Cascais, gennaio
Il referendum istituzionale si svolse in un clima passionale che fatalmente influenzò l’elettorato.
Il governo, presieduto da De Gasperi, era espressione del CLN: i suoi componenti erano in stragrande maggioranza repubblicani. Soffiava impetuoso il vento rosso del nord. Nenni era vicepresidente del consiglio. Togliatti era guardasigilli. Agli interni, come si è detto c’era Romita, che doveva passare alla storia con l’ironico attributo di “padre della repubblica”, ( qualcuno disse con immagine alquanto barocca che la repubblica era un mostro mitologico nato da una calcolatrice sedotta dal ministro Romita). Probabilmente De Gasperi sperava in cuor suo in una vittoria monarchica, o almeno aveva molta paura della eventuale vittoria repubblicana (« Attenzione! Io non posso garantirvi una repubblica che rispetti i vostri sentimenti cristiani », aveva detto a una riunione del suo partito): ma all’atto pratico, nel momenti cruciali, evitò di prendere posizioni nette e finì sempre per soggiacere, nelle questioni istituzionali alla iniziativa repubblicana dei suoi colleghi di governo.
O la repubblica o il caos
Su Umberto di Savoia De Gasperi espresse più volte giudizi ispirati a stima e simpatia: un giorno disse addirittura, con un bizzarro paradosso, che il re possedeva tutte le doti morali e l’acume politico per essere un incomparabile presidente della repubblica.
« E il giudizio di Vostra Maestà su Alcide De Gasperi? », domando a Umberto.
Risponde: «E’ stato un grande uomo politico, uno dei migliori che l’Italia abbia avuto, anche se tagliato più per destreggiarsi con somma cautela e abilità in una palude che per navigare a vele spiegate in mare aperto. Del resto il suo, per l’appunto, fu tempo di palude, sabbie mobili, non di mari aperti di vasti orizzonti. Gli italiani debbono a lui molta gratitudine. Io stesso, malgrado tutto, lo riconosco senza ombra di rancore, anzi con sincera commozione ».
Alla vigilia del referendum la democrazia cristiana, riunita a congresso, si pronunciò per la repubblica, benché i suoi esponenti maggioranza simpatizzassero più o meno apertamente per la monarchia. Bisogna pensare al clima quel giorni per trovare una spiegazione a questo comportamento. L’estrema sinistra, che si proclamava interprete dei sentimenti popolari, spadroneggiava nelle piazze, sgomentava il Paese coi suoi furori repubblicani, mentre i monarchici, soprattutto al nord, non potevano neppure fiatare. Nelle file democristiane serpeggiò la paura e prese piede la convinzione e fosse Indispensabile abbracci d’urgenza la causa repubblica per non perdere il favore da masse, a esclusivo e catastrofi vantaggio dell’estrema sinistra.
La campagna elettorale contro monarchia fu condotta, soprattutto al nord, a base di intimidazioni. I socialcomunisti sulle piane proclamavano apertamente, senza perifrasi, l’intenzione di ricorrere alla guerra civile in caso di vittoria monarchica. Pietro Nenni lanciò il famoso slogan: “O la repubblica o il caos”. Pertini reclamava la fucilazione del re. In Emilia si tuonava: “Noi sappiamo che il popolo è in grande maggioranza repubblicano; se poi la monarchia dovesse vincere, vuoi dire che c’è sotto del marcio, e allora ci penserebbe il popolo a prendere il signor Umberto per la giacchetta e a portarlo a piazzale Loreto ». A Frascati Scoccimarro diceva: «Nessuno in Italia potrebbe impedire la rivoluzione nel caso che il referendum fosse favorevole alla monarchia. E Sereni, addirittura alla Consulta: « Se la monarchia dovesse prevalere per scarsa maggioranza, si avrebbe la guerra civile e la monarchia stessa potrebbe resistere soltanto col sostegno delle baionette straniere ».
