Durante il nostro primo colloquio Umberto di Savoia, a un certo momento, cogliendo un inflessione dialettale nella mia voce, mi ha detto: «Lei è di origini modenese, vero?».
«Si, sono nato in un paesetto della provincia di Modena».
«Aspetti: vediamo se indovino dove esattamente. Le dispiace ripetere le parole “sono nato” in dialetto? ».
A soun na, Maestà
«Nella “bassa”, senza dubbio. Aspetti: forse nella zona fra Bomporto e Sorbara. Ho sbagliato? »
No, Maestà, non ha sbagliato: ha fatto centro in pieno. E’ incredibile. Come fa a distinguere le sfumature dei dialetti modenesi?
«Somigli a Umberto….»
Ho trascorso a Modena un periodo molto importante della mia vita: non lo sapeva? .
«Sì, certo, lo sapevo: a Modena lei ha fatto il corso di allievo ufficiale, è stato cadetto dell’Accademia Militare. Ma è passato molto tempo».
«Oh, sì, tanto tempo: circa trent’anni. Ma sono giorni che non si dimenticano. Conosco molto bene tutta la provincia di Modena, perché spesso facevamo lunghissime marce, sa, con zaino affardellato sulle spalle. Erano marce massacranti: si tornava sporchi di fango o di polvere, sudati, con le piaghe nei piedi, ma con una inesauribile riserva di buon umore. “E’ naia”, si diceva. A volte si andava su verso le colline, fino a Sassuolo, fino a Maranello, fino a Guiglia. A volte invece marciavamo per le strade polverose e assolate della “bassa”, fino a Nonantola, fino a Bastiglia, fino a Bomporto. Ricordo quella stupenda campagna, appunto fra Nortantola e Bomporto, così fertile, così grassa; quelle distese gialle di grano maturo; quel prati verdi di erba medica, o meglio, di “erba Spagna”, come la chiamano, se non sbaglio, i contadini; quei filari di viti dal pampini rossicci e da tralci carichi d’uva nera. Il lambrusco ».
«Già, il famose lambrusco di Sorbara, il lambrusco “dalla graspa rossa”, come lo chiamano, se non sbaglio, i contadini».
«Precisamente ».
«E ricordo quella gente cosi generosa e cordiale, così simpatica. Ricordo che un giorno, dopo una marcia estenuante sotto un sole che spaccava le pietre, sostammo per mezz’ora all’ombra di un filare di pioppi, appunto dalle parti di Bomporto. Poco dopo arrivò, da una vicina casa colonica, una donna anziana, con due fiaschi di vino e un bicchiere. Ci offrì da bere a tutti. Quando giunse il mio turno, porgendomi il bicchiere mi disse: “Povar suldadein, guarda lè, sa t’vdes to madra, acsè tut moi d’sudor : roba da ciapar na polmonite” (“Povero soldatino, guarda lì, se ti vedesse tua madre, così tutto bagnato di sudore: roba da prendere una polmonite). Mentre bevevo mi guardò attentamente e aggiunse: “Oh, mo l sat a chi t’ arvis? T’ arvis al principe Umberto, che Dio t’ bandessa, precis precìs, come do gozi d’acqua (“Oh, ma lo sai a chi somigli? Somigli al principe Umberto, che Dio ti benedica tale e quale, come due gocce d’acqua”). La ringraziai, parlando anch’io in dialetto: non le dissi che il principe Umberto ero io. Ricordo perfettamente quel lontano episodio. Credo che se ripassassi da quelle parti saprei ritrovare quella casa colonica e il filare di pioppi ».
