Le ultime parole di Vittorio Emanuele III: “ho tante cose da fare”
L’ultima giornata di pesca
La famiglia reale riunita attorno all’albero di Natale
La distribuzione dei doni interrotta da un improvviso malore: il medico diagnostica congestione polmonare
Due giorni dopo, un attacco di trombosi
Alle 14,20 del 28 dicembre 1947 il Sovrano dal lungo regno tempestoso ritirò la mano da quelle della regina, abbassò le palpebre e silenziosamente spirò
Spirava un vento fortissimo. Lontano il mare era sconvolto da onde nerastre che s’inseguivano e s’accavallavano, rotte ogni tanto da violenti, altissimi spruzzi di schiuma. Sembrava che dovesse piovere da un momento all’altro. Invece, verso mezzogiorno, il maestrale spazzò le nuvole in cielo. Tornò il sereno. Il sole illuminò, quasi all’improvviso, l’intero quartiere di Smouha, tutto ville e giardini. Parve allora che, d’un tratto, la primavera fosse tornata ad Alessandria d’Egitto. Da due giorni, invece, era cominciato l’inverno, un inverno particolarmente triste per gli ospiti di Villa Jela.
L’ultima giornata di pesca
Quel giorno, dunque, subito dopo colazione, Vittorio Emanuele disse, al barone Tito Torella di Romagnano, suo ultimo aiutante di campo «Vuole che facciamo un giretto? Il tempo s’è rasserenato. Forse si potrebbe andare a pescare». Torella osservò: «C’è troppo vento, fa freddo. Non sarebbe meglio fare una passeggiata invece che rimanere fermi un paio, d’ore sul molo?». «Credo che lei abbia ragione», concluse l’ex Sovrano. «Ad ogni modo proveremo a vedere se qualche pesce vorrà abboccare ». E sorridendo guardò Elena di Savoia.
Nessuno avrebbe immaginato che quella giornata di pesca sarebbe stata l’ultima per Vittorio Emanuele. Cinque giorni dopo l’ex Sovrano si spegneva colpito da un violento attacco di trombosi cerebrale. S’era sentito leggermente indisposto il 23 dicembre 1947, appena tornato a Villa Jela dalla passeggiata compiuta lungo il molo del porto est, assieme al barone Tito Torella di Romagnano. «E’ nulla», aveva detto Vittorio Emanuele a Elena. di Savoia. «Ho solo un po’ dì freddo. Aveva ragione Torella: sul molo tirava un vento troppo gelido». Un domestico egiziano (uno dei, tre “suffraghi” per i quali Elena di Savoia aveva disegnato la livrea: camice lungo color blu savoia, fregi rossi, cintura rossa, tarbusc in capo e ai piedi babbucce ricamate) accese una stufetta a petrolio ho, ma poco dopo Vittorio Emanuele chiese che venisse spenta. Le esalazioni della stufa gli procuravano un malessere strano.
Quella sera Vittorio Emanuele non cenò. Volle però lo stesso fare compagnia, a tavola, a Elena, alla contessa Jaccarino, al barone Torella. Contrariamente al solito, subito dopo si ritirò. Né volle assistere, come ormai faceva da diversi mesi, al “solitario” dalla Regina, unico suo svago serale.
Attorno all’albero di Natale
L’indomani, vigilia di Natale si riunirono a Villa Jela tutti i parenti. C’era, al completo la famiglia Calvi di Bergolo (Jolanda, con il marito Carlo e i figli Maria Ludovica, Vittoria, Guja e Pier Francesco) e c’erano Giovanna di Bulgaria, con i figli Maria Luisa e Simeone, i principi Maurizio e Enrico d’Assia – figli maggiori della sventurata principessa Mafalda, morta a Buchenwald – la granduchessa Militza, sorella maggiore di Elena, vedova del granduca Pietro Nikolaievich, cugino dell’ultimo zar, infine il principe Roman Romanov con la moglie Praslovia e i figli Nicola e Dimitri.
Eletta di Savoia aveva personalmente preparato l’albero di Natale e lo aveva dotato di piccoli doni: i pacchetti pendevano dai rami. Su ognuno era scritto il nome del destinatario.
