Skip to main content
Il mio esilio di Luigi Cavicchioli

Il mio esilio – di Luigi Cavicchioli – 1

By Marzo 8, 2020Gennaio 24th, 2022No Comments

Cascais, dicembre

 

Salgo su un taxi, a Lisbona, e dico all’autista: “Cascais, per favore”.

“0 Rey d’Italia “, dice l’autista;

Non mi rivolge una domanda, mi comunica semplicemente che ha capito dove voglio andare.

Sì, confermo, mi porti a Villa Italia: sa dov’è?

Questa volta ho parlato in francese. L’autista si gira verso di me, mi sorride cordialmente, mi dice, in un francese approssimativo e stentato: “Certo che lo so. Vuole che non sappia dove abita o Rey d’Italia? Tutti gli autisti di Lisbona sanno dove abita o Rey d’Italia. Se uno straniero prende un taxi e si fa portare a Cascais è per vedere dove abita o Rey d’Italia. Per quale altro motivo uno straniero dovrebbe andare a Cascais? E non parlo soltanto degli italiani. L’estate scorsa, mi ricordo, ho portato a Cascais due cinesi; o forse erano giapponesi, non so; comunque anche loro volevano vedere dove abita o Rey d’Italia. Tutti gli stranieri che capitano a Lisbona vogliono andare a Cascais per vedere dove abita « o Rey d’Italia ».

Il mio loquace autista si decide finalmente a ingranare la marcia. Attraversiamo Lisbona. Prendiamo la strada che fiancheggia il Tago, dove il Tago sfocia nell’oceano. Proseguiamo lungo la costa atlantica, la selvaggia e incantevole Costa do Sol.

« Estoril », annuncia il mio autista.

 

Un lindo villaggio: Cascais

 

Abbiamo percorso già una trentina di chilometri da Lisbona. Estoril è un centro turistico internazionale abbastanza rinomato. Ci sono alcuni grandi alberghi. C’è anche una sala de jogos de fortuna ou azar: cioè un casinò, per la verità assai modesto, con tre tavoli da roulettes sui quali, ogni sera, alcune parsimoniose zitelle nordiche, e una coppia di incartapecoriti coniugi inglesi, o due sposini della provincia francese in luna di miele, depongono con trepidazione poche decine o centinaia di escudos.

Percorriamo ancora tre o quattro chilometri. Arriviamo a un villaggio di pescatori: casette modeste ma linde e non prive di grazia, gerani ai davanzali, barche sulla spiaggia e reti stese ad asciugare.

« Cascais », annuncia il mio autista.

Proseguiamo ancora per un breve tratto, oltrepassato il paese. A sinistra la scogliera battuta dall’oceano. A destra la collina in dolce pendio, la vegetazione rigogliosa: palme, pini, oleandri, eucalipti. Questa, fra Estoril, Cascais, Sintra, Guincho, è nota come “la terra delle due primavere”, perché le piante vi fioriscono due volte l’anno. Disseminate per la collina, davanti all’oceano, ci sono ville principesche: c’e anche, nei paraggi, la residenza estiva del presidente della repubblica portoghese.

 

« Siamo arrivati », dice l’autista, fermando il taxi davanti al cancello di una palazzina a due piani.

E’ questa Villa Italia?

«Sì, senhor».

«Grazie: quanto le devo? ».

«Non vuole che aspetti? ».

«No, vada pure ».

«Sa, molti vengono soltanto per vedere la casa dove abita o Rey d’Italia: fanno qualche fotografia, magari strappano un rametto dalla siepe, poi tornano subito a Lisbona ».

«Io resto qua ».

Ha un appuntamento con o Rey d’Italia? »

«Sì.».

«E’ la prima volta, vero, che incontra o Rey d’Italia? »

«Si, è la prima volta.»

«Ma non si preoccupi, vedrà. O Rey d’Italia è molto cordiale e simpatico, non fa soggezione, è gentile con tutti, anche coi pezzenti e i seccatori, mi informa premurosamente l’autista».

« Lei lo conosce bene o Rey d’Italia? », gli domando, un po’ divertito dal suo piglio autorevole e protettivo.