Abbiamo continuato a parlare per un bel po’ del tempo in cui il principe Umberto era allievo dell’Accadernia Militare di Modena. Il discorso è scivolato, a un certo momento, sulle opere d’arte della Galleria Estense. Umberto ha sempre avuto fama d’essere stato in gioventù alquanto spensierato, dedito alla galanteria più che agli studi severi, occupato a corteggiare donne più che a visitare musei. Ma mi sono reso conto che l’irresistibile cadetto doveva essere, tutto sommato, meno fatuo dì quanto si crede. Ricorda, è vero, la bellezza aggressiva e nello stesso tempo delicata delle donne emiliane. Ma non c’è dubbio che già allora visitava anche, e con molta attenzione, i musei. Mi ha parlato infatti delle opere della Galleria Estense con straordinaria cognizione di causa, citando particolari che io ignoravo o avevo dimenticato, rammentando persino l’esatta ubicazione di questo o quel quadro come se fossero passati pochi giorni, anziché trent’anni, dal suo ottimo accurato sopralluogo.
Un competente d’arte
L’interesse di Umberto per l’arte non è l’hobby di un dilettane, ma la passione di un autentico studioso. La sua competenza in questo settore è infallibile e la sua cultura è vastissima. Nei principali musei d’Europa. Al Louvre come al Prado, è di casa. Al Prado, anni fa, fu protagonista di un singolare episodio (me lo ha raccontato un suo collaboratore). Un giorno sostò assai perplesso davanti a una tela attribuita a un famoso maestro. In seguito tornò più volte, a esaminare quella tela: a conclusione di lunghi studi e di pazienti ricerche in altri musei e biblioteche riuscì ad accertare senza ombra di dubbio che non era opera del maestro al quale veniva attribuita, ma di un altro ugualmente famoso. Informò della sua scoperta il direttore del museo, il quale dapprima si dimostrò scettico, ma di fronte alle documentate argomentazioni di Umberto dovette convincersi. La tela fu quindi attribuita al suo vero autore. Anche alla Biblioteca Nazionale di Madrid Umberto ha reso più di un servizio: la “conservadora” (cioè la direttrice) del gabinetto delle stampe si è rivolta a lui molte volte per risolvere un dubbio per attribuire con sicurezza una stampa antica a un certo autore o a una determinata epoca.
A uno studioso che gli chiedeva come avesse acquistato una così vasta competenza in materia d’arte e chi fossero i suoi maestri, Umberto ha risposto: «Sono curioso: viaggio molto e quando visito una città cerco di conoscere a fondo e di comprendere le opere e i monumenti che attirano la mia attenzione e colpiscono la mia sensibilità. Non ho mai frequentato corsi di pittura odi architettura. Ma ho avuto, in materia d’arte, il più grande maestro che esista al mondo: questo maestro si chiama Italia. Devo aggiungere che fin da ragazzo ho trovato nei miei genitori un esempio e un incitamento. Entrambi amavano l’arte: mio padre con lo scrupolo e la freddezza dello studioso, mia madre con la sua acuta sensibilità ».
La competenza di Umberto non riguarda soltanto gli artisti del passato, ma si estende ai contemporanei, anche se – mi è sembrato di capirlo – considera con qualche scetticismo le esperienze moderne più stravaganti e l’astrattismo puro. Si rammarica di non poter conoscere a fondo gli artisti italiani che si sono affermati o comunque hanno dato il meglio in questi ultimi anni.
Più di una volta è partito da Cascais e ha intrapreso un lungo viaggio al solo scopo di visitare 1a “personale” di un artista Italiano a Parigi o in qualche altra parte d’Europa.
Ha visto con particolare interesse opere recenti di Gentilini e di Monachesi, di Cassinari e di Pirandello, di Guttuso e di Vespignani. Conosceva e apprezzava la pittura di Mafai vecchia maniera: ora ha saputo che anche Mafai è passato all’astrattismo e sarebbe assai curioso di vederne i risultati. E’ sempre al corrente di tutto ciò che accade in Italia. Alla lettura dei giornali italiani dedica ogni mattina almeno un paio d’ore. Segue col massimo interesse gli avvenimenti politici e culturali, ma non ignora neppure la classifica del campionato di calcio, né l’ultimo successo di Modugno. Della politica italiana conosce anche i retroscena che i giornali ignorano, perché naturalmente ha numerosi amici (alcuni autorevolissimi e insospettati) che gli scrivono di frequente da Roma e lo informano di tutto.
