Umberto disse: “Preferisco lasciare l’Italia per evitare nuovi lutti e dolori”
di LINO RIZZI
II parte
RICORSO IN CASSAZIONE
«L’Italia non è più nelle mani di coloro che vi hanno portato a Roma», disse ancora Barzini. «L’Italia è in mano di coloro che non fecero e non vollero il Risorgimento, di quelli che non votarono perché non raggiunsero il censo necessario, delle donne che non votarono mai, dei cattolici che non vollero votare. E’ un’altra Italia. Che cosa vuole? Che cosa pensa?
« Il re disse: “Tutto dipende dai risultati. Potrei anche essere il re di questa nuova Italia. Non è detto che la Monarchia si identifichi con una classe sociale sola. Le Monarchie hanno sempre trovato il modo di rinnovarsi interpretando la volontà del popolo contro i signori, i ras, gli ‘shogun’. Ma se i risultati non saranno decisivi in un senso o nell’altro, temo per il nostro Paese. Una Monarchia al 51 per cento? C’è da tremare a tentare l’esperimento. Significa continuare come ora, nell’asprezza di polemiche che ci umiliano tutti, che avviliscono ogni cosa, nell’incertezza, nella separazione, nell’egoismo, nel disfacimento. Una Repubblica con il 51 per cento? C’è chi dice che il compito può essere facile perché i monarchici si adatteranno. Adattarsi vuoi dire accettare soltanto. Otterrà una debole Repubblica nei momenti decisivi quella dedizione istintiva, primordiale che una Monarchia amata riesce ad ottenere dal suo popolo, perché è un istituto radicato nei secoli, nella coscienza degli antenati? Quella dedizione che la mia Casa ha ottenuto in momenti decisivi per la nostra storia?”.
«Per spezzare questo disgraziato nodo», disse Barzini, «gli avversari sono disposti a combattere una vittoria dubbia o debole della monarchia. E’ uno degli argomenti a favore della Repubblica, che i timorosi ripetono. Lei, Maestà, difenderà con le armi il suo diritto.
«Umberto disse di no. Scosse Il capo perplesso, sorpreso dalla domanda, con l’aria incredula», racconta il giornalista, «quasi gli avessi chiesto se avesse voluto dedicarsi alla adorazione del fuoco o all’antropofagia, riti antichi, cose di un’altra epoca. “Gli italiani disse il re, “hanno sofferto abbastanza, hanno versