I trentacinque giorni
- Dall’abdicazione di Vittorio Emanuele al referendum
“Il valore degli uomini che appartengono alla storia, non dipende tanto dal modo con il quale sono entrati nella storia stessa quanto dal modo con il quale ne sono usciti.
Mio padre, dopo l’8 settembre, passò al sud con il governo legittimo per salvare il salvabile; e dopo l’8 settembre né gli italiani del meridione né gli alleati gli chiesero di abdicare. Fu anzi accolto dagli uni e dagli altri come il più rispettabile ed il più rispettato dei sovrani.. Il 20 ottobre 1943, con la nota lettera al capo delle forze anglo americane in Italia, mio padre precisò in modo non equivocabile i suoi propositi: volontà della nazione, ma a liberazione avvenuta. Abdicare immediatamente, soltanto perché richiesto da qualche uomo politico non officiato ancora da un mandato del popolo sarebbe stato assurdo. Ciò venne compreso, sia pure in ritardo anche da detti uomini politici. E si parlò di reggenza. Ingenuo ripiego, e i ripieghi, si sa , non risolvono i problemi ma li complicano.”
Il compromesso.
Una reggenza in quel momento, fosse reggenza Badoglio, o fosse reggenza Sforza, non avrebbe accontentato nessuno: né i monarchici, che non vedevano la necessità di sacrificare Umberto di Savoia né gli antimonarchici che volevano la repubblica ad ogni costo né gli alleati.
Il Luogotenente generale continua: “Il Re s’accorse che gli Alleati, dopo alcuni mesi, nel giudicarci erano disorientati dalla confusione originata dai troppi partiti in gara di arrivismo tra di loro. “Guerra alla Monarchia invece che ai tedeschi”, mentre Togliatti, arrivando capovolse con grande abilità lo slogan: “guerra ai tedeschi, poi la Monarchia si vedrà…”.
Il Luogotenente fissa in silenzio il vano della finestra e forse nella inquadratura scorge per un attimo la misteriosa e interessante figura del capo del Partito Comunista. Riprende:
Il disorientamento degli alleati che per sostenere il principio di non occuparsi delle nostre questioni interne dovevano dar ragione ai partiti che essi stessi avevano voluti, ma non potevano dar torto alla Monarchia che essi stessi avevano rispettata portò al compromesso: visto che l’idea della reggenza era tramontata tra l’indifferenza generale, e il capro espiatorio poteva trovarsi in mio padre, la Luogotenenza apparve come la soluzione migliore per tutti. E si fece un momentaneo silenzio, nel quale si scandirono, augurali e ammonitrici, le parole di Vittorio Emanuele III” “Verrà il giorno in cui, guarite le nostre ferite riprenderemo il nostro posto, da popolo libero, accanto a nazioni libere. Era questo nelle sue grandi linee il programma a me additato: guarire le nostre profonde ferite e riprendere il nostro posto….”
Lascio la mia patria
Qui s’interrompe. Come agire, fra gli alleati che si preoccupavano logicamente più di finire la guerra che delle nostre beghe interne, e i CLN che, prima di ogni risveglio del popolo italiano, si preoccupavano di finirla al più presto con la Monarchia? E tutti quei decreti da firmare con la penna e non con il cuore?
(Fatto ancor più strano se esaminato a distanza di anni mentre il figlio del Re si trovava a capo dello stato, allora i potere era nelle mani degli antimonarchici! Forse, prima del referendum, era questo ingiusto squilibrio tra le forze che bisognava impedire o correggere. Ma io pensavo più al paese che alla Corona… E non fu ingenuità la mia, poiché se più tardi la guerra civile venne evitata, mi conforta il pensiero che, nella speranza di un bene reale e non effimero dell’Italia ciò fu dovuto al mio sacrificio personale). Nota di Umberto II