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Il mio esilio di Luigi Cavicchioli

Il mio esilio – di Luigi Cavicchioli – 3

By Marzo 6, 2020Gennaio 24th, 2022No Comments

Cascais, gennaio

Questa volta Umberto mi riceve nel piccolo studio del primo piano, al quale si accede per una  stretta scala di legno. Anche qui, come nel salottino del pianterreno, le pareti sono tappezzate di libri. Qua e la, negli scaffali e sui mobili, ci sono alcuni piccoli oggetti di legno o di gesso o di cera: sono riproduzioni dei più famosi   monumenti italiani (la Torre di Pisa, la Mole Antonelliana, la Ghirlandina di Modena, il Colosseo e così via) che Umberto ha ricevuto in dono, durante questi anni di esilio, da sconosciuti amici delle varie   città. Mi hanno detto che conserva nei cassetti e in una grande cassa molti altri “pezzi” come questi esposti nello studio e che praticamente tutte le città italiane sono rappresentate in questa sua singolare collezione di monumenti in miniatura. Una persona che ha vissuto per un certo periodo nella casa mi ha detto che Umberto, a volte, nei momenti di solitudine e di più acuta nostalgia, li usa come pezzi di un patetico puzzle: disponendo sul tavolo quel piccoli monumenti secondo l’esatta ubicazione ricostruisce fedelmente una piantina dell’Italia. Questo sarebbe il passatempo preferito del re in esilio. Non so se la cosa risponde a verità o se si tratta di una invenzione. Ho pensato fosse inutile interrogare in proposito lo stesso Umberto, perché in ogni caso avrebbe seccamente smentito («Sciocchezze », avrebbe risposto), preoccupato com’è di nascondere debolezze e sentimenti che qualcuno potrebbe forse scambiare per retorica o esibizionismo.

Le navi salutano il Re

Dallo studio, attraverso una porta a vetri, si esce nella veranda che guarda “il grande Atlantico sonante”. Oggi l’oceano è, per l’appunto, tempestoso. Le onde si scagliano con estrema violenza contro gli scogli: valanghe spumeggianti si levano alte verso il cielo e ricadono con fragore assordante.

«Questa è ancora relativa bonaccia», mi dice Umberto, « si figuri che certi giorni l’alta marea giunge fino a sommergere la strada, fino a lambire le mura di Villa Italia o addirittura a invadere i locali del pianterreno. Allora, stando su questa veranda, si ha veramente l’impressione di essere sul ponte di una nave in mezzo al mare in burrasca ».

Mi hanno detto che Umberto, specialmente verso sera interrompe spesso il lavoro per affacciarsi al parapetto di questa veranda e guardare l’oceano. Se scorge la sagoma di una nave all’orizzonte (così mi hanno detto) va a prendere dalla sua stanza da letto un cannocchiale da marina: lo punta sulla nave e se scopre che è una nave italiana la segue a lungo, con autentica emozione, non si stacca dal cannocchiale finché non è scomparsa. Ho evitato di chiedere a Umberto se questa faccenda del cannocchiale è vera ( Sciocchezze , avrebbe risposto). Tuttavia è vero che sovente una nave italiana (magari deviando impercettibilmente la rotta) passa davanti alla baia di Cascais: e forse gli equipaggi ne approfittano per mandare un segnale di saluto all’esule.

Umberto rientra nello studio.

Chiude personalmente la porta a vetri della veranda. Va a sedere alla sua scrivania. Riprendiamo la interrotta rievocazione dei drammatici eventi dei giugno 1946 immediatamente successivi al referendum istituzionale.

La mattina del 5 giugno, poco dopo  le dieci, il presidente del consiglio, Alcide De Gasperi, varcò  la soglia del Quirinale, per portare al re “l’incresciosa notizia”. Era inquieto e accigliato. Umberto lo accolse, come al solito, calmo e affabile. Ecco il loro colloquio.

« Maestà, il lavoro di spoglio cui si é rapidamente proceduto durante la notte ha portato alla constatazione di una maggioranza per repubblica. Non le nascondo che il primo dolorosamente colpito per  1’improvviso capovolgimento di situazione, quando la vittoria della monarchia sembrava ormai a fatta, sono stato io stesso ».

