Nel 1892 La Monarchia impostava ufficialmente la questione sociale
(L’ultimo decennio del secolo scorso fu, per l’Italia, gravido ai avvenimenti incresciosi e talvolta tragici, costretta ad una paralisi economica sia per la mancanza di capitali necessari a dar seguito ai progettati lavori pubblici e di bonificazione di terre incolte, sia per le crisi prodotte dalla necessità della trasformazione del Paese da agricolo in industriale. Questo fenomeno aggravava la disoccupazione e le leggi di protezione alle classi lavoratrici molte volte restavano inoperanti. Tuttavia la Monarchia non rimaneva sorda al richiamo delle masse doloranti e l’iniziativa del Governo di allora ne è la prova).
UMBERTO: «Nella visita del 18 luglio 1892 – e della quale ricorre il 60° anniversario – fatta dal Presidente del Consiglio Giovanni Giolitti all’Associazione Generale degli Operai di Torino la Monarchia impostava ufficialmente la questione sociale in Italia. E’, questa, una data memorabile ».
(In quel giorno – si rileva dai giornali dell’epoca – Giolitti ed il Ministro dei Lavori Pubblici Genala, accompagnati dal sindaco Voli e dagli on. Roux e Badiní Confalonieri – si recavano alla sede di quella associazione a portare il saluto di Umberto Primo. Così parlò Giolitti: “Gli operai possono stare certi di avere in me, nell’on. Genala, in tutti gli uomini del Governo, amici devoti ed affezionati. I principii di schietta democrazia che sono fondamento del Governo tendono alla prosperità della classe operaia”. Poi accenna con bellissime parole alla Monarchia che è – dice Giolitti – l’ancora sincera della classe operaia, poiché il Governo ed il Sovrano tendono ad un solo scopo: a migliorare le condizioni della classe lavoratrice”. Seguì il ministro Genala: “Il Piemonte ha dato un’impronta nuova alla politica di Stato, ed ha dato la Monarchia. Senza di questa e senza i ritrovati del lavoro moderno l’Unità d’Italia non sussisterebbe”. Gli operai, fra le note della marcia reale suonata dalla banda dell’Associazione acclamano ancora a Giolitti che parte per Monza dove si reca a riferire al Re. Ma la simpatia della Monarchia per le masse lavoratrici aveva già avuto un leale riconoscimento una settimana prima dall’on. Caldesi deputato socialista di Faenza che ai suoi elettori segnalava la tendenza alle riforme sociali contenuta nel programma del Governo monarchico. Cinque anni più tardi Umberto I annuncerà nel discorso della Corona del 5 aprile 1897 il progetto per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro che diventerà operante con leggi dell’anno seguente.)
UMBERTO: «Nel discorso di apertura della XVII Legislatura dello stesso anno Umberto Primo annunciava proposte «volte a migliorare le condizioni delle classi lavoratrici, sempre presenti al mio cuore onde assicurare la pacificazione sociale». Infatti il periodo che va dal 1890 al 1900 reca l’Impronta di un vero rifiorimento della legislazione sociale: dalla legge sulle istituzioni di pubblica beneficenza alle leggi sulle miniere, dalla legge dei probiviri a quella sull’obbligatorietà delle assicurazioni operaie. Il problema angoscioso degli invalidi che appassionò fin dal 1870 quando venne provocata una disposizione speciale, ritornava alla ribalta delle discussioni con una legge sulla Cassa di Previdenza e vecchiaia, quella che sanciva l’assicurazione obbligatoria, una delle maggiori conquiste operaie poiché segnava il trionfo dei diritti di difesa e di tutela del lavoratore, avversato dalla classe padronale. Le società operaie di mutuo soccorso che nel 1893 erano 433, salirono nel 1896 a 6844 ed il rifiorire così rapido fu determinato dalla possibilità consentita dal nuovo clima politico di assumere atteggiamenti di resistenza nei rapporti coi datori di lavoro. La libertà della Monarchia liberale le ha portate sul terreno delle rivendicazioni sociali che vengono reclamate con agitazioni e scioperi ».