Personalmente no, non l’ho mai visto, ma lo sanno tutti che o Rey d’Italia è simpatico: ne di cono tutti un gran bene, qui in Portogallo. E in Italia? ».

«Anche in Italia ne dicono tutti un gran bene », balbetto.

«E allora perché lo avete mandato via? » mi domanda a bruciapelo l’autista, non comprendo se per candida curiosità o con una punta di ironia.

 

Il cane di Gabriella

 

Il loquace autista, quando Dio vuole, se ne va. Resto solo in mezzo alla strada. Villa Italia non è certo una reggia. E’ una casa rustica, modestissima, minuscola, ma alquanto romantica. A pochi passi dalla strada, protetta soltanto da un muretto, alto non più di cinquanta centimetri, al quale si appoggia una siepe di sempreverdi, il cancello è spalancato. Attorno alla palazzina ci sono alcuni pini che il vento della costa atlantica ha fatto crescere inclinati e contorti come ulivi. Il tetto è di tegole rosse, con un comignolo dal quale, in questo momento, esce un filo di fumo. Al centro della facciata c’è una specie di veranda, assai suggestiva, tutta arabescata dai tralci di una vite americana.

 

Guardo l’orologio: le dieci e cinque. Il colloquio con Umberto di Savoia è fissato per le undici. Mi inoltro sulla scogliera, dall’altra parte della strada. L’oceano, attraverso misteriosi cunicoli, penetra in profondità fra gli scogli neri e frastagliati, mugghia e ribolle qua e là, erompe spumeggiando dai crepacci. Poco lontano c’è la famosa Boca do Inferno, una ciclopica caverna il cui nome è giustificato in pieno dalla impressionante furia delle acque che perennemente la flagellano. Questo è il paesaggio, orrido e affascinante, che si scorge dalle finestre di Villa Italia.

 

Mi aggiro fra gli scogli, senza perdere di vista la palazzina. Le finestre sono chiuse. L’unico segno di vita è il pennacchio di fumo che continua a uscire dal comignolo. Sulla strada passa di quando in quando un’automobile. Arriva una sontuosa Cadillac: sorpassa la palazzina di trenta o quaranta metri, si ferma, retrocede adagio, si arresta davanti al cancello di Villa Italia. Ne scendono quattro persone: una coppia di mezza età e due ragazzi, probabilmente genitori e figli. Si tratta (è facile intuirlo) di facoltosi turisti americani. Si guardano attorno perplessi.

 

«O Rey d’Italia? », mi urla uno dei ragazzi indicando la palazzina

 

I quattro americani si scatenano. Tutti e quattro hanno la macchina fotografica e tutti e quattro la maneggiano con prodigiosa sveltezza. Cominciano a fotografare Villa Italia da tutte le posizioni, con fulminei spostamenti, da vicino e da lontano, da destra e da sinistra, stando accovacciati o inerpicandosi sugli scogli più alti: in fatto di agilità la coppia anziana non ha nulla da invidiare ai due ragazzi. Sembrano marines impegnati in una azione di sorpresa subito dopo uno sbarco. Un cane di pelo rossiccio sbuca da dietro la palazzina, avanza lento e pacifico sulla ghiaia, si ferma fra i due pilastri del cancello, guarda incuriosito (e mi sembra quasi divertito) le evoluzioni dei quattro americani. Saprò in seguito che si tratta di Giambo, il cane di razza esotica regalato alla principessa Maria Gabriella da una sua amica portoghese; pare che nel Sud Africa i cani di questa razza siano ferocissimi e capaci di aggredire persino i leoni; ma Giambo è il più mansueto degli animali. Gli americani, eccitatissimi, puntano gli obiettivi sul cane e gli scattano in un baleno decine e decine di foto. Giambo, per un po’, compiacente, si lascia fotografare: poi, con aria annoiata, volta la schiena e se ne va.