«Ne prendo atto, signor presidente».

Lascerò il trono ed il paese

«Maestà, la situazione si va facendo inquieta e richiede una, dichiarazione del governo, che sarà fatta in giornata. Naturalmente essa non pone alcuna ipoteca sulla proclamazione ufficiale, che spetta per legge alla Corte suprema di Cassazione ».

«Quando ritiene, signor presidente, che la Corte possa riunirsi?»

Il lavoro della Corte va svelto. Ritengo possibile la proclamazione ufficiale entro sabato 8 giugno,

« Benissimo. C’è un punto fermo: proclamazione da parte Corte suprema. Lo l’attenderò a Roma, ma, subito dopo, se il verdetto sarà sfavorevole alla monarchia lascerò il trono e il Paese».

«Subito dopo 1a proclamazione ufficiale io verrò da Vostra Maestà accompagnato dal presidente della  Corte Suprema, per la comunicazione del caso. Sarà poi  mio dovere accompagnare Vostra Maestà al luogo prescelto per la  partenza».

« E’ bene che non si avverta scossa alcuna nel delicato momento del  trapasso dei poteri, se trapasso poteri dovrà essere. Desidero lanciare un proclama agli Italia momento della partenza per sciogliere dal giuramento di fedeltà alla Corona tutti coloro che lo hanno prestato. Quanti hanno creduto e credono nella monarchia devono essere i primi a dare esempio di concordia e di buona volontà. Quanto a me, ripeto, non mi resta che attendere la proclamazione della Corte, alla quale la Corona si affida.  Perfettamente, Maestá: qualsiasi decisione, s’intende, è vincolata alla proclamazione della Corte”

De Gasperi uscì da questo colloquio addirittura con le lagrime occhi. All’ammiraglio Garofalo e al generale Infante, che lo accolsero in anticamera, disse di Umberto: «Che gran brav’uomo, che onesta persona ».
Balza evidente, dal colloquio che ho qui ricostruito, che la mattina del 5 giugno il presidente del consiglio era perfettamente consapevole di quale fosse la sola via da seguire per restare nell’ambito della legalità: attendere, cioè, le decisioni della Corte suprema, alla quale spettava per legge di proclamare dopo avere vagliato i risultati elettorali, se il popolo italiano ha scelto la repubblica o la monarchia.

Il 5 giugno De Gasperi sembrava deciso a proseguire sino in  fondo sulla via della legalità. Ma pochi  giorni dopo, incapace ormai di arginare la dilagante faziosità della estrema sinistra, si trovò ad agire, sia pure con personale riluttanza, in modo ben diverso.
Romita, come si é detto, annunciando alla stampa che la repubblica aveva vinto comunicò soltanto il numero di voti validi ottenuti dall’una e dall’altra parte in causa, ma non fece parola del numero di schede annullate. Negli ambienti monarchici quell’annuncio del ministro degli interni suscitò subito stupore e indignazione. Enzo Selvaggi, direttore di Italia Nuova, proclamò: « I conti di Romita sono sbagliati; siamo di fronte a un tentativo di truffa della repubblica; per poter dire chi ha vinto  è necessario conoscere il numero globale dei votanti e quindi anche il numero dei voti nulli».
L’articolo 2 della legge 16 marzo 1946 sulle modalità del referendum  istituzionale specificava, infatti, che avrebbe vinto, delle due parti in causa, quella per la quale si fosse pronunciata “la maggioranza degli elettori votanti”. Che cosa significava il termine elettori votanti? Per Enzo Selvaggi (e la sua opinione fu condivisa da insigni giuristi non tutti di parte monarchica) non sussistevano dubbi: elettori votanti erano tutti coloro che avevano votato, sia che i loro voti fossero risultati validi, sia che fossero stati poi annullati per un motivo qualsiasi. La Corte suprema, per giungere alla proclamazione definitiva, doveva quindi sommare ai voti validi delle  parti il numero dei voti nulli: la vittoria della repubblica era valida e poteva essere proclamata soltanto se il numero dei suoi voti fosse risultato superiore alla metà della cifra globale. Ma la Corte era nell’impossibilità di fare questo conteggio perché Romita aveva trascurato di comunicare il numero dei voti nulli. Era accaduta anzi una cosa incredibile: in molte località i presidenti dei seggi avevano addirittura distrutto sul posto le schede annullate sottraendole così a qualsiasi controllo.