Questo era il tono della propaganda repubblicana sulle piazze d’Italia. E’ addirittura paradossale la tesi di Romita, il quale afferma nel suo libro (senza peraltro fornire prove serie e concrete) che erano invece i monarchici che si preparavano a rispondere con la guerra civile alla eventuale vittoria repubblicana. Con perfetta coerenza il ministro degli interni (basta leggere attentamente il suo libro per rendersene conto) fronteggiò sempre con estremo rigore i blandi tentativi di manifestazioni monarchiche (mentre spesso e volentieri si chiudeva un occhio sui fatti di violenza a volte raccapriccianti commessi dall’estrema sinistra). Per dare un’idea della “imparzialità” di Romita nei confronti della propaganda monarchica basterà citare un episodio.
Sciabola contro pistola
Una mattina di maggio del 1946 furono sequestrati illegalmente, per ordine del ministro degli Interni, senza autorizzazione della magistratura, ottomila opuscoli di propaganda monarchica ancora giacenti presso una tipografia romana. Il tipografo stesso fu arrestato come un criminale. Intervenne, con la consueta energia, il ministro della Real Casa, Lucifero. Riuscì a ottenere che il tipografo fosse rilasciato. Dopo tre giorni di tentennamenti, Romita fu costretto anche a restituire gli opuscoli e si giustificò affermando che il sequestro era avvenuto “per errore”. Tuttavia, tramite il capo della polizia, fece sapere a Lucifero che era “suo desiderio” che gli opuscoli stessi non venissero in alcun modo diffusi. Lucifero rispose: « Dica a Romita che il desiderio di un ministro, non fondato sulla legge, in regime democratico vale quanto…» (e usò un’espressione pittoresca che qui non possiamo riportare) .
Qualche tempo dopo il referendum, il conte Sforza, aspirante alla presidenza della repubblica, ebbe occasione di dire un giorno a un alto ufficiale di sentimenti monarchici: « Il referendum istituzionale fu una leale vertenza cavalleresca ».
L’ufficiale rispose: “Sì, fu un regolare duello a dieci passi di distanza; ma la repubblica si è battuta alla pistola, mentre la monarchia disponeva soltanto di una sciabola”.
I repubblicani dichiaravano apertamente che non avrebbero rispettato l’esito del referendum in caso di vittoria monarchica, a costo di scatenare il caos e la guerra civile. Tutto questo diffuse fra i simpatizzanti della monarchia un senso di sfiducia, l’amara convinzione di combattere una battaglia inutile, destinata a concludersi in ogni caso con una tragica beffa. Dal canto suo Umberto usava un linguaggio ben diverso. Al collaboratori confidava: « Io non voglio essere il re del cinquantuno per cento; non potrò regnare con animo sereno se non avrò la fiducia di almeno il settanta per cento degli italiani» . Alla vigilia del referendum volle impegnarsi pubblicamente a concedere una “rivincita”, cioè una seconda consultazione elettorale, in caso di vittoria monarchica non schiacciante. Lo fece con un proclama lanciato da Genova agli italiani, proclama che diceva fra l’altro: “Serbando la corona non vorrei che il numero degli insoddisfatti fosse tale da farmi sentire una profonda amarezza, anche perché, pur tra gli assertori delle istituzioni repubblicane, sono numerosi gli uomini di mente elevata e di cuore puro, che con onesta coscienza aspirano a un mutamento radicale nella forma dello Stato.
Chiedo a Umberto di Savoia: « Vostra Maestà non ritiene, oggi, a distanza di tredici anni considerando gli avvenimenti successivi, di avere commesso un errore politico lanciando da Genova quel proclama?»
Risponde sorridendo: «Non potevo commettere errori politici perché non ero un uomo politico, non mi occupavo di politica ».
« Mi sono espresso male, Maestà. Ma qualcuno, lei lo ricorderà, disse che “con Il proclama di Genova il re si presentò agli italiani come un simpatizzante della repubblica”. Si tratta, ovviamente, di un paradosso. Tuttavia non ritiene, Vostra Maestà, di avere giovato a rafforzare il vacillante prestigio della causa repubblicana, proclamando, alla vigilia del referendum, mentre molte coscienze si dibattevano fra incertezza e paura che numerosi italiani “di mente elevata e di cuore puro” aspiravano “con onesta coscienza” a un mutamento istituzionale?» .