Mancano pochi minuti alle undici quando varco la soglia di Villa Italia. L’ingresso non è al centro della facciata, ma sulla sinistra. Cinque gradini di pietra e poi una semplice porta di legno chiaro, a un solo battente, piccola e bassa: ho l’impressione che Umberto, alto com’è, debba curvarsi un poco per entrare e per uscire. Incastrata in un pilastro del cancello c’è una placca di metallo col pulsante del campanello elettrico: né un nome né una indicazione qualsiasi. Ma vedo che qualcuno (senza dubbio un monello di Cascais) con un chiodo o con la punta di un temperino ha inciso sulla placca di metallo due parole: “O Rey”. La grafia è stentata e infantile, le due parole sono appena leggibili. Al domestico che mi apre la porta chiedo se conosce l’autore di quella gentile monelleria. Il domestico non aveva mai fatto caso a quel graffio.

Nessuno a Villa Italia aveva mai fatto caso a quel graffio.

 

La contadina e il Re

 

Aspetto pochi istanti in anticamera. Poi la porta che mette nel piccolo salotto‑studio di Umberto al pianterreno (lo studio vero e proprio è su al primo piano) si apre e ne esce il visitatore ricevuto prima di me. E’ un vecchietto portoghese vestito assai dimessamente. Sulla soglia del salotto‑studio continua per un pezzo a fare inchini e a balbettare frasi di ringraziamento. E’ tutto traboccante di felicità e di gratitudine. In anticamera, tanta è la sua confusione, si inchina anche davanti a me, ringrazia anche me, tenta di baciarmi le mani. Poi tenta di baciare le mani al domestico che lo accompagna all’ uscita. Il vecchietto, evidentemente, deve avere appena ricevuto  una prova concreta di quella generosità per cui o Rey d’Italia è popolarissimo in Portogallo.

 

Ora tocca a me. Sono un po’ preoccupato e ripasso mentalmente alcune regole di etichetta: non interrogare, almeno durante questo primo incontro, ma unicamente rispondere alle domande; non dire “lei”, ma sempre e soltanto “Vostra Maestà” non gesticolare controllare la mimica e la voce, parlare con tono grave e volto impassibile. Ma sulla soglia del salotto‑studio Umberto mi accoglie con la mano tesa e con una esplosione di cordialità così spontanea che ogni mia preoccupazione svanisce di colpo e dimentico il cerimoniale. E’ sorprendente come Umberto riesce a rendere “genuine”, fin dal primissimo istante, l’incontro con una persona che vede per la prima volta.

 

In seguito, un suo antico collaboratore, al quale ho manifestato questa mia impressione, mi ha detto: «Forse è proprio questo uno degli aspetti più straordinari del personalità del re. Apprezzamenti di questo genere hanno di soli un certo odore di muffa e di retorica. Ma nel caso di Umberto si tratta di una dote autentica e fuori del comune. Un incontro con lui, anche brevissimo, non è mai banale, non si riduce mai ai soli convenevoli goffi e alle solite frasi inutili: è sempre un incontro con un vecchio amico. L’interlocutore sia che si tratti di uno scienziato o di un artista o di un uomo politico, sia che si tratti di un operaio trova subito un sacco di cose interessanti da dire, senza sforzo, con disinvoltura e persino confidenzialmente, senza tuttavia sconfinare mai nella mancanza di riguardo anche se ignora le regole del cerimoniale. Vuole che le racconti un episodio curioso? Un giorno capitò a Cascais una comitiva di italiani d’un paese del Meridione. C’è con loro una vecchia analfabeta per la verità, un po’ svanita la quale, appena fu davanti al re gli rivolse la parola col tu e nel suo incomprensibile dialetto.

Umberto (cosa che pochi sanno) è capace di parlare tutti i dialetti letti italiani: rispose quindi alla vecchia nel suo stesso dialetto e si informò della sua salute. La vecchia prese la palla al balzo, cominciò una interminabile lagna, elencò tutti i suoi innumerevoli acciacchi: a un  certo momento sollevò persino il sottanone per mostrare le grosse vene varicose che l’affliggevano.