Le discusse schede nulle

Il 7 giugno Selvaggi presentò un ricorso alla Corte suprema di Cassazione sostenendo, appunto che l’esito del referendum poteva essere accertato e proclamato soltanto in base alla cifra globale dei votanti. Era la cosiddetta questione del “quorum” (appoggiata poi da una mozione liberale), la cui importanza non fu ben compresa dalla maggior parte degli italiani.

Molti, anche simpatizzanti per la monarchia, pensarono si trattasse soltanto di uno sterile cavillo giuridico. Fra invece una questione fondamentale e decisiva, Quale significato avevano le parole “gli elettori votanti” nella legge dei 16 marzo 1946 sul referendum? Secondo l’interpretazione monarchica (condivisa come si è detto dal più autorevoli giuristi) la legge appariva assai più logica ed equa, poiché dava la garanzia che la volontà degli elettori sarebbe stata in ogni caso rispettata. Era giusto tenere conto anche della volontà di coloro che per inesperienza (i giovani e le donne andavano alle urne per la prima volta in vita loro) o peggio ancora per eventuali brogli elettorali (soprattutto al nord si votava in un clima di faziosità e senza sufficienti garanzie di controllo) avrebbero avuto la scheda annullata. Assegnando la vittoria soltanto a quella delle due parti che avesse ottenuto la maggioranza sul numero globale dei votanti, anziché il maggior numero di voti validi, si eliminava il pericolo dei brogli elettorali, si conseguiva la certezza che il verdetto non sarebbe stato diverso se coloro che avevano avuto la scheda annullata avessero potuto esprimere validamente la loro volontà.
Viceversa, tenendo conto, per assegnare la vittoria, soltanto della maggioranza di voti validi, diventava assai facile fare brogli: per capovolgere il risultato bastava annullare un certo numero di schede favorevoli alla parte avversa. Di conseguenza, se il numero dei voti ottenuti dalla parte soccombente sommato al numero delle schede annullate, a conti fatti, fosse risultato superiore o più o meno equivalente (come in effetti avvenne) al numero dei voti ottenuti dalla parte vittoriosa, sarebbe rimasto ad avvelenare gli animi il più che legittimo dubbio che senza la confusione e i brogli il risultato poteva essere diverso.

Perché la vittoria di una delle due parti fosse limpida e indiscutibile era necessario che il numero, dei suoi voti fosse superiore alla somma del voti della parte avversa e delle schede annullate. Ecco perché la legge 16 marzo 1946 sul referendum appariva assai più logica ed equa secondo l’interpretazione monarchica. Del resto i monarchici non si aggrapparono a questa tesi in extremis come ad una ultima ancora di salvezza. Il 3 giugno, quando non si conoscevano ancora i primi risultati, il giornale di Selvaggi, sotto il  titolo “Come verrà proclamato l’esito del referendum”, aveva scritto fra l’altro: “Il presidente della Corte di Cassazione, aperta l’udienza, indicherà il numero degli elettori iscritti e quello dei votanti, preciserà l’ammontare delle schede nulle e bianche, stabilirà la cifra costituente la maggioranza, quindi annuncerà i voti attribuiti alla monarchia e alla repubblica ».

Pronte le armi polacche

Il ricorso Selvaggi suscitò sgomento e febbrile impazienza negli ambienti del governo. I repubblicani sostenevano che le due cifre relative ai voti validi comunicate da Romita erano più che sufficienti per liquidare la monarchia senza ulteriori indugi o accertamenti. Al sud scoppiarono manifestazioni di protesta per il “tentativo di frode dei governo: manifestazioni sanguinosamente represse dalla polizia ausiliaria di Romita (parecchi morti restarono sulle piazze di Napoli).
Da varie parti il re fu sollecitato a ricorrere alla forza per resistere al sopruso. Giunsero al Quirinale alcuni capi di formazioni partigiane per mettere a disposizione i loro uomini e chiedere armi. Chiese udienza anche il generale Anders, comandante delle truppe polacche in Italia, il cui indomabile spirito antibolscevico era allora quasi leggendario: egli offrì esplicitamente (questo particolare è finora sconosciuto) le sue forze in difesa della Corona. Umberto rifiutò l’offerta con cortese fermezza. Confidò poi amaramente a un suo collaboratore: «Tutto questo, per me, è un incitamento a partire il più presto possibile dall’Italia. La storia non deve dire domani che io abbia fomentato o anche solo permesso la guerra civile. Il solo pensiero, poi, di ricorrere a truppe straniere per difendere il trono, mi fa rabbrividire ».