Un pezzetto d’Italia
Il teatro italiano è un altro argomento che lo appassiona (ma tutto ciò che é italiano lo appassiona). Mi ha chiesto notizie particolareggiate sul grande teatro viaggiante che Vittorio Gassman sta per inaugurare: mi è apparso sinceramente interessato alla faccenda, come se il successo o l’insuccesso dell’esperimento di Gassman (non lo ha mai visto recitare tranne che in qualche film) lo toccasse personalmente. Mi ha chiesto anche se è vero che Walter Chiari, come gli hanno detto, è oggi in Italia l’attore più “moderno” del teatro di rivista: anche Walter Chiari lo ha visto recitare soltanto in qualche film mediocre. Umberto di Savoia non ha mai avuto molto interesse per il cinematografo. Ma quando a Lisbona e a Estoril si proietta un film italiano, se gli è possibile lo va a vedere, soprattutto se si tratta di un film girato in esterni dal vero, secondo i criteri del neorealismo. Gli accade di assistere con interesse o addirittura con un po’ di commozione anche a certi filmetti decisamente brutti e alquanto grossolani, soggiogato non dalla vicenda o dall’interpretazione, ma dai luoghi in cui si svolge l’azione. Gli accade a volte di scoprire sullo schermo, con un improvviso tuffo al cuore, al di là del primo piano non particolarmente espressivo di un “fusto” o di una “maggiorata”, nello sfondo, un angolo ben noto di questa o di quella città (il più delle volte di Roma), o un vicolo. una piazza, un vecchio edificio, un monumento, un ponte, una fontana: un pezzetto d’Italia. Entrare in un cinema dove si proietta un film italiano è per lui quasi un fantastico viaggio clandestino nella patria proibita.
E’ al corrente di tutti i libri che si stampano in Italia. Le sue letture preferite sono i classici, oppure i saggi di storia, d’arte di costume, di filosofia. Ma conosce a fondo anche la narrativa e la poesia moderna. Fra gli scrittori italiani viventi quello che predilige è forse Dino Buzzati. Un altro libro che gli è caro è “L’oro di Napoli”, di Marotta. Sullo scaffale che contiene i cinque o sei volumi degli incontri di Indro Montanelli – dice scherzosamente – ci può stare come epigrafe il titolo di un altro libro della stesso autore: “Qui non riposano” (i volumi degli Incontri di Montanelli sono, infatti, fra quelli che più spesso Umberto toglie dallo scaffale e rilegge con piacere). Conosce bene (benché non sempre le apprezzi) anche le opere degli scrittori, più giovani e spregiudicati venuti alla ribalta in questo dopoguerra. Un libro nuovo che, un paio di anni fa, lo impressionò assai favorevolmente, fu Gente al Babuino di Ugo Moretti. Quando si seppe che il premio Nobel era toccato all’italiano, Salvatore Quasimodo, Umberto ne fu sinceramente felice. Qualcuno ebbe occasione di rammentargli che l’atteggiamento politico di Quasimodo è stato spesso ambiguo e comunque non certo ispirato a benevolenza e simpatia nei confronti degli ideali monarchici. Umberto rispose con molta arguzia: «Questo dimostra che, disgraziatamente, anche un repubblicano può avere l’anima di un autentico poeta».
Quando Umberto nel giugno 1946 parti per l’esilio non portò nulla con sé, tranne pochi oggetti strettamente personali. Nelle due prime residenze, a Colares e a Monte Real, non c’era né un mobile né un quadro di proprietà dei Savoia. Ma ora Villa Italia è arredata con mobili e alcuni soprammobili antichi. Alle pareti ci sono tele, stampe, miniature, alcune di notevole valore artistico, raffiguranti personaggi e fatti di casa Savoia: un delicato profilo a pastello della egina Margherita, un ritratto di Vittorio Emanuele II vestito da cacciatore e addormentato sull’erba, una miniature di Carlo Felice, un’immagine di Vittorio Amedeo incoronato re di Sicilia, una antichissima croce di Savoia ricamata in argento nel 1310 per Amedeo V, e così via. Ho domandato a Umberto come fu possibile far giungere in Portogallo dall’Italia in un secondo tempo, questi mobili e questi oggetti d’arte di proprietà dei Savoia.