 

La nostalgia di Roma

 

Il re si chinò a esaminare coscienziosamente le vene varicose della vecchia. Ebbene, può sembrare inverosimile, ma tutto questo avvenne in modo così naturale, così genuino, così poco di maniera, da non sembrare affatto sconveniente o grottesco, come se mostrare le vene varicose al sovrano fosse una categorica norma del cerimoniale. Mi creda: è impossibile sentirsi a disagio davanti a Umberto, ma è altrettanto impossibile mancargli di rispetto. Un giorno capitò a Cascais un repubblicano sfegatato, il quale chiese una udienza col deliberato proposito (lo confessò lui stesso al termine del colloquio) di comportarsi in modo insolente: ma quando si trovò di fronte a Umberto, sorridente e cordiale come al solito, dimenticò di colpo tutta la sua baldanza, fu loquace ma rispettosissimo, e al momento dei congedo si esibì in una serie di inchini più profondi di quelli del più devoto monarchico ».

 

Ci sediamo su poltrone di velluto grigio nel piccolo salotto‑studio. Umberto di Savoia indossa un abito “fumo di Londra” a un petto di taglio italiano con cravatta blu. Colpisce subito il suo aspetto straordinariamente giovanile: malgrado la quasi completa calvizie, dimostra almeno quindici anni meno dei cinquantacinque che ha.

 

« E così, quando è partito da Roma? », mi domanda, simulando noncuranza.

 

« Ieri, Maestà: proprio a quest’ora stavo salendo sull’aereo a Ciampino ».

 

«Com’era il cielo? ».

 

«Sereno, senza una nuvola ».

 

«Ha visto che meraviglia è Roma vista dall’alto in una giornata di sole? ».

 

«Sì, Maestá. Il 13 giugno 1946, al contrario, quando lei sorvolò Roma per l’ultima volta, il cielo era tempestoso, se non sbaglio ».

 

« Infatti; ma Roma era bella ugualmente ».

 

« Che cosa ricorda più intensamente, Maestà, a distanza di tanti anni, del suo stato d’animo nell’attimo della partenza? » .

 

« Ricordo un senso di smarrimento quasi infantile. Ricordo che tenevo sulle ginocchia, stringendolo con tutte e due le mani, un povero vasetto da marmellata contenente un pugno di terra italiana: era il dono di una contadina giunta di corsa, trafelata, emozionata, proprio mentre mi accingevo a salire sull’aereo. Ero incapace di pensare. Avevo la sensazione di essere immerso in un clima irreale. Poi mi resi conto che l’aereo decollava. Vidi Roma, laggiù, in un velo grigio di pioggia: di colpo riacquistai, acutissimo, il senso della realtà. E in quel momento, lo confesso, non fui capace né mi curai di trattenere le lacrime ».

 

Inizia così il primo di una serie di colloqui che Umberto di Savoia mi ha accordato, in varie riprese, fra ottobre e dicembre. Mi sono proposto, attraverso questi colloqui, di scoprire aspetti ignoti della sua personalità, di raccogliere le sue opinioni su argomenti di palpitante interesse, di ricostruire fedelmente le vicende della sua vita dal trono all’esilio, le tappe dell’amare cammino che, dal Quirinale, lo ha condotto qui, in questo piccolo salotto‑studio, In questa modesta villetta davanti all’Atlantico.

 

Un colpo di stato?

 

Il caso mi ha dato lo spunto per rammentare subito la data fatale: il 13  giugno 1946 giorno in cui Umberto II fu indotto da eventi drammatici a partire dall’Italia in volontario esilio.  E’ questa una pagina di storia che il popolo italiano non conosce ancora esattamente in tutti i suoi retroscena. Ma ormai sono passati più di tredici anni e le passioni si sono placate: i partiti democratici italiani, attraverso mille difficoltà, acquistando innegabili benemerenze, hanno saputo condurre il Paese fuori dal caos, se non proprio del tutto al sicuro dai pericoli della faziosità politica. Oggi possiamo scriverla fino in fondo, serenamente, senza reticenze, questa pagina di storia.

 

Non c’é dubbio che, dal punto di vista giuridico, la repubblica italiana non ha tutte le carte in regola. La proclamazione ufficiale dell’esito dei referendum istituzionale spettava per legge soltanto alla Corte suprema di cassazione. E invece (più avanti ricostruiremo quelle drammatiche giornate) fu il governo che, senza attendere la decisione della Corte, nel timore non infondato che fosse favorevole alla monarchia, proclamò la repubblica e spodestò il sovrano, mettendo la magistratura di fronte al fatto compiuto. Fu un colpo di Stato? Oggi ogni italiano, sia che abbia parteggiato per la repubblica sia che abbia parteggiato per la monarchia, può e deve giudicare imparzialmente i fatti del giugno 1946. Non si tratta più di questioni politiche, ma di storia. Oggi è lecito (e possibile) addurre giustificazioni di parte ai fatti: ma non è lecito negarne la sostanza.