Selvaggi presentò il suo ricorso senza essersi consultato prima col re, che quando fu informato di quell’iniziativa non dimostrò, a quanto si disse, eccessivo entusiasmo. Sulla questione del “quorum” Umberto non ha mai espresso finora un parere categorico: non si pronunciò apertamente in favore della tesi di Selvaggi, non disse che significato attribuiva personalmente alle parole “elettori votanti” della legge 16 marzo 1946 sul referendum. Non è mancato, perciò, in campo avverso, chi ha ritenuto di poter affermare: Umberto, che come luogotenente aveva firmato la legge, conosceva bene il significato di quelle parole, quindi non poteva intimamente condividere la tesi di Selvaggi.

Il decreto legislativo 16 marzo 1946 fu firmato, appunto, da Umberto, e controfirmato da tutti i ministri allora in carica (De Gasperi, Nenni, Cianca, Romita, Togliatti, Scoccimarro, Brosio, De Courten, Corbino, Cevolotto, Cattani, Molè, Gullo, Scelba, Gronchi, Lombardi , Barbareschi, Bracci, Gasparotto). Il ministro Bracci, durante una delle incandescenti riunioni che portarono al “colpo di Stato” della notte fra il 12 e il 13 giugno, ebbe a dichiarare: Quanto al “quorum” è principio indiscusso che i votanti sono coloro che hanno intenzione di votare, che votano di fatto e che esprimono validamente il loro voto. Gli altri sono elettori, ma non votanti. E fra noi galantuomini, che abbiamo approvato la legge vagliata e rivagliata dalla Consulta, sappiamo bene che è così, che contano solo i sì per l’uno o l’altro simbolo ».

Ho rivolto a Umberto, durante i nostri colloqui a Cascais, alcune domande che gli hanno dato occasione di chiarire una volta per sempre il suo pensiero sulla dibattuta questione del “quorum”, che è fondamentale per giungere a un giudizio storico definitivo sulle vicende del giugno 1946.

Quando Vostra Maestà firmò il decreto del 16 mano 1946, quale significato credette che avessero le parole “elettori votanti”?

Risponde: «Se la monarchia avesse ottenuto al referendum la maggioranza dei voti validi, la tanto dibattuta questione non sarebbe sorta: nessuno, io credo, né in campo monarchico né in campo repubblicano, avrebbe avuto dubbi sul significato, che del resto è limpidissimo, di quelle due parole. Elettori sono i cittadini che hanno diritto di voto e sono iscritti nelle liste.  Elettori votanti sono tutti coloro che vanno alle urne e votano di fatto: né si potrà dire che non sia votante, cioè che non abbia votato, l’elettore la cui scheda sarà poi, per un motivo qualsiasi, annullata. Non certo a caso la legge parlava di “maggioranza degli elettori votanti”. Se avesse voluto riferirsi soltanto al voti validi avrebbe usato, per l’appunto, l’espressione “voti validi”. Un decreto legge non é un saggio di narrativa moderna: le parole vi sono usate in base al loro significato preciso. Il significato dell’espressione “elettori votanti” era dunque inequivocabile, né potevano ignorarlo “fra loro galantuomini” (per usare la frase del ministro Bracci) coloro che avevano approvato e sottoscritto la legge».

Il mio sacrificio

« Per quale motivo Vostra Maestà non sostenne allora apertamente e fermamente questa tesi, e anzi manifestò, a quanto si disse, un certo disappunto per l’iniziativa di Selvaggi? ».