Sebbene si sentisse piuttosto male. Vittorio Emanuele III non volle turbare la festa. Personalmente anzi aiutò la Regina a staccare i doni e a distribuirli. Offrendo un pacchetto a Simeone di Bulgaria (il bambine aveva da poco compiuto undici anni) disse, fingendo un tono burbero: «E mi raccomando lascia stare i gatti ».
L’anno prima, per Natale, il nonno aveva regalato al nipotino un fucile a piumini. Il dono aveva fatto felice il piccolo Simeone. Ma da allora i gatti del quartiere Smouha si erano visti dichiarare guerra. Le proteste avevano cominciato a piovere, finché Giovanna di Bulgaria non aveva preso una decisione radicale: aveva sequestrato il fucile al figlio provvedendo a rinchiuderlo in un cassetto.
Appena ricevuto il nuovo dono, Simeone si diede subito da fare per sciogliere i nodi e aprire la scatola: trovò una pistola a tamburo, bellissima, degna di un cow-boy. Era però ,una pistola ad acqua, «Con questa», gli disse sorridendo non senza fatica il nonno (Vittorio Emanuele sembrava ancora più stanco, più pallido alla luce delle cento candeline che illuminavano l’albero di Natale), «tu potrai continuare la guerra ai gatti egiziani». Avrebbe voluto aggiungere qualche cosa d’altro, ma un capogiro lo costrinse a cercare qualcuno a cui appoggiarsi; Elena di Savoia che gli era accanto lo sostenne, mentre gli chiedeva ansiosamente «Ti senti male?». Vittorio Emanuele guardò la Regina ad occhi sbarrati, come se non la vedesse. Ma si riprese immediatamente. Mettendosi a sedere osservò «Non è nulla sono solo un po’ stanco. Né volle che la Regina lo accompagnasse dal salone al piano superiore ove si trovavano gli appartamenti occupati dai conti di Pollenzo. I due appartamenti comprendevano ciascuno uno studio, una camera da letto con attigua sala da bagno e uno stanzino.
Mezz’ora più tardi Elena di Savoia salì per andare a trovare il marito. Le bastò un’occhiata per avvertire che il malore di Vittorio Emanuele era tutt’altro che insignificante. Fu subito chiamato il medico di casa, il dottor Abdel Razek Bey, capo della sezione malattie interne dell’ospedale egiziano di Alessandria, un clinico notissimo anche in campo internazionale.
Congestione polmonare
Abdel Razek Bey comprese subito di trovarsi davanti a un ammalato colpito da gravissima congestione polmonare. Prescrisse delle applicazioni locali. dei medicamenti per bocca e delle iniezioni di penicillina. Verso sera arrivarono a Villa Jela due infermiere. Più tardi il telefono comincio a squillare. Erano illustri personalità egiziane che chiedevano notizie (Faruk si teneva continuamente in contatto) e alcuni tra i più noti esponenti della nostra collettività. Prima dalle 21 telefonò anche Re Zog d’Albania dal Cairo, dove egli risiedeva abitualmente. Questa telefonata con meravigliò nessuno. Ormai tutti a Villa Jela sapevano che la pace fra i due Sovrani era stata fatta un anno prima, quando Faruk aveva offerto un pranzo nella sua residenza di Montazah (Alessandria) proprio per suggellare la fine di ogni malinteso.
Fu nell’estate del ’47 che il Re d’Egitto, approfittando della presenza in Alessandria dei nostri Reali, di quelli d’Albania e della Regina Giovanna di Bulgaria. pensò di riunire tutti a un ricevimento di carattere intimo. L’incontro avvenne il 18 luglio e fu tenuto segreto alla stampa. Il palazzo di Mortazah era a quel tempo un grandioso edificio barocco, ricco di marmi e di colonne, con ampi saloni sfarzosamente, arredati. Era circondato da un vastissimo parco che si estendeva fino al mare. Qui convennero dunque Vittorio Emanuele (la Regina Elena non poté intervenire per una improvvisa indisposizione), la Regina Giovanna di Bulgaria, Re Zog d’Albania con la Regina Geraldina, i1 principe ereditario d’Albania Alessandro, due sorelle di Re Zog, i conti Calvi di Bergolo con i loro figlioli, i principi Romanoff e, infine, alcune persone delle rispettive Corti.