La malattia di Maria José
Ha risposto:«Questi oggetti, il cui Valore sentimentale è per me inestimabile e infinitamente superiore a quello materiale, hanno una storia singolare e vorrei dire commovente. Erano tutti a Napoli e costituivano gran parte dell’arredamento della villa Maria Pia. Nel 1943, pochi giorni prima che giungessero a Napoli i tedeschi, alcuni amici devoti e previdenti pensarono bene di nasconderli per impedire che i tedeschi se ne impadronissero. Quando i tedeschi arrivarono a Villa Maria Pia, infatti, la trovarono quasi completamente vuota. Poi i tedeschi abbandonarono Napoli, ma gli amici devoti e previdenti continuarono a tenere nascosti i mobili e gli oggetti d’arte della villa, forse per altri timori. Dopo la mia partenza per l’esilio gli amici devoti e previdenti pensarono che potesse essere di qualche conforto a me e alla mia famiglia avere vicino almeno questi oggetti carichi di tanti ricordi. Ma c’erano di mezzo il mare e il rigore delle leggi italiane. Tuttavia fu studiato un piano di azione. Un modesto armatore pugliese mise a disposizione un piccolo veliero e un esiguo equipaggio. I mobili e gli altri oggetti chiusi in un centinaio di casse furono trasportati a bordo di notte in gran segreto. E in gran segreto il veliero salpò dall’Italia per Lisbona, senza che le autorità avessero sentore di quel misterioso carico e di quella singolare missione. La navigazione fu avventurosa e per poco non si concluse con un naufragio. Il Piccolo veliero, preso in mezzo alla tempesta andò per due giorni alla deriva. L’acqua irrompeva a bordo e penetrava nelle casse: alcuni quadri furono completamente rovinati, altri solo in parte danneggiati. E finalmente una mattina l’armatore pugliese arrivò a Cascais inaspettato (io ero all’oscuro di tutto) e mi consegnò questi mobili e questi oggetti carichi di tanti ricordi. Non volle altra ricompensa che una mia fotografia con dedica e una curiosa promessa.
Mi disse: «Maestà, deve promettere che quando verrà il giorno del suo ritorno in patria lei non ci farà il torto di non chiamarci. Il mio veliero resta a sua disposizione per riportare in Italia tutto quello che oggi ha portato in Portogallo. Io e i miei uomini siamo pronti in qualsiasi momento. Maestà, lei deve promettere che non ci farà il torto di non chiamarci …”. Presi la richiesta dell’amatore pugliese come un augurio e promisi solennemente».
I primi mesi di esilio furono i più duri e drammatici. Fra il gennaio e il febbraio 1947 Maria José, in seguito a un’operazione di appendicite e a una gravissima emorragia divenne completamente cieca. Furono giorni di incubo: si temeva che non potesse mai più riacquistare la vista. Lei sola restava aggrappata tenacemente alla speranza. Il 6 febbraio chiese che le portassero al capezzale la figlia Maria Pia e aggiunse, quasi per un atto di fede soprannaturale: Sono certa che la vedrò ». Per mezz’ora strinse le mani della bimba con una disperata volontà di vederne il visino spaurito almeno per un attimo in un vago bagliore di luce. Ma il miracolo nel quale aveva voluto credere ad ogni costo non avvenne, il sipario nero non si alzò. Dopo mezz’ora Maria José si accasciò stremata sul letto, per la prima volta in preda a un cupo sconforto.