Il dono della nonna
« Ammetto senz’altro che quel proclama possa avere fruttato qualche voto in più alla repubblica. Ma non può essere definito errore politico quello che fu un gesto di elementare onestà. Dovevo forse dichiarare che i repubblicani erano tutti o mascalzoni o imbecilli? Fra i repubblicani non mancavano certo gli uomini di mente elevata e di cuore puro: io avevo il dovere di dirlo alto e forte, appunto perché l’atteggiamento di una minoranza facinorosa non gettasse un’ombra infamante su tanti onesti italiani».
«Nei giorni drammatici che seguirono il referendum Vostra Maestà non pensò di avere peccato di eccessivo ottimismo giudicando gli avversari?
«Alcuni avversari che consideravo di “onesta coscienza” agirono in modo che mi stupì dolorosamente. Del resto non mi furono risparmiate amare delusioni neppure da parte di amici che ritenevo fedeli e disinteressati. Ma tutto questo avvenne nell’ambiente politico. Quello che è certo è che la mia fiducia nel popolo Italiano non fu scossa: anzi uscì, se possibile, consolidata da quella triste esperienza. In questi anni di esilio ho avuto innumerevoli occasioni per comprendere e apprezzate i sentimenti e le virtù del mio popolo. Il popolo italiano è il migliore del mondo: sono molto fiero di essere Italiano», dice Umberto di Savoia, e così dicendo si alza bruscamente, mi volta le spalle, per nascondere la sua improvvisa commozione, va a sistemare alcuni libri in uno scaffale. Il salottino nel quale avvengono i nostri colloqui, come lo studio al piano superiore, è pieno di libri rari e preziosi; il re è un bibliofilo appassionato e coltissimo; molti di questi volumi li ha scovati, in questi anni di esilio, frugando nelle botteghe degli antiquari e nelle librerie di Lisbona, di Parigi, di Ginevra; molti altri appartenevano già alla biblioteca di casa Savoia e andarono dispersi negli anni della bufera, ma sono tornati a Umberto, uno alla volta, spesso in circostanze singolari, dall’Italia e anche dall’estero, inviati da amici o da sconosciuti che, trovandoli su una bancarella, ne hanno identificato l’antico proprietario da una dedica sul frontespizio o da un altro segno qualsiasi. Così, ad esempio, alcuni anni fa, il postino di Cascais recapitò a Villa Italia un rarissimo volume di poesie dei Leopardi che il Carducci aveva donato con dedica autografa alla regina Margherita, la quale a sua volta lo aveva donato con una seconda dedica al nipotino Umberto in occasione di una sua promozione scolastica. Il prezioso pacchetto era accompagnato da una lettera di un italiano, che si definiva “un umile topo di biblioteca “, diceva di avere trovato per caso il volume su una bancarella, di averlo acquistato e di avere scoperto soltanto più tardi, sfogliandolo, la duplice dedica sul frontespizio; aggiungeva di averne provato l’una tale emozione che il volume mi è caduto dalle mani”; si era quindi affrettato a fame un pacchetto e a spedirlo al legittimo proprietario».