L’accoglienza di Faruk fu cordialissima, regale. Accanto al Re d’Egitto erano le sorelle, l’ex imperatrice Fawzia e principessa Faizah i principi Omar el Faruk e Sef El Din, Pulli Bey (un italiano che era divenuto capo dell’ufficio affari privati del Sovrano) e alcuni cerimonieri di Corte. Seguì un tè, che venne servito in tazze vasellame e posate d’oro massiccio mentre, la banda della marina militare egiziana eseguiva un concerto di musica italiana in mezzo al quale non mancarono le canzonette napoletane.
A completare la riconciliazione mancava solo un altro Re. Umberto. Un secondo incontro venne preparato mesi dopo. Fu il colonnello Dinitch, dell’esercito reale jugoslavo, emissario di Re Pietro, ad organizzare con tatto e riservatezza ogni cosa. Umberto arrivò ad Alessandria per visitare i suoi augusti genitori. Poi un pomeriggio si recò accompagnato dal fedele e devoto suo segretario particolare, marchese Carlo Graziani, a Ramleh deve risiedevano d’estate i Sovrani d’Albania. Qualche giorno dopo, a loro volta, Re Zog e la Regina Geraldina fecero visita ai nostri Sovrani e da allora vi fu, tra le famiglie esuli, un susseguirsi scambievole di visite e di cortesie che valse a stabilire tra esse amichevoli rapporti.
Re Zog ricorda
Il ricordo di quelle giornate perdura vivissimo nella memoria di Re Zog attualmente residente a Cannes, nel sobborgo California, in Rue Albert I. « Era un grande Re» ci ha detto Zog, da noi avvicinato recentemente.«Sì, Vittorio Emanuele fu un Sovrano tutto di un pezzo, che servì lealmente il suo Paese. Io lo conobbi solo in Egitto giacché prima di allora mi era sempre mancata l’opportunità di un incontro. Né l’azione militare intrapresa dall’Italia nel ’39 aveva scavato tra noi un solco tale che non fosse possibile divenire amici. Otto anni dopo, quando entrambi ci trovavamo esuli in terra egiziana Dei Savoia parlerò nelle mie “memorie” che sto scrivendo da diverso tempo. Ricorderò allora il nostro ultimo incontro. pochi giorni prima che Vittorio Emanuele cadesse ammalato. Fu, se ben ricordo, ai primi di dicembre del ’47, quasi sotto le feste natalizie».
Re Zog ha buona memoria. Fu un Natale ben triste quello che i Savoia si prepararono a trascorrere il 25 dicembre 1947. Alle undici, ci fu la Messa celebrata da padre Ludovico Foschi in una stanzetta della villa, adattata a cappella. Assistettero solo Elena di Savoia, la contessa Jaccarino, il barone Torella, la fedele cameriera della Regina Rosa Gallotti e l’amministratore. Più tardi un po’ tutti si alternarono al capezzale dell’infermo. Al barone Torella, Vittorio Emanuele III mormorò indicando con gli ,occhi le due infermiere: «Chi sa quelle donne che porcherie mi mettono in corpo con quella siringa!». Poi cambiando argomento chiese: «Quante lettere, quanti telegrammi di augurio sono già arrivati?». Torella gliene mostrò qualcuno Erano, per lo più messaggi inviati da sconosciuti, umile gente che non aveva dimenticato il Sovrano in esilio. Mancavano però “i grossi nomi”. «Già» osservò l’ammalato, «chi dovrebbe ricordarsi di me non lo fa. Viviamo proprio in uno strano mondo!»