(Nel 1928 si fece tanto chiasso per una risoluzione alla Società delle Nazioni sul divieto di comporre la biacca con l’ossido di piombo e ciò al fine di combattere la terribile malattia del saturnismo. Ebbene già nel 1892 l’Italia aveva emanata la sua legge sui colori nocivi a protezione della salute degli operai. Anche in questo l’Italia è stata all’avanguardia).
UMBERTO: «Ma lo Stato non poteva fare miracoli poiché aveva problemi di sicurezza urgenti superiori a quelli della prosperità: costruire una marina da guerra e creare fortificazioni al confine. L’Italia mancava di strade, vi erano lavori pubblici di necessità inderogabile, come il rimboschimento e l’imbrigliamento dei fiumi, la bonifica delle terre malariche, l’inizio di opere irrigue che non ammettevano proroghe, e soprattutto la costruzione della imponente rete ferroviaria. La povertà del paese non dava al bilancio l’incremento necessario a supplire le spese richieste anche per lenire la disoccupazione, ed all’inizio dell’ultimo decennio il deficit era permanente anche perché gli introiti erano in massima parte ingoiati da interessi passivi. La borghesia non aveva ancora trovato la sua strada mentre i governi erano stretti fra l’esuberanza patriottica dei cospiratori mazziniani e le minacce dello straniero al quale era invisa la nostra Unità ».
(Fino al 1890 l’industria era ancora bambina. Pure in tanta stanchezza trovava forza e coraggio e si rivelavano nuovi grandi capitani d’industria specie in Lombardia i quali marciavano alla conquista dei mercati mondiali. Uomini di rara capacità si gettarono allo sbaraglio con un’audacia senza pari. Lo sfruttamento della mano d’opera imperversava. Non era sufficiente emanare leggi quando imperava una resistenza passiva della borghesia e lo Stato non era ancora abbastanza forte, insidiato com’era dal sovversivismo incombente).
UMBERTO: «Senza dubbio l’iniziativa del. 18 luglio 1892 deve essere stata determinata dal rincrudire dello sfruttamento dei lavoratori: quelli delle officine e quelli dei campi. Nelle risaie del vercellese e del novarese si lavorava per 12 ore al giorno, le gambe immerse nell’acqua per un salario di una lira agli uomini e 50 centesimi alle donne e la notte il più delle volte si passava all’addiaccio sotto il tormento della febbre malarica e dei reumatismi. Le condizioni del bracciantato romagnolo erano fra le più tristi: miseria squallida, pane giallo di granturco e poco vino».
(Le parole del Sovrano trovano conferma negli studi del Romagnosi, del Cattaneo e di Melchiorre Gioia e più tardi della contessa Maria Pasolini e dalle grandi inchieste agrarie di Jacini, Franchetti e Sonnino che sfatarono la leggenda dell’Italia terra di Paradiso e giardino d’Europa per decreto di natura. Terreno arido invece, aspre giogaie di monti, paludi infestate dalla malaria, plebe sofferente e malaticcia maciullata dalla pellagra).
UMBERTO: «Tuttavia la nazione a poco a poco si rialza, il progresso realizzato è tutto fatica dell’uomo che ha sudato curvo sulla terra senza mai maledirla. Nella industria la situazione non è meno tragica: per fronteggiare la concorrenza straniera i cotonieri ed i lanieri assoldano donne e fanciulli negli opifici per un lavoro estenuante: 14 ore di lavoro e sei soldi al giorno di paga. Ma questa gente negletta e tormentata dai più terribili malanni secolari riesce a comporsi faticosamente in classe organizzata e nel decennio 1890-1900 la Monarchia, col nuovo clima di libertà le offre la possibilità di sollevarsi. In questo periodo si creano tutte le premesse morali e legislative per la grandezza di domani ».