Il prestito del banchiere
I monarchici nel 1946 non ebbero la possibilità di fronteggiare con mezzi adeguati la propaganda degli avversari. I socialcomunisti erano, come si è detto, padroni delle piazze. Il governo era ostile alla monarchia. A parte questo, Il re non aveva i mezzi materiali per finanziare un’efficace campagna elettorale. Può sembrare inverosimile, ma, nei due anni che fu sul trono prima come luogotenente e poi, per un mese, dal 9 maggio al 13 giugno 1946, come re, Umberto di Savoia si trovò a lottare giorno per giorno contro difficoltà economiche insormontabili. l’appannaggio annuo del sovrano, fissato nel 1919 e rimasto poi sempre immutato fino all’ultimo giorno del regno, superava di poco gli undici milioni. Questa somma doveva servire anche per pagare in parte gli stipendi ai dipendenti della Real Casa. Nel giugno 1944, quando Umberto; nominato luogotenente, tornò a Roma appena liberata e s’insediò al Quirinale, gli undici milioni dell’appannaggio, a causa della svalutazione, avevano già perduto, gran parte dei loro valore. Umberto, inoltre, con la collaborazione di Falcone Lucifero, nuovo ministro della real casa, trasformò subito la reggia in una specie di ricovero per i senza tetto, di mensa per i disoccupati, di ambulatorio con distribuzione di medicinali americani (che a quell’epoca si trovavano solo al mercato nero e a prezzi altissimi) per gli ammalati poveri, di asilo per gli orfani e i mutilatini. Ogni giorno centinaia e centinaia di persone trovavano assistenza al Quirinale. Si trattava di una vastissima e complessa attività assistenziale che assorbì non solo lo svalutato appannaggio ma tutti i beni personali di Umberto.
Per dare un’idea della esiguità dei mezzi di cui i monarchici disponevano per la loro propaganda elettorale basterà citare un episodio singolare. Poche settimane prima del referendum, Enzo Selvaggi, direttore de1 quotidiano Italia Nuova (praticamente la sola arma che i monarchici avevano per rintuzzare le offensive degli avversari), si trovò con l’acqua alla gola: per mandare avanti il suo giornale fu costretto persino a impegnare, per un milione di lire, una collana di perle affidatagli da un amico. Portò lui stesso la collana a un gioielliere romano il quale tuttavia non si accontentò del pegno, ma volle anche delle cambiali, per un valore pari alla somma prestata, affermando che si trattava di una semplice formalità e che non le avrebbe mai presentate a una banca per incasso. Ma il giorno dopo Selvaggi fu informato che le cambiali erano state già presentate per l’incasso. Furibondo si precipitò dal gioielliere, il quale tuttavia voleva ancora trattenere in pegno la collana, fino a quando l’ultima cambiale non fosse stata estinta. Selvaggi urlò: «Lei non sa che questo gioiello appartiene alla regina Margherita: le sue ossa fremono nella tomba, oggi che la sua collana preferita, per dolorose contingenze, è caduta nelle avide mani di uno strozzino». Non era vero, la collana non apparteneva alla regina Margherita: ma l’invettiva di Selvaggi ebbe l’effetto sperato e il gioielliere, impressionato, si affrettò, a restituirla.
Nel mese di maggio il re intraprese una serie di viaggi attraverso l’Italia dalla Sardegna a Napoli, da Torino alla Sicilia, da Genova a Milano e a Venezia. I suoi avversari dissero che si trattavi di un “viaggio elettorale”. in realtà fu quasi un pellegrinaggio che Umberto volle compiere, spinto soltanto dal desiderio di vedere, £orse per l’ultima volta, le città più care al suo cuore. Per affrontare le spese di questi viaggi il re fu costretto a chiedere un prestito di due milioni a un banchiere di Torino, il quale, benché ricchissimo e di sentimenti monarchici; siccome gli affari sono affari, si dichiarò felice e orgoglioso di concedere il prestito, ma chiese adeguate garanzie. Gli fu risposto: “Venga al Quirinale e scelga qualche oggetto di valore”. Così li banchiere si portò via come pegno due quadri del Fontanesi, che furono restituiti quando il re, prima della partenza per l’esilio, saldò anche quel debito.