Qualche tempo dopo, invece, le sue condizioni migliorarono: riacquistò gradatamente la vista che tornò quasi normale, anche se da allora i suoi occhi hanno avuto sempre bisogno di cure speciali e di un incessante controllo medico. Fu a causa della malattia che María José dovette separarsi dal marito e trasferirsi in Svizzera. Questa separazione, com’è noto, ha fornito lo spunto per illazioni e pettegolezzi a non finire. Certo nel rapporti fra Umberto e Maria José si alternarono periodi di cortese distacco a periodi di affettuosa intimità. Ma la vera e drammatica causa della loro separazione va ricercata soltanto nel fatto che il clima atlantico avrebbe rappresentato per Maria José, a più o meno breve scadenza, la cecità completa.
L’autodisciplina dei Savoia
Da tutto ciò è scaturita indirettamente una situazione che potrebbe forse influire in qualche modo sulle sorti future della monarchia sabauda. Il principe Vittorio Emanuele è cresciuto praticamente accanto alla madre, lontano dalla diretta influenza e disciplina paterna che avrebbe avuto come primo scopo quello di temprarlo per i compiti che l’avvenire potrebbe forse riserbargli. Vittorio Emanuele ha per il padre un rispetto che rasenta la venerazione: ma ha un carattere emotivo e irrequieto, avventuroso e impulsivo, che soltanto l’autodisciplina potrebbe temperare. Si è parlato e si parla molto in questi giorni dell’ipotetico idillio fra il principe Vittorio Emanuele e Dominique Claudel, idillio che secondo alcuni potrebbe concludersi con un matrimonio. Senza dubbio fra i due giovani c’è affettuosa amicizia e simpatia. Ma è impossibile prevedere per ora se si tratta di una di quelle iridescenti bolle di sapone tipiche della prima giovinezza e destinate a svanire ben presto nel nulla, oppure di un sentimento già maturo e meditato. Una cosa è certa: se il principe Vittorio Emanuele dovesse un giorno sposare, anziché una principessa di sangue reale, la signorina Dominique Claudel, dovrebbe rinunciare fatalmente al diritto di succedere al padre sul trono in caso di restaurazione monarchica (il diritto di successione potrebbe in tal caso passare al giovane Amedeo d’Aosta). Tutto questo è imposto da una ferrea tradizione. Non è mai accaduto nella storia di casa Savoia che un capo della famiglia abbia contratto un matrimonio simile. Finora i capi della famiglia, dalle origini a Umberto II sono stati esattamente quarantaquattro (Vittorio Emanuele dovrebbe essere a suo tempo il quarantacinquesimo), e tutti si sono sposati in perfetto ossequio delle consuetudini dinastiche. Sarebbe questa la prima volta che la proverbiale autodisciplina dei Savoia verrebbe a mancare.
A proposito delle difficoltà di ogni genere e delle amarezze dei primi mesi di esilio, Umberto mi ha detto: « Se non è facile fare il re è altrettanto difficile fare il re in esilio. Ho dovuto apprendere giorno per giorno questo ingrato mestiere. Vuole che le racconti un episodio? Ero in Portogallo da pochi mesi quando, un mattino, gettò l’ancora nel porto di Lisbona una nave con a bordo trecento italiani diretti in Argentina. Tre di questi emigranti vennero a Cascais e mi chiesero per tutti i loro compagni un’udienza collettiva nel poco tempo che avevano a disposizione prima che la nave partisse. Risposi senza esitare che anziché riceverli a Cascais mi sarei recato io stesso a Lisbona per visitarli sulla loro nave. Fu un impulso spontaneo che mi suggerì quel gesto: fui spinto da un’ondata impetuosa di commozione e d’amore per quei trecento italiani che, come me, abbandonavano la patria, forse per non rivederla mai più, che andavano incontro a un oscuro e triste avvenire in un Paese straniero. Mi recai a Lisbona con la coscienza assolutamente serena: salii a bordo, convinto di compiere un gesto legittimo e di umana solidarietà. Strinsi trecento mari. Ricevetti manifestazioni commoventi di affetto. Feci ritorno a Cascais col cuore più leggero. Ma non avevo previsto le catastrofiche conseguenze di un gesto che a torto avevo giudicato innocente e, più che legittimo, doveroso. Il ministro italiano venuto a conoscenza della cosa protestò energicamente presso il governo portoghese. Sorsero complicazioni e polemiche che misero a repentaglio i buoni rapporti diplomatici fra l’Italia e il Portogallo. Appresi così che non mi era concesso di mettere piede su una nave italiana neppure per stringere la mano a trecento italiani che forse l’Italia non l’avrebbero vista mai più, costretti a partire per un Paese straniero, in cerca di pane, verso un oscuro e triste destino. Fu una lezione dura ma efficace: da allora non ho più commesso gesti così gravi e pericolosi per la sicurezza della repubblica italiana ».