Con Elena di Savoia, invece, Vittorio Emanuele parlò di pesca, «Fra qualche giorno», disse, «torneremo sulle rive del lago di Edku. Vedrai che pesci porterò a casa , Quello della pesca era uno degli hobbies che i Savoia avevano in comune. Però mentre per Vittorio Emanuele il rimanere per ore e ore immobile ai bordi di un fiume, cullato dalla dondolante altalena di un battello rappresentava una sicura evasione spirituale, un riposo per i nervi (sempre controllati e proprio per questo bisognevoli di una naturale distensione), per Elena di Savoia la pesca era una divertente gara tra una guizzante trota, tra una astuta creta e un ondeggiante, invitante amo, manovrato da una mano esperta.
Un tempo, vent’anni prima, a Sant’Anna di Valdieri le stagioni di pesca dei Sovrani e dei Principi si erano sempre concluse con una targa ricordo: riproduceva la sagoma di una trota e recava inciso il nome dal fortunato pescatore che era riuscito a superare gli altri strappando alle limpide acque del torrente Gesso un esemplare, risultato, sulla bilancia, il più grosso.
Le targhe di S. Anna di ValdieriQueste targhe (che molti credevano d’argento, mentre erano d’alpacca) luce no sempre conservate da Elena di Savoia. Partendo per l’esilio la Regina d’Italia le aveva portate con sé e messe a Villa Jela tutt’intorno alle pareti, nella sala da pranzo. Guardare quei singolari trofei voleva dice per Elena, Vittorio Emnuele riandare con la memoria ai tempi felici. Ad una targa era legato l’ultimo ricordo italiano di pesca della Regina. Nel giugno del ’43 Elena di Savoia era andata a Fiumicino, lungo la foce del Tevere. Qui si era messa ad attendere con infinita pazienza il passaggio di qualche pesce, quando un marinaio senza averla riconosciuta, le aveva detto: «A Signo’ non pigli niente?». E lei di rimando: «Scommettiamo tu dieci lire ed io cento?». Poco dopo aveva preso un’anguilla enorme. Più tardi aveva voluto riprodurne la sagoma e segnarne il peso sulla solita targa d’alpacca.
Fu solo nell’isolamento di Posillipo prima, nella pace di Raito poi (dopo il 1945), che anche Vittorio Emanuele i ricominció a pescare, ormai sciolto da impegni di governo (a Roma la monarchia era rappresentata dal Principe Umberto divenuto luogotenente del Regno). Ma lo faceva soprattutto per accompagnare la Regina.
Così, ricordando la pesca o episodi legati a questo placido e pacifico sport Vittorio Emanuele ed Elena di Savoia trascorsero l’intero pomeriggio del 26 Dicembre. Il Sovrano pareva più sollevato. Alle infermiere confessò anzi di essere stufo di starsene a letto. Ma non gli fu permesso di alzarsi. Il giorno dopo, però, volle radersi. Indossò una pesante vestaglia da camera e passò nell’attigua sala da bagno. Ma un improvviso malore lo costrinse a tornare immediatamente a letto. Ansante, con lo sguardo smarrito, lo trovò Elena. saltato accorsa. «Ho un forte mal di capo», confessò Vittorio Emanuele, «inoltre mi sento il braccio sinistro stranamente pesante. Non riesco neppure a riunire le dita della mano». Elena di Savoia si rese subito conto che qualcosa di molto grave stava accadendo. Ma non perse la testa. Coricò meglio il marito. telefonò personalmente al medico, chiamò poi il conte Calvi che giunse immediatamente, seguito subito dopo da Jolanda.
Qualcosa di molto grave
Il dottore Abde1 Razek Bey non nascose ai familiari la gravità del male: ci si trovava di fronte a una trombosi. Praticò alcune iniezioni per sostenere il cuore, mandò a prendere due bombole di ossigeno, poi prospettò alla Sovrana l’opportunità di chiamare a consulto un altro sanitario, il dottor Maggiorino Peta, primario dell’ospedale delle malattie di cuore.
L’infermo venne di nuovo visitato. La deficienza cardiaca era aumentata e notevolmente. Vittorio Emanuele venne posto a sedere su una poltrona, vicino alla finestra. Ma non risentì alcun giovamento e chiese di essere riportato a letto. La suo voce era debole ma chiara. Elena di Savoia gli accomodò le coperte; uscì poi dalla stanza per dare ordine che preparassero una tazza di caffé.