Il concistoro del 46
Nel febbraio 1946 giunsero a Roma i trentadue nuovi cardinali creati da Pio XII nel recente concistoro. Umberto, secondo la tradizione, inviò il ministro Lucifero a fare la “visita di calare” a ciascuno dei, trentadue porporati. E ciascuno del trentadue porporati volle esprimere a Lucifero la speranza e l’augurio che la monarchia fosse conservata all’Italia. La solenne cerimonia in San Pietro ebbe luogo il 21 gennaio. La famiglia reale, naturalmente, fu invitata. Quando Umberto e Maria José entrarono nella basilica gremita scoppiò un applauso fragoroso e molte voci gridarono: « Viva il re! ». L’applauso si prolungò per alcuni minuti benché Umberto facesse alla folla cenni di tacere per rispetto al luogo sacro. Un nuovo applauso, anche più fragoroso, scoppiò nella immensa basilica, mezz’ora dopo, quando il Santo Padre sostò un attimo davanti alla tribuna reale e benedisse Umberto tre volte. Il giorno dopo i giornali e i comizianti di estrema sinistra criticarono aspramente il Papa, accusandolo di avere voluto assumere il ruolo di propagandista elettorale della monarchia. Il 25 febbraio ebbe luogo al Quirmale un gran ricevimento in onore dei nuovi cardinali. Fu quella l’unica festa data da Umberto nei due anni di suo regno. Nenni e Togliatti rifiutarono l’invito. Anche Romita trovò una scusa per non farsi vedere. Altri ministri, anche repubblicani parteciparono invece al ricevimento. Ancora una volta l’estrema sinistra si scagliò contro il sovrano accusandolo di avere voluto, con quel sontuoso ricevimento ai cardinali, accattivarsi le simpatie del Vaticano e di conseguenza dell’elettorato cattolico (lo dice anche Romita nel suo libro). In realtà si trattò semplicemente di un gesto di cortesia imposto dalla tradizione, il Vaticano, d’altronde, non prese posizione (né poteva essere altrimenti), sul problema istituzionale anche se a Umberto non mancò l’affettuosa simpatia del Pontefice e di quasi tutti (ma non di tutti) i più alti prelati.
Sulla religiosità di Umberto di Savoia sono stati espressi pareri contrastanti. I suoi nemici all’epoca dei referendum andavano dicendo che era arido e scettico come suo padre e che faceva sfoggio di devozione cristiana unicamente per ragioni opportunistiche. Fra molte calunnie cui fu fatto soggetto, fu forse quella che lo ferì più profondamente, L’ho intuito durante i nostri colloqui a Cascais benché Umberto si sia rifiutato di sfiorare questo argomento. La sua fede è semplice e profonda: la custodisce gelosamente al sicuro da pettegolezzi e speculazioni. Sono andato il giorno di Santo Stefano, a insaputa di Umberto, a trovare il parroco di Cascais, padre Antonio Pereira de Almelda. E’ un sacerdote di età avanzata, leggera claudicante, ma solido e vigoroso, come un vecchio pescatore. Mi ha accolto con molta cordialità, affettuosamente, benché mi vedesse per la prima volta. “Un italiano è sempre il benvenuto nella nostra piccola chiesa” mi ha detto. Mi ha fatto visitare la chiesa di Cascais: una chiesetta minuscola, ma ricca di decorazioni e di fregi dorati, di tele dipinte da ignoti artisti del XVII secolo.
“Lei sarà curioso di vedere dove si inginocchia o Rey d’Italia durante le funzioni. Venga, le faccio vedere. Ecco il suo posto: era qui anche la notte scorsa, durante la messa natalizia di mezzanotte”.
Padre Pereira mi ha mostrato, a destra dell’altare, un piccolo inginocchiatoio, con sopra un cuscino rosso consunto. Una colonna lo nasconde parzialmente alla vista dei fedeli che, durante le funzioni, affollano i banchi allineati nella navata.
