivano i guardiacaccia per andare in Portogallo a prender pernici e fagiani di una razza specialmente pregevole dalle tenute della famiglia reale portoghese. «Se sei buono», gli dicevano, «ti mandiamo in Portogallo a trovare la zia.» Egli non era mai stato, in Portogallo e sempre, nel suo ricordo, affiorava la promessa mai mantenuta della sua fanciullezza. «Forse», disse Umberto, «sono stato troppo buono. E vado in Portogallo.»
Poi raccontò delle ultime visite dei Ministri, alcuni di quei Ministri che poche ore dopo dovevano votare l’ordine del giorno della notte del 13 giugno, proclamando la repubblica senza attendere la Cassazione. E per uno o due accennò la mimica di come si erano comportati. Uno, un feroce repubblicano, che gli aveva portato alcuni decreti da firma glieli buttò sul tavolo, poi corse verso un angolo lontano, e si mise silenziosamente a singhiozzare, voltandogli la schiena e facendo segno con la mano che non si avvicinasse, che non gli dicesse nulla, che lo lasciasse solo. Tutto questo il re narrava con un sorriso sul volto stanco e triste, accennando appena i resti di quegli uomini, ma senza amarezza.
Un solo momento ci commosse tutti, noi che che potevamo restare, e non si stava parlando di questione istituzionale né di elezioni. Fu quando ricordando un villaggio siciliano, a cui si era accennato, Umberto socchiuse gli occhi e nominò, uno dopo l’altro, tutti i villaggi della costa settentrionale della Sicilia, senza dimenticarne uno. E ne descrisse qualcuno per farcelo rivedere, la torre, il porticciolo, gli agrumeti, la fontana. Avemmo la sensazione che tutto il suo Paese, il nostro Paese egli conoscesse così, metro per metro, per averlo girato instancabilmente. Oh, non come come uno di noi, che arriva inosservato, mangia in trattoria, attacca conversazione con il commesso viaggiatore. No. Lui i paesi lì vedeva sempre agghindati, festonati, festanti, lavati di fresco, ridipinti. Gli italiani erano sempre vestiti a festa, col viso lucido, e le campane suonavano sempre da tutti i campanili. Tuttavia, il suo Paese, endimanché e pulito come un’Olanda, gli piaceva come piace a uno di noi, se lo ricordava amorevolmente, a occhi socchiusi, villaggio per villaggio.
Noi tre, che restavamo. avemmo la sensazione di quanto la partenza gli costava. E parlammo d’altro.
Più tardi andai al giornale. Da un telefono del Tempo gli diedi l’informazione, giunta da un minuto prima, che i Ministri avevano deliberato di non attendere l’ultima decisione della Corte e avevano nominato De Gasperi «Capo provvisorio dello Stato». (Qualcuno aveva detto, in redazione: « E’ un piccolissimo colpettino di Stato».) Poi non seppi più nulla. Il re partì il giorno dopo. Nelle fotografie pubblicate dai giornali indossava lo stesso abito che aveva portato la sera prima a pranzo. Non si era coricato tutta la notte. Mi dissero che quando gli presentarono le varie possibilità (arrestare il Governo, ritirarsi a Napoli, o partire senza passare i poteri) egli aveva scelto l’ultima.