Quasi ogni giorno, da più di tredici anni, c’è qualche italiano che giunge a Cascais e chiede di essere ricevuto da Umberto. Sono entrati, a Villa Italia, durante questi tredici anni, personaggi importantissimi e poveri emigranti, uomini di cultura e contadini illetterati, artisti famosi e famosissimi campioni (anche la nazionale italiana di calcio, trovandosi in Portogallo per un incontro, si recò a Villa Italia al gran completo, cosa che provocò poi una ridda di polemiche e di recriminazioni) . Una notte gettò l’ancora nel porto di Lisbona una nave italiana. Doveva ripartire dopo un paio di ore. I marinai decisero di approfittarne per andare a Cascais a salutare il re: arrivarono a Villa Italia alle tre di notte. Svegliarono il personale e chiesero l’udienza. Umberto, data la circostanza eccezionale, si alzò, si vestì in fretta, li ricevette. I marinai tornarono a Lisbona in tempo utile per salire a bordo e salpare.
Valanghe di lettere
Ogni giorno Umberto riceve dall’Italia una valanga di lettere e spesso dei piccoli doni. A volte sono lettere ingenue e inverosimilmente sgrammaticate. I doni sono il più delle volte di un commovente pessimo gusto: cravatte impossibili, o centrini ricamati da vecchie signore, oggetti modellati con mollica di pane. Accadono anche episodi paradossali e divertenti. Un giorno giunse a Cascais una vecchissima signora che da anni faceva economie per realizzare quello che era il più bel sogno della sua vita. Chiese udienza per sé e per il suo cagnolino dal quale non aveva cuore di separarsi neppure per un istante. Umberto, con divertita indulgenza, accordò l’udienza alla vecchia signora e al cagnolino. La vecchia signora, appena fu nel salotto di Umberto, depose sul pavimento il cagnolino, non meno vecchio e tremante di lei, e gli ordinò: «Su, da bravo, saluta il nostro re» . Il cagnolino eseguì una specie di inchino, frutto senza dubbio di mesi e mesi di paziente addestramento. Umberto si divertì in seguito a raccontare l’episodio, facendo rilevare l’importanza di quel “nostro re” detto dalla vecchia signora al cagnolino: parole in virtù delle quali – aggiungeva scherzosamente Umberto – egli si era trovato ad avere un nuovo suddito a quattro zampe.
« Lettere a volte ingenue e sgrammaticate, poveri doni di cattivo gusto, e anche qualche episodio buffo , mi ha detto Umberto « eppure tutto questo non è meno importante delle visite di personaggi autorevoli e delle lettere di uomini colti e famosi. Ogni lettera che mi giunge dall’Italia ha per me un identico inestimabile valore. Il giorno che non,mi giungesse dall’Italia almeno una lettera, mi sentirei veramente e spaventosamente solo, mi crollerebbe ogni speranza. Ma sono passati più di tredici anni e quel giorno non è ancora venuto. Anzi più gli anni passano e più diventa imponente la valanga di lettere che mi giungono quotidianamente dall’Italia. Questo basta a dare un senso e uno scopo alla mia vita .