«O Rey d’Italia », ha continuato padre Pereira, « è il migliore dei miei parrocchiani. Quando è a Cascais viene qui a messa tutte le domeniche, immancabilmente. Di solito viene alla messa delle dieci e trenta. Vi assiste con molta devozione, tenendo fra le mani un libro dì preghiere che, mi hanno detto, gli è molto caro perché gli fu regalato dalla madre in occasione della sua prima comunione. E’ un libro assai consunto dall’uso. Spesso o Rey d’Italia si accosta ai sacramenti. Evita di solito di entrare in chiesa dalla porta principale: passa per la sagrestia e si rifugia in questo angolo semi‑nascosto, per non distrarre con la sua presenza gli altri fedeli. Questo inginocchiatoio non appartiene a lui esplicitamente. Ma la gente di Cascais per un tacito accordo, lo considera riservato a lui. Quando o Rey d’Italia non è a Cascais questo inginocchiatoio resta sempre vuoto. Nessuno si permetterebbe mai di occuparlo. O Rey d’Italia è molto rispettato qui a Cascais. Tutti gli vogliono bene, anche. Dopo la messa, quando esce dalla chiesa, si ferma spesso a chiacchierare con la gente del paese, è amico di tutti, ormai. Spesso i bambini lo circondano e gli fanno festa: ha sempre qualche regaluccio da distribuire. Tutti i poveri di Cascais sanno che o Rey d’Italia ha un gran cuore, e lo so bene io stesso che, incoraggiato dalla sua generosità, gli segnalo spesso qualche caso pietoso, ottenendo sempre il suo provvidenziale intervento benché, a quanto si dice, o Rey d’Italia sta tutt’altro che ricco ».
Il terrore di Romita
Umberto di Savoia, dietro mia insistente preghiera, ha acconsentito, sia pure con una certa riluttanza, a farsi ritrarre in una serie di fotografie con le quali ci proponiamo di mostrare ai nostri lettori i luoghi e i momenti della sua vita di esule. Non ho osato però domandargli di lasciarsi fotografare anche nella chiesetta di Cascais durante la messa. Ero certo che avrebbe risposto di no, con la consueta cortesia, ma col viso improvvisamente serio e impenetrabile. Espressione che assume quando qualcosa lo urta e lo offende. Tuttavia non abbiamo saputo rinunciare alla immagine che pubblichiamo in questo stesso numero pur sapendo che Umberto vedendole si rabbuierà: il nostro fotografo, il giorno di Capodanno, appostandosi nella sagrestia della chiesa di Cascais ha potuto ritrarlo a sua insaputa, attraverso una porticina, mentre assisteva dal suo solito posto alla messa delle dieci e trenta. Quando, dopo la messa, ha visto il fotografo Umberto non ha saputo frenare un lieve gesto di stizza, subito mitigato da un sorriso indulgente.
Il 2 e la mattina del 3 giugno 1946 gli italiani votarono, con schede separate per l’assemblea costituente e per il referendum istituzionale. Ma non si votò nella Venezia Giulia e nell’Alto Adige. E non votarono circa due milioni di italiani (presumibilmente in maggioranza monarchici) non ancora rientrati in Patria dai campi di prigionia, o profughi, o epurati. Circa tre milioni di certificati elettorali, inoltre, restarono giacenti negli uffici comunali, non recapitati a causa del caos burocratico che caratterizzò quella prima competizione elettorale del dopoguerra.
Malgrado tutto, a dispetto della certezza di una Vittoria schiacciante ostentata dai repubblicani durante la campagna elettorale, nella notte fra il 3 e il 4 giugno, quando cominciarono a giungere i risultati parziali del referendum, si profilò sempre più netta la vittoria della monarchia. Lo dice (è interessante citare testualmente le sue parole) lo stesso Romita nel suo libro: « Fu la notte più terribile intorno alle ventiquattro sembrava che ogni speranza fosse perduta. Mi chiusi nelle studio per scorrere e riscorrere quei dati. No non era possibile. Tornai a leggerli, prendendo appunti, facendo calcoli. No, non era possibile. Eppure le cifre erano lì, col loro linguaggio inequivocabile. Niente da fare. Non era possibile, eppure era vero, paurosamente vero: la monarchia si presentava in netto vantaggio. Mi accasciai nella poltrona. Proprio a me doveva dunque toccare tanto scorno? Proprio a me, repubblicano da sempre, sarebbe spettato dire ai lavoratori che l’ultime rappresentante della più inetta casa regnante d’Europa sarebbe restato al proprio posto ed enormemente rafforzato dalla riconferma popolare? E che cosa avrei detto a Nenni, a Togliatti, a tutti gli altri che non volevano l’avventura del referendum? Ero affranto ».