 

Umberto di Savoia, malgrado il suo distacco nel valutare avvenimenti che gli furono sfavorevoli, malgrado la sua cautela e indulgenza nel giudicare uomini che gli furono ostili, rispondendo, sia pure con una certa riluttanza, alle domande che gli rivolgo, esprime alcuni giudizi netti e inequivocabili.

«Vostra Maestà ritiene che “colpo di Stato” sia l’espressione esatta per definire l’azione del governo nella notte fra il 12 e il 13 giugno 1946? ».

« Nel proclama che lasciai agli italiani al momento della partenza dicevo fra l’altro: “Improvvisamente, questa notte, in spregio alle leggi e al potere indipendente e sovrano della magistratura, il governo ha compiuto un gesto rivo­luzionario assumendo con atto unilaterale e arbitrario poteri che non gli spettano e mi ha posto nell’alternativa di provocare spar­gimento di sangue o subire la violenza”. A tredici anni di distanza non ho motivi per mutare opinione: anzi gli avvenimenti successivi al 13 giugno l’hanno, se possibile, consolidata, con l’apporto di nuove prove inconfutabili ».

 

Volli evitare la guerra civile

 

Tuttavia nel proclama non fi­gurano le parole “colpo di Stato”, mentre mi risulta che figuravano nella brutta copia del proclama stesso che Vostra Maestà compilò con l’ausilio di alcuni consiglieri ».

« Esatto: fu quella la prima espressione che venne in mente       ai miei collaboratori e fu inserita nel testo provvisorio del proclama.

Ma lo stesso volli che fosse sosti­tuita con ” gesto rivoluzionario”       nella stesura definitiva ».

« Lei attribuiva dunque significati diversi alle due espressioni? ».

«Vede, le parole “colpo di Stato” hanno un significato sinistro, ferreo e inequivocabile. Ebbi timore che rappresentassero per i miei sudditi fedeli un incitamento alla guerra civile, un categorico impegno morale in questo senso. Volli perciò ripiegare su “gesto rivoluzionario”: parole dal significato    forse un po’ più vago, che lascia­vano la scappatoia di una più elastica interpretazione».

Quindi il significato delle due espressioni è sostanzialmente lo stesso? ».

«Io dovevo dire la verità agli italiani, ma con parole che non rappresentassero per i miei fedeli l’impegno categorico di scatenare   la guerra civile. Per questo con lo stesso proclama volli sciogliere dal giuramento di fedeltà alla Corona coloro che lo avevano prestato ».

Oggi che In Italia il pericolo della guerra civile (almeno di una guerra civile scatenata dai monarchici) non esiste più, Vostra Maestà ritiene dunque di poter usare l’espressione “colpo di Stato” per definire l’atto di nascita della repubblica italiana? ».

«Purtroppo non posso negare la verità; il governo De Gasperi attuò nel giugno 1946 un vero e proprio colpo di Stato, anche se di tutto cuore gli concedo l’attenuante di avere agito in circostanze eccezionali, in un clima di ardenti e incontrollabili passioni».

« Molti ritengono che se Vostra Maestà, anziché cedere al sopruso e partire per l’esilio, avesse sconfessato il governo e atteso a Roma la decisione della Corte Suprema, la sorte della monarchia sarebbe stata diversa ».

 

«E’assai probabile. Nel giugno 1946 avevo, per ammissione dei miei stessi avversari, forze più che sufficienti ber difendere il trono: bastava una mia parola per mobilitarle. Ma questo voleva dire scatenare una guerra civile, più o meno lunga, più o meno sanguinosa. Mille volte meglio prendere la via dell’esilio che restare su un trono insanguinato. Il sacrificio della monarchia mi sembrò un prezzo accettabile, se non proprio irrisorio, per risparmiare altre sventure al mio Paese ancora sanguinante da tutte le sue innumerevoli ferite. Mi creda, non sono parole: avrei accettato senza esitare, non solo l’esilio, ma la morte più atroce e miseranda, per impedire che anche un solo Italiano fosse ucciso da un altro Italiano» .

