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Hautecombe, ventun anni dopo

By Novembre 21, 2018Settembre 21st, 2021No Comments

Articolo pubblicato su www.telefree.it  il 15-9-2004

Hautecombe. Dopo ventun anni, nel centenario della nascita di Re Umberto

Come ventun anni fa il tempo è grigio, ma fortunatamente molto più clemente. La strada per raggiungere la Reale Abbazia non è piena di pullman. Anzi. E’ vuota. Sistemare la macchina nel piccolo parcheggio non è un problema. Un cortese gendarme avvicinatosi alla macchina fa capire a gesti dove e come parcheggiare. Posto per 10 autobus, forse per venti macchine.
Scendo. Mi volto indietro a ripercorrere con la memoria un giorno di ventun anni prima. Quando non avevo un soldo in tasca ma lo stesso avevo voluto partecipare, indebitandomi moralmente con i miei, all’ultimo saluto a Re Umberto.

Allora c’era molta più gente: ragazzi, ragazze, anziani. Gente distinta e gente umile, di quelli venuti dalla campagna con il vestito buono, della domenica. Molti di questi portavano al bavero della giacca spilline multicolori. Solo dopo tanto tempo avrei capito che erano decorazioni al valore e che ogni colore diverso rappresentava una “campagna” diversa.

In tutti sommessamente il dolore dignitosissimo di aver perso qualcuno. Questo “qualcuno” era un uomo cui  la ventura, la sorte, la malasorte,  la storia avevano affidato il compito di raccogliere per un breve periodo l’eredità di una guerra persa e di pagarne senza alcuna responsabilità  ottima parte delle colpe. Un uomo che era stato Re per soli 34 giorni. E che aveva scontato questa colpa per tutta la restante parte della sua vita. Andato in esilio a quarantadue anni non ne era più tornato. La repubblica, cui il Suo sacrificio aveva consentito di nascere senza ulteriori fardelli di sangue, ne negava praticamente l’esistenza. Lo privava della cittadinanza, lo privava dei suoi beni presenti nel territorio nazionale, lo privava dei suoi diritti di italiano.
Lo privava dei suoi diritti di uomo. Alla faccia di tutte le convenzioni internazionali, delle carte di Helsinky sui diritti umani et cetera ceteraque. Il Re, tirannico personaggio, aveva dato agli italiani modo di scegliere. La repubblica si proclamava eterna. La repubblica sanciva l’irreversibilità della scelta fatta in un momento di grave  turbamento.
Il Re sceglieva l’esilio per amore. La repubblica glielo imponeva per odio. Pochi mesi più tardi dalla sua partenza, allorché  Vittorio Emanuele III stava per morire, la repubblica negò ad Umberto di sorvolare l’Italia per giungere in tempo a vederlo vivo. E non lo vide.
Ma mai si lamentò di questo. “Ero preparato a questo”.  Disse che faceva parte del suo mestiere di Re. Se ad altri era toccato in sorte di essere sovrani in momenti felici a lui era toccato in sorte di testimoniare la propria regalità in momenti tristi. E mai aveva abdicato al suo stato di Re. Re esiliato, solo, ma proprio per questo più grande che mai, nonostante le avverse fortune. A questo grande uomo, che la storietta della repubblica frettolosamente bolla come il Re di maggio, non fu concesso nessuno sconto. Nella parte finale della sua lunga malattia moltissimi si pronunciarono se fosse o meno giusto farlo rientrare. Lui che non aveva mai chiesto niente ma solo dato. Li ricordo quei tristi figuri che sentenziavano di repubblica nata dalla resistenza, di offesa alla costituzione, di assurde condizioni di abiura per consentire il ritorno. Sciacalli.
Ricordo un articolo di Umberto Eco su “La repubblica”. Sosteneva  che a suo giudizio tra Umberto e le Brigate Rosse non vi era differenza, in quanto nessuno dei due riconosceva lo stato. Ne ho conservato il ritaglio. Chissà se ha mai fatto ammenda per tale enorme stupidaggine.
Tutto questo ciarpame sarebbe morto di vecchiaia o a colpi di avvisi di garanzia pochi anni dopo. Ma la repubblica era forte. Si era difesa bene. Nessuno si era chiesto del suo poco legale certificato di nascita. E l’ultimo depositario della regalità era morto. Presto lo avrebbero dimenticato di nuovo. E così fu.
Ripercorro il tratto dal parcheggio all’ingresso della Abbazia frugando tra i ricordi. Oggi sono in giacca e cravatta. Allora non pensavo neanche che un giorno le avrei messe. Stava per piovere 21 anni fa. I francesi ci tenevano lontani dall’ingresso in vista dell’arrivo di personalità importanti: Juan Carlos, Baldovino, e tanti altri. La gente spingeva per poter salutare il Re. Ricordo che ad un certo punto il cordone dei Francesi fu rotto da alcuni ragazzi che si misero a correre gridando “Viva il Re!”. Io mi  accodai. E mi piazzai proprio davanti all’ingresso. In prima fila. In tempo per vedere passare tra una folla attonita il feretro avvolto nella Bandiera. Un silenzio assordante. Una ragazza piangeva. Vecchi militari scattavano sugli attenti. Fino a che l’urlo strozzato di un Italiano, sì, con la “i” maiuscola, chiamò i presenti al saluto d’ordinanza: “Italiani! Saluto al Re!” Gli altri risposero in coro “Viva il Re!”. Tre volte. Io non partecipai al coro. Non ero preparato all’uopo. Ma la commozione fu anche mia. Totale. Dietro il feretro un nobiluomo portava un cuscino di velluto con il Collare dell’Ordine della Santissima Annunziata. Dietro ancora i membri di Casa Savoia.