Aveva ben ragione, il povero Romita, d’essere affranto e terrorizzato al pensiero di dover rendere conto delle proprie azioni a Togliatti, agli esponenti più faziosi della estrema sinistra, i quali non volevano il referendum, (avrebbero preferito eliminare alla svelta il re e la monarchia con un atto di “giustizia sommaria”) e che in ogni caso, visto che il referendum s’era dovuto fare, esigevano dal ministro socialista degli interni la vittoria repubblicana ad ogni costo. Il povero Romita (lui stesso scrive nel suo libro che all’estrema sinistra lo accusavano di avere agito nei confronti dei monarchici con troppa indulgenza o debolezza) avrebbe passato un brutto guaio se non fosse riuscito in un modo o nell’altro in questo intento. Per sua fortuna, dopo quelle ore di angoscia e di terrore, prima dell’alba, non si sa come, si sparse la notizia che la monarchia era stata battuta. Come sia avvenuto esattamente, in un paio d’ore, quel capovolgimento della situazione, resterà per sempre un mistero. Il tanto atteso libro di Romita, pubblicato ora con tredici anni di ritardo, non fornisce particolari esaurienti, non dissipa i dubbi. L’ex‑ministro degli interni si limita a dichiarare: “Fu in quelle ore spaventose che si sparse la famosa frottola dei voti repubblicani che avrei avuto nel cassetto. “Romita è troppo furbo”, disse qualche buontempone, “per perdere così; lui è sicuro del fatto suo, ha un milione di voti nel cassetto “. E taluni vi diedero credito, sicché i giornali ne parlarono, ma, ripeto, era una frottola la più grande che mai fosse stata. detta, se di li a poco non fossero giunti altri voti per la repubblica, una valanga di voti, nonostante la mia conclamata furbizia, Umberto sarebbe restato al Quirinale. Ad ogni modo, proprio nel corso della notte in cui la monarchia fu in vantaggio, l’Italia credette che fosse in vantaggio la repubblica .
Romita non aggiunge altro. Lascia senza risposta molte domande inquietanti. Non spiega come e da dove giunse l’improvvisa valanga di voti repubblicani che capovolse il risultato, non attraverso alterne vicende, gradatamente, come sarebbe stato logico, ma d’un sol colpo, quando la vittoria della monarchia sembrava ormai cosa certa. Non dice cosa avvenne esattamente quella notte al Viminale, dove egli e i suoi diretti collaboratori lavoravano in un clima di segregazione e di misterioso isolamento (tanto che quella notte al Viminale fu poi definita “conclave repubblicano”).
Situazione confusa
Nella tarda sera del 3 giugno 1946, mentre affluivano i dati parziali, ci fu un momento In cui la maggioranza monarchica sfiorò il milione di voti. Al ministro Lucifero, che gli portava di ora in ora i nuovi risultati, Umberto disse: “Si sta verificando l’ipotesi prevista dal proclama di Genova; la nostra vittoria si delinea netta ma non abbastanza schiacciante; offrirò un secondo referendum a breve scadenza “.
Poco dopo la situazione divenne confusa e misteriosa. Alle ventidue il Viminale, come si è detto, smise di comunicare i dati che giungevano via via dalle varie regioni. Cominciarono a circolare voci allarmanti: “Vasti movimenti di truppe jugoslave alla frontiera; si teme un colpo di mano su Trieste: forte preoccupazione negli ambienti militari alleati . E poi: “Nenni e Togliatti hanno impartito disposizioni per mobilitare la piazza e impedire a ogni costo la vittoria della monarchia “.
A notte giunse alle redazioni dei giornali, per vie misteriose, la notizia che ormai si delineava una netta maggioranza repubblicana. Alle quattro del mattino Enzo Selvaggi, direttore di Italia Nuova, riuscì a mettersi in comunicazione telefonica con Romita, il quale si mostrò assai imbarazzato e smentì la notizia. Selvaggi allora fece inserire nella prima pagina del suo giornale un trafiletto che diceva: «Probabile che questa mattina i quotidiani socialcomunisti, fiancheggiati da quelli democristiani, annunzino la vittoria della repubblica. La notizia è falsa ».