 

Umberto di Savoia pronuncia queste ultime frasi senza ombra di retorica, senza solennità, anzi con una specie di pudore o timidezza. Mentre parla, non saprei dire perché, avverto nelle sue parole l’eco di una sincerità che mi appare ovvia e quasi fatale. Mi sembra di intuire perché la psicologia di un re non può essere misurata col metro dei comuni mortali. Un re può essere buono o cattivo, può agire saggiamente o commettere errori: ma le sue azioni, giuste o sbagliate che siano, trascendono sempre dai motivi personalistici hanno un più vasto respiro, una visuale che abbraccia tutto il suo regno e il suo popolo. Qui sta la fondamentale differenza fra l’istituto monarchico e quello repubblicano. Un presidente di repubblica è spesso un uomo che ha trovato nell’ambizione politica l’energia per salire sempre più in alto; ha dovuto lottare contro agguerriti rivali che tendevano alla stessa meta; durante l’ascesa a potere ha contratto impegni e se cumulato spiegabili risentimenti. Un re si trova fin dalla nascita (per volere divino o comunque per evento ineluttabile) sul più alto gradino della gerarchia: quindi non ha mete da raggiungere né ambizioni da soddisfare, non ha rancori da sfogare né “clientele” da favorire. Consapevole di ciò per educazione e più ancora per istinto atavico, è portato automaticamente a ignorare sé stesso, ad agire, in ogni circostanza, freddamente e serenamente, senza impulsi emotivi e preoccupazioni personalistiche, soltanto in funzione del suo Paese e del suo popolo: può commettere errori, ma non per moventi egoistici.

 

Il libro di Romita

 

Ma a questo punto, prima di riprendere il resoconto del colloqui è opportuno ricostruire le drammatiche vicende che nel giugno 1946 portarono il re in esilio: lo faremo sulla scorta di documenti e testimonianze inconfutabili, svelando fatti e retroscena ancora ignoti alla maggior parte degli italiani.

Romita, che all’epoca del referendum era ministro degli Interni manifestò più volte, negli anni successivi, l’intenzione di pubblicare un libro col quale si proponeva d dimostrare che “alla monarchia non fu rubato un voto e alla repubblica non fu regalato un voto”. Ma gli anni passavano e Romita non si decideva a tirare fuori da cassetto il libro tante volte preannunciato: evidentemente si rendeva conto di non avere argomenti validi e decisivi da mettere sul tappeto. Il 15 marzo 1958 Romita è morto  e il libro era ancora in fondo al cassetto. Soltanto ora suo figlio lo ha dato alle stampe: ma tutto sommato non ha reso un buon servizio al padre. Il libro non porta certo elementi nuovi o prove concrete a suffragio della validità del referendum. Anzi contiene varie confessioni o disinvolte omissioni che, come vedremo via via sembrano fatte apposta per insinuare dubbi e perplessità. Romita fu indiscutibilmente un galantuomo di temperamento impulsivo e generoso: ma non riuscì a sottrarsi al clima di faziosità imperante nel 1946. Il suo stesso libro ci offre più di una testimonianza sconcertante. Parlando, ad esempio della notte immediatamente successiva alle votazioni, quando si attendevano ancora i primi risultati, Romita ammette: «Nella solitudine del mio studio, l’idea di una vittoria monarchica mi aveva posto profondi problemi di coscienza che sono ben lieto di non aver poi dovuto affrontare. Sarei riuscito a dominare il mio spirito di parte? Onestamente, dopo profonda riflessione, posso dichiarare che vi sarei riuscito. Ma non chiedetemi quanto mi sarebbe costato ». E’ lecito restare, quanto meno, dubbiosi, circa l’imparzialità di un uomo che ha bisogno di “profonde riflessioni” a posteriori per convincersi che sia pure a prezzo di inenarrabili sofferenze, avrebbe avuto la forza d’essere imparziale.