La solennissima funzione l’ascoltai da fuori. Dentro tutta l’Italia. Dal ricco al povero, dal militare al civile,  dal professore al contadino. Nessun rappresentante dello stato italiano.
Ore ci vollero per sfilare lentamente accanto a quella bara poggiata in terra, semplicemente. Prima di me un ragazzo italiano che viveva a Ginevra confessò a Vittorio Emanuele che era stato lui a verniciare il consolato d’Italia con lo spray. Vidi il principe sinceramente compiaciuto. “Ah sei stato tu?”  disse con un sorriso.
Ripresi la strada per il pullman mestamente dopo essermi segnato. Il diluvio. Sotto braccio un signore cieco che non aveva voluto mancare e che si faceva condurre docilmente nel buio. Io da una parte. L’anziana moglie dall’altra. Fino a che un autobus stracarico si fermò e li fece salire. Io continuai a piedi per qualche chilometro ancora. Fradicio. L’unica cosa che avevo potuto fare per il Re era stato prendere un enorme acquazzone. Non di più purtroppo.
Ventun anni dopo il Re è ancora sepolto nella bellissima e scomodissima Abbazia.
Non ci sono più i monaci benedettini. Hanno traslocato. L’arcivescovo di Chambery ha chiamato un altra comunità a far vivere l’antica Abbazia: Chemin neuf. Nella cappella a destra subito dopo la porta d’ingresso Re Umberto è stato raggiunto dalla Regina. Due foto li ritraggono quando erano giovani e bellissimi. La scritta in latino ricorda che lì riposa il Re d’Italia, Duca di Savoia.

L’Italia distratta ha dimenticato in quell’angolo uno dei suoi figli migliori. Quello che l’ha amata di più ricevendo in cambio soltanto indifferenza se non odio.
In raccoglimento mi fermo e mi sorprendo a sperare che l’esilio per le anime non esista. Che quando è spirato si sia fermato un po’ a riceverci, tutti noi italiani partiti da ogni angolo del mondo per salutarlo, come era sua abitudine durante l’esilio a Cascais. Che abbia atteso che anche l’ultimo dei suoi si ritirasse e poi alla fine del suo funerale, libero da ogni impegno del suo stato, si sia incamminato a fianco dell’ultimo italiano e con il cuore in gola, emozionato come un bambino abbia varcato quel confine che gli avevano chiuso in vita,  e poi abbia ricominciato a girare per la sua Italia passando da Aosta, da Torino, da Genova, da Firenze, da Roma, dalla sua Napoli e poi senza più meta in ogni luogo che lo avesse visto giovane tra la gente che amava e che lo ricambiava con tutto il cuore.
Pensiero intenso e fugace, rapidamente interrotto. La realtà è che un distinto ed anziano signore mi fa cenno di dover chiudere il cancello posto davanti la piccola cappella.
Mi segno ancora. Come ventun anni prima. E riprendo la strada per il ritorno a casa.