Non appena vide allontanarsi la Regina, Vittorio Emanuele. rivolgendosi in francese al dottor Abdel Razek Bey, domandò: «Credete che mi rimangano ancora due giorni? Ho tante cose da fare». «Ma certo rispose il sanitario». Furono quelle le ultime parole che Vittorio Emanuele bisbigliò.
La Regina Elena rientrò pochi istanti dopo nella stanza. Sedette a fianco del letto. Da allora Vittorio Emanuele rimase immobile, muto, tenendo nella sua mano destra quella della fedele sua compagna, che sedeva accanto a lui.
Vittorio Emanuele aveva capito che stava per morire. Ma le sue angosciose parole erano state fraintese. Infatti Il barone Torella, ricordando quelle ultime ore, racconta: «Il Re alludeva, probabilmente, con la sua domanda, all’ulteriore decorso della malattia e non doveva rendersi conto della gravità del suo stato». Invece Vittorio Emanuele comprese che per lui era ormai finita .
Sulla soglia del mistero
Chi ci raccontò quegli estremi istanti è una persona che per quarant’anni fu in dimestichezza con i Sovrani e divise con loro l’esilio. La sua testimonianza è precisa: «Ebbi l’impressione, ci disse il nostro informatore che ci spiace non poter nominare, che il Re, innanzi alla morte, non avesse se non un timore un’unica preoccupazione: nascondere alla Regina Elena la gravità del suo stato illuderla ancora con qualche sorriso farle credere che, malgrado tutto, c’era un filo di speranza». Intanto attorno al letto del morente s’erano strette Elena di Savoia, Jolanda e Giovanna. Il conte Calvi si avvicinò ai due medici e disse, piano con un soffio. Lasciamo un momento Sua Maestà solo con la Regina e le Principesse. Forse vorrà dire, loro qualcosa. I medici si ritirarono nella stanza accanto insieme con il conte Calvi e le infermiere.
Ma Vittorio Emanuele orinai non parlava più. Guardava però i familiari angosciosamente, come se cercasse qualcuno, Elena intuì un, domanda e disse «Bepo arriverà presto. Lo abbiamo mandato a chiamare». Con questo nome affettuoso era chiamato in famiglia Umberto di Savoia. Anch’egli in esilio a Cascais. Ma era destino che Umberto non raccogliesse l’ultimo respiro del padre. Il telegramma che il conte Calvi gli aveva mandato il 27 dicembre arrivò è vero, abbastanza tempestivamente, ma le condizioni atmosferiche proibitive in Portogallo non gli permisero di partire immediatamente in aereo.
Intanto era giunto a Villa JeIa, chiamato dalla Regina, padre Ludovico Foschi. Il buon frate, dopo aver detto a Vittorio Emanuele alcune parole di circostanza gli chiese se poteva impartirgli l’Estrema Unzione. Il Re accennò lievemente con la testa dì sì. La Regina e le Principesse s’inginocchiarono, mentre un domestico accendeva due candele. Uscito padre Foschi, Vittorio Emanuele sembrò, per un attimo, più rasserenato. Ma per poco. Alzò gli occhi i soffitto, tenendoveli fissi a lungo. Poi cominciò a respirare affannosamente e a tossire, finché il respiro divenne man mano più lento, più flebile. Qualche istante prima delle 14,20 (del 28 dicembre 1947) Vittorio Emanuele ritirò la mano che Elena di Savoia aveva sino a quel momento tenuta affettuosamente tra le sue. Poi abbassò le palpebre, Giovanna di Bulgaria chiese, con un filo di voce «S’è assopito?». Elena di Savoia guardò la figlia, scosse il capo, poi scoppiò in un pianto sommesso.
Così mori Vittorio Emanuele III, il sovrano dal lungo regno tempestoso. Giacque come i suoi antenati custoditi nella tombe di marmo nell’abbazia di Altacomba, in Savoia: le braccia congiunte sul petto il viso sereno, lo sguardo fisso verso l’alto.