Molti giornali uscirono la mattina del 4 giugno preannunciando, sia pure con maggiori o minori riserve, il delinearsi della maggioranza repubblicana. Il ministero degli interni (diramò un secco comunicato: « I dati pubblicati dalla stampa circa l’esito del referendum non sono quelli ufficiali e non sono quindi attendibili ». Lo stesso Romita racconta nel suo libro che quella mattina minacciò addirittura i redattori dell’Avanti (il giornale dei suo partito) di farli arrestare tutti quanti se, com’era loro intenzione, fossero usciti a mezzogiorno in edizione straordinaria annunciando senza riserve la vittoria della repubblica. Ma poche ore dopo, nel pomeriggio, il ministro Romita convocò i giornalisti e annunciò che la repubblica aveva vinto con 12.182.855 voti, contro 10.362.709 voti ottenuti dalla monarchia, cioè con una maggioranza di 1.820.146 voti. Aggiunse che mancavano ancora pochi risultati parziali i quali non potevano in ogni caso modificare l’esito. Non diede ragguagli di sorta cima il numero delle schede annullate.
I conti non tornano
Quel repentino capovolgimento della situazione suscitò, inevitabilmente, perplessità e sospetti. Si disse che lo “stregone” Romita teneva in serbo, per utilizzarli in caso disperato, alcuni milioni di voti repubblicani prefabbricati la notte dal 3 al 4 giugno, li gettò nel “calderone” dal quale uscì poi, fumante e pronta per essere servita al popolo italiano, la repubblica. Pare che questa “rivelazione” fosse uscita da ambienti vicini al ministro degli interni: ma non fu possibile accertarne l’attendibilità. Tuttavia trovò riscontro, più tardi, in una coincidenza singolare. Quando finalmente, dopo la partenza del re dall’Italia, furono comunicati i risultati completi del referendum (non soltanto, cioè, il novero dei voti validi, ma anche quello delle schede annullate) si constatò che avevano votato venticinque milioni di italiani. Ora, secondo i calcoli pubblicati prima delle elezioni dall’Ufficio centrale di statistica, gli Italiani con diritto di voto erano circa ventisei milioni complessivamente: e ciò significa (tenendo conto dei tre milioni di certificati elettorali non recapitati e di tutti coloro che per un motivo qualsiasi non avevano potuto o voluto votare) che dalle urne non potevano uscire più di ventuno o al massimo ventidue milioni di schede. Dunque i casi sono due: o nel “calderone” del Viminale furono effettivamente messi a bollire almeno tre o quattro milioni di voti falsi, oppure l’Ufficio centrale di statistica aveva commesso un errore di calcolo madornale.
Chiedo a Umberto se personalmente considera attendibile o romanzesca la voce dei tre o quattro milioni di voti falsi regalati alla repubblica.
Risponde: «Soltanto la Corte suprema di cassazione, se avesse avuto il tempo e la possibilità di scandagliare a fondo, scrupolosamente, liberamente, l’intera montagna di dati elettorali, avrebbe potuto alla fine esprimere un giudizio sicuro. Ciò non fu possibile: alla Corte non fu neppure concesso di esaminare e controllare l’enorme valanga di schede annullate, che in gran parte furono distrutte in loco subito dopo gli scrutini. Senza dubbio l’ipotesi di tre o quattro milioni di voti falsi gettati su un piatto della bilancia è tale da suscitare un profondo turbamento e quasi un senso di vertigine per chi concepisce la risoluzione degli eventi storici democraticamente. L’impostazione che io e i miei collaboratori demmo al referendum, in netta antitesi con il concetto nenniano, non certo democratico, di “o la repubblica o il caos”, era: ” la monarchia o la repubblica secondo la volontà dei popolo italiano democraticamente espressa”. Se ciò non fu, la mia coscienza è perfettamente tranquilla: non so se altri possa dire altrettanto».