Giunto in corrispondenza della macchina non mi fermo. Decido di ripercorrere a piedi per un tratto la strada che avevo percorso al buio con il signore cieco sotto braccio. E cerco di vedere se qualche ricordo ancora si fa vivo. Ma sono solo dettagli. Mentre cammino smetto di ricordare. Avrò fatto bene? Avessi pensato a qualcosa di più concreto, tanti anni fa? Da un punto di vista pratico forse si. I miei amici, più assidui di me, mi dicono che ogni anno siamo un po’ di meno.  Amen. L’età media non è di sicuro bassa.
Certo… Tanti anni fa avevo più cuore che cervello. Anche ora che credo di avere un po’ di cervello in più non so se quel poco cervello è sufficiente a vincere le ragioni di un sentimento di affetto e di ribellione all’ingiustizia inflitta ad un uomo buono.
Mentre ritorno alla macchina, ventuno anni dopo mi trovo a constatare che non ho cambiato idea, nonostante i capelli grigi, anzi.
I recenti presidenti della repubblica hanno dimostrato quale peso può avere un capo dello stato anche in una democrazia parlamentare. Cossiga prese a picconate un sistema partitocratrico ormai sclerotico. Quello stesso sistema si difese eleggendo il più conservatore di tutti. Scalfaro. Scalfaro che stava da una parte. E ben si vide da che parte stava. Impose e mise veti sui ministri. Organizzò il ribaltone e se ne fece garante. I referendum che erano stati appena votati con schiacciante maggioranza ignorati e calpestati. Ricordate il finanziamento pubblico ai partiti? Ricordate il ministero dell’agricoltura?  Ricordate? Tutto si ricompose e l’illusione di una seconda repubblica si rivelò presto per quello che era. Grazie anche all’allora capo dello stato. Lo stesso, senatore a vita, presidente emerito, adesso partecipa ai convegni di una delle parti accusando l’altra di attentato alla libertà. La costituzione recita che “Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale”.
Scalfaro ha rappresentato spudoratamente una parte, e neanche si pone il problema di far finta che non sia così.
Mi sia consentito di fare un paragone dopo quanto accaduto qualche tempo fa a Madrid.
E’ chiaro che il governo di Aznar ha gestito il flusso delle notizie in modo da non perdere le imminenti elezioni. Si è scontrato con la  ben nota fermezza del Re. Re per il quale non è importante che a governare sia la Destra o la Sinistra. Il Re è il punto di massimo equilibrio della Nazione. Non eletto non deve rendere conto a consorterie politiche o affaristiche. Deve rendere conto soltanto al suo popolo. E in tanti anni solo due volte ha parlato alla nazione spagnola dalla tv: per il golpe del colonnello Tejero, che fece fallire, ed in quella tristissima occasione di lutto. Questo è un re. Re di un popolo che somiglia infinitamente al nostro.
E dopo che Juan Carlos ha dimostrato per l’ennesima volta che un re è supremo e totale garante del popolo, al di sopra delle parti e dei partiti, non posso dimenticare quanto disse l’attuale Sovrano di Spagna in occasione della morte di Re Umberto: “Lo zio Umberto, lui che aveva perso il trono, lui mi ha insegnato come si fa il re”.
Questa è la persona che abbiamo dimenticato in una sperduta Abbazia della Savoia, su un lago che ispira malinconia al solo avvicinarvisi. Curioso che mai io vi abbia trovato il sole. Quel luogo così triste è specchio della sorte toccata in sorte a quella che reputo una delle migliori persone di cui l’Italia possa vantarsi. Uno dei Grandi d’Italia.
E anche se io fossi rimasto l’ultimo in Italia, non smetterò di chiedere che cessi l’esilio, che cessi questa vergogna. Non smetterò di chiedere di restituire Re Umberto all’Italia e l’Italia a Re Umberto. Sarebbe solo un piccolissimo, parziale e tardivo atto di giustizia nei suoi confronti.