«Le pare proprio che spettasse al re dare suggerimenti alla magistratura su come interpretare la legge? Conservo ancora vivissimo un sentimento di affetto e di commossa gratitudine per il caro Enzo Selvaggi, così generoso e battagliero: la, notizia della sua tragica sorte in un incidente automobilistico é fra quelle che mi hanno più profondamente addolorato in questi ultimi anni. Ma devo dire con franchezza che il suo ricorso mi sembrò superfluo. Ritenevo infatti che la magistratura non avesse bisogno di sollecitazioni e consigli per interpretare esattamente la legge e applicarla secondo giustizia. Del resto la mia fiducia nella magistratura trovò conferma nel comunicato che la Corte suprema diramò dopo la riunione del 10 giugno».

Effettivamente, con quel primo annuncio non definitivo la Corte diede la netta impressione di volere applicare la legge secondo l’interpretazione monarchica. Ma il 18 giugno, quando Vostra Maestà aveva già abbandonato l’Italia, la stessa Corte si pronunciò in maniera diversa e respinse il ricorso Selvaggi, sia pure con lieve maggioranza, accettando così la tesi repubblicana».

«Quando io avevo già lasciato l’Italia e rinunciato al trono, appunto. Cioè quando il governo aveva già posto la magistratura e la Corona di fronte al fatto compiuto proclamando la repubblica con un colpo di Stato e assumendone i poteri. Io avevo accettato il sopruso pur di risparmiare altri lutti al Paese. Che altro poteva fare, dopo la mia rinuncia, la Corte suprema, di fronte alla drammatica alternativa di convalidare l’operato del governo o scatenare una più che certa guerra civile? Se fu saggio (e lo fu) il mio sacrificio, non lo fu meno quello della Corte suprema».

De Gasperi aveva ottimisticamente previsto per sabato 8 giugno la riunione decisiva della Corte suprema. Ma il sabato 8 giugno passò e la sospirata riunione non ci fu. Gli elementi estremisti del governo erano sul carboni ardenti. Furono fatte pressioni sulla magistratura perché si affrettasse a deliberare. Ci fu un episodio che potrà sembrare inverosimile: invece è vero. Il giorno 9 giugno il segretario generale della Camera, Cosentino, telefonò al primo presidente della Corte suprema di Cassazione, Pagano, e lo informò che un consigliere della stessa Corte, Vitali, sarebbe andato da lui per una comunicazione riservatissima. Poco dopo Vitali era da Pagano e gli disse: Il re ha irrevocabilmente deciso di lasciare il trono e il Paese alle 15 di domani. La prega quindi di riunire la Corte domattina e far si che la seduta sia conclusiva, in modo da chiudere la partita una volta per sempre. Il re desidera lasciare il Paese in una situazione assolutamente tranquilla: la esorta quindi a fare in modo che alle 12 di domani sia tutto finito e la vittoria della repubblica sia ufficialmente proclamata .

Un equivoco voluto

Il ministro della real casa, Falcone Lucifero, venne a sapere poco dopo, per caso, di quella strana faccenda: cadde dalle nuvole. Fece telefonare a Pagano per smentire categoricamente quanto gli aveva detto Vitali: il re non si era mai sognato di mandargli quel messaggio di sollecitazione. Lucifero era furente. Telefonò a De Gasperi, che era a Castelgandolfo per una giornata di riposo, e gli disse: E’ inaudito, voglio andare fino in fondo a questa faccenda, farò uno scandalo ».

« Per amor del cielo », supplicò De Gasperi, si calmi. Cosa mi combinano se mi allontano un momento. Com’è stato questo possibile questo increscioso equivoco? Sono costernato. Intervengo immediatamente ».

Lucifero come aveva andò fino in fondo alla fine scoprì la verità. Cosentino confessò che a dargli l’incarico di quel messaggio a Pagano era stato Romita in persona: lui, Cosentino,  aveva agito in buona fede convinto che Romita fosse interprete di un espresso desiderio del re. Si stenta a credere che un ministro degli interni abbia potuto ricorrere a un simile trucco per trarre in inganno la magistratura ed influenzare le decisioni. Eppure Romita pubblicamente accusato, non smentì mai: e nel suo libro, scritto  per  dimostrare la sua assoluta imparzialità, evita con cura di parlare di questo episodio.