(Ricordiamoci come i fatti dolorosi del 1898 siano stati la espressione tipica di questo contrasto donde sortirà la nuova Italia. Mentre la Nazione aveva assistito disorientata alla inconcepibile politica reazionaria dell’ex liberale Pelloux, Umberto Primo preparava, con la successione di Saracco, il Ministero di transizione che doveva trasformare le sorti del Paese. E quando a Monza l’assassinio del Sovrano – l’inutile regicidio – destava l’orrore del mondo attonito, la nuova economia e la nuova politica libertaria erano già in piene sviluppo. Si reclama reazione e repressione ma il nuovo Monarca “venuto dal mare” impone pace e libertà incondizionata. E così la tragedia di Monza si innalza e si affina ed affratella gli italiani).
UMBERTO: « La Monarchia che aveva superato la ragion di Stato, il diritto divino e l’assolutismo; che aveva superato anche il mazzinianesimo, che aveva assorbito Garibaldi ed altri agguerriti repubblicani storici, superò anche la reazione che pure era tanto invocata. Mentre le agitazioni per i miglioramenti economici delle masse operaie e del bracciantato assumono sempre maggiori proporzioni, i rapporti fra i contendenti rincrudiscono la lotta di classe. Ma la Monarchia non fu sensibile solo al «grido di dolore» delle popolazioni oppresse dallo straniero, e, preoccupata ad alleviare le sofferenze dei diseredati, inizia una politica di grandi riforme sociali ».
(Furono proprio la saggezza e la tattica politica di Vittorie Emanuele III che, all’alba del suo Regno fecero fallire tanto i tentativi reazionari teorici o pratici, quanto la violenza rivoluzionaria dei nuovi profeti del marxismo imprecante. Gettatosi in mezzo alle due parti contendenti, Egli si pone alla testa della avanzante questione sociale ispirando allo Stato una politica anti-classista donde sortirà la nuova frazione del. riformismo socialista, dopo aver superato il marxismo barricadiero ed il Patto di Roma intorno al quale i repubblicani trattavano la questione sociale).
UMBERTO: «Col Ministero Zanardelli prima e con quello di Giolitti poi, richiamandosi alle vecchie premesse legislative si dà inizio alle iniziative che favoriscono lo sviluppo di tutte le attività sociali e delle moderne forme giuridiche fino a quei capolavori di saggezza che saranno il Contratto di lavoro ed il Contratto di impiego privato per cui la prestazione dei dipendenti non sarà più una merce ma sarà invece un fattore intelligente di produzione. Il socialismo, abbandonata la concezione catastrofica del capitalismo, si inseriva così nel liberalismo, il rivoluzionarismo si risolveva nel riformismo a collaborare con l’Istituto monarchico».
(Del resto, i repubblicani Agostino Bertani, Ettore Sacchi, Giuseppe Marcora, Edoardo Pantano, e lo stesso Felice-, Cavallotti non avevano forse in linea di massima già accettato il principio di collaborazione? E così il turbolento Enrico Ferri, capo della frazione rivoluzionaria del socialismo si offriva con la celebre dichiarazione: “Se il Re mi facesse l’onore di chiamarmi”).
UMBERTO: «I socialisti, richiamandosi alle idealità del Risorgimento e riconoscendo nella dinastia dei Savoia la pattuglia d’avanguardia che aveva portato l’Italia alla Unità nazionale, passarono dalla opposizione preconcetta alla collaborazione. Vi fu così un socialismo impregnato di liberalismo ed un liberalismo impregnato di socialismo che di tacito accordo proclamarono come non fosse possibile un socialismo senza libertà. Su questa premessa la Monarchia costruiva in Italia il regime più democratico d’Europa e, arbitra della situazione assumeva un nuovo aspetto, quello di Istituto riformatore ».
(Umberto è nel vero: la Monarchia nega la violenza, nega la possibilità che con un colpo di mano si possa risolvere la questione sociale. Le predicazioni disgregatrici dei nuovi apostoli del marxismo sono poste di fronte alla legge riformatrice. Essi saranno costretti a riconoscere che un decreto legge emanato a tempo vale più di una sommossa. Non aveva forse confessato lo stesso Federico Engels, che firmò con Carlo Marx il famoso Manifesto dei comunisti nel 1848, non aveva confessato che la storia gli aveva dato torto e che la legalità uccide più della fucilata delle barricate e del petrolio della Comune?).