Il 10 giugno la Corte Suprema si riunì: ma l’esito della riunione fu per il governo fremente di impazienza, una doccia fredda. Al termine della seduta il presidente della Corte non proclamò la vittoria della repubblica: si limitò ad annunciare che “secondo quanto attestano i verbali” la repubblica  aveva ottenuto 12.672.767 voti la monarchia aveva ottenuto  10.668.305 voti validi; che ci sarebbe stata una seconda riunione per esaminare i ricorsi e per accertare il numero complessivo degli elettori votanti delle schede nulle, dopo di che sarebbe stato possibile passare alla proclamazione ufficiale. La repubblica dunque, non era ancora nata. La corte suprema aveva lasciato chiaramente intendere che voleva rivedere le bucce alle cifre del ministro Romita: voleva soprattutto conoscere e controllare il numero, delle schede annullate (secondo la tesi del ricorso Selvaggi) prima di proclamare a quale delle due parti in causa spettasse la vittoria.

Gli elementi estremisti del governo decisero di agire immediatamente per porre la magistratura di fronte al fatto compiuto. De Gasperi si recò nel pomeriggio al Quirinale col verbale della riunione della Corte (il primo presidente Pagano si rifiutò di accompagnarlo dicendo che non voleva essere scambiato per l’usciere che va a dare lo sfratto al sovrano”). Umberto ribadì a De Gasperi la sua ferma intenzione di rispettare la decisione della Corte e di volere attendere pertanto la preannunciata seconda riunione.

Una gabbia di belve

De Gasperi disse: « Maestà, lei mi conosce troppo bene per rendersi conto che personalmente io sarei di questo avviso. Ma devo tenere conto del governo che in questo momento è già riunito al Viminale. I suoi principali esponenti hanno giá espresso la loro intransigenza: vogliono proclamare la repubblica in serata».
Umberto rispose:«Mi rifiuto di credere che il governo possa giungere a tanto!».

Quando De Gasperi uscì dal Quirinale trovò sulla piazza una folla ostile che lo fischiò. Commentò amaramente: «Che situazione: al Quirinale mi fischiano e mi sputano addosso  al Viminale trovo una gabbia di belve che mi aggredisce. Cosa può fare un pover’ uomo in una situazione simile?»

Sarebbe stato semplice e logico attendere la seconda e decisiva riunione della Corte suprema. Fu quanto consigliò al governo anche Vittorio Emanuele Orlando (e la cosa era talmente ovvia che fu definita in seguito l’uovo di Orlando). Ma il governo non seppe aspettare. Romita nel suo libro scrive: «I monarchici ci accusarono poi di avere preceduto la magistratura. D’accordo. Se anziché essere uomini fossimo stati dei robot probabilmente non lo avremmo fatto. Ma per fortuna eravamo uomini, e il Paese non voleva e non poteva più attendere ». E’ una grave ammissione: non certo una giustificazione seria e valida. Perché il governo non seppe attendere (in fondo si trattava di pochi giorni o al massime di settimane) la riunione definitiva della Corte? Non c’è che una spiegazione logica: perché temeva che la Corte, se avesse potuto esaminare a fondo deliberatamente i dati elettorali, avrebbe scoperto le “magagne” del referendum e forse sovvertito i risultati.

Al Viminale, dove il governo era riunito in permanenza, il clima era estremamente teso e incandescente. Ecco una serie di battute pronunciate in consiglio dei ministri durante le drammatiche riunioni che precedettero il “colpo di Stato”.

Nenni . «Il re faccia quello che gli pare. Noi frattanto dobbiamo proclamare la repubblica e deliberare la legge per il passaggio del poteri di capo dello Stato al presidente del consiglio ».

Togliatti: « La Corte non ha fatto il suo dovere? Dunque non possiamo tenerne eccessivo conto. Dobbiamo procedere per la nostra strada, dare corso alla legge, come dice Nenni ».

Bracci: «Bisogna porsi però questa domanda: quale sarà l’atteggiamento degli alleati nell’ipotesi che la soluzione sia la forza? ».

Cianca: « La parola alla forza ».

Nenni: « Proclamiamo subito la repubblica e arrestiamo il Savoia questa notte stessa ».

Scoccimarro: «Io ritengo assai probabile un immediato colpo di mano dei monarchici. Forse, mentre noi ci perdiamo in discussioni, quelli preparano il nostro arresto. Io chiedo la pronta cattura di Lucifero e del suo padrone».

Togliatti: «Sono d’accordo per l’uso della forza. Se dipendesse da noi il re sarebbe già alto trenta centimetri di meno. Però invito i colleghi a fare un esame obiettivo e prudente della situazione. Esiste uno squilibrio di forze a nostro svantaggio. Noi possiamo contare, forse, sulla polizia, su una parte dell’esercito, e su una massa di 150 mila partigiani. Ci sono nettamente ostili i carabinieri, la marina, la maggior parte dell’esercito. Non sappiamo quale sarà l’atteggiamento degli alleati .

Nenni: «Votiamo seduta stante il decreto di investitura ».

Scoccimarro: «Se vogliono arrestarci, la cosa riesce. Questa sorda aula è una trappola per tutti noi ».

Romita: « Il Viminale è ben guardato. Ho preso le mie misure, lo sapete ».

Scoccimarro: «Non fidarti. Sappiamo bene che alti ufficiali intrigano al Quirinale. La Corona conta su forze fedelissime. Chiedo che si mettano subito le mani su quegli alti ufficiali di cui tutti, qui, conosciamo i nomi ».

Togliatti:  «Corriamo il rischio di essere fucilati da un momento all’altro ».

Roma sotto due bandiere

E’ curioso osservare come i comunisti (Togliatti e Scoccimarro) fossero fra i più bellicosi e intransigenti, ma anche, malgrado il loro atteggiamento “granguignolesco” i più timorosi. Togliatti, a partire dalla sera del 5 giugno, abbandonò addirittura la propria abitazione e andò a dormire  nella sede dell’ambasciata sovietica in via Gaeta. De Gasperi, incalzato dai ministri repubblicani, opponeva via via una sempre più debole resistenza. Soltanto il ministro liberale Cattani, praticamente, si batté fino all’ultima con vigore perché il governo non uscisse dalla legalità.

Martedì 11 giugno il governo fece un primo passo decisivo, votando un ordine del giorno che parlava già in termini espliciti di vittoria repubblicana e proclamava per quel giorno stesso la festa della repubblica. Sul Viminale fu issato per la prima volta il tricolore senza scudo sabaudo: ma dopo un’ora De Gasperi riuscì a farlo ammainare. Tuttavia, per un’ora sventolarono a Roma due bandiere contrastanti: al Quirinale quella con scudo sabaudo; al Viminale il tricolore repubblicano senza scudo (che essendo simile alla bandiera del Messico, il paese delle rivoluzioni per antonomasia, diede adito a sarcastici commenti).
Malgrado tutto ciò, Romita sostiene nel suo libro che erano i monarchici che, al Quirinale, congiuravano e preparavano il “colpo di Stato”.

Chiedo a Umberto di Savoia: «Quale fu il clima e che cosa avvenne al Quirinale in quei giorni drammatici? ».

Risponde: «Fra i miei collaboratori era ormai diffuso un senso di pessimismo: quasi tutti ritenevano che il governo avrebbe fatto ricorso alla violenza per impedire che la magistratura svolgesse fino in fondo il suo lavoro e prendesse liberamente le sue decisioni. Io mi ostinavo, contro ogni apparenza, a sperare che la legalità avrebbe avuto il sopravvento: o almeno tentavo di far tacere i dubbi che si affacciavano alla mia mente. Certo ci furono, fra i miei collaboratori, quelli che mi consigliavano di opporre la forza al sopruso. Ci fu chi mi fece rilevare che in caso di conflitto avremmo potuto prevalere con relativa facilità. Ma neppure per un attimo presi in considerazione questi suggerimenti, pur riconoscendo che erano dettati da un generoso senso della giustizia. Io speravo ancora (volevo sperare) che il governo avrebbe finito per scegliere la via della legalità. Ma sapevo che nella malaugurata ipotesi contraria a me non restava che subire rassegnata la violenza, poiché ero consapevole che resistere significava provocare una guerra civile con intervento di truppe straniere da entrambe le parti. Ero pronto a pagare qualsiasi prezzo per scongiurare una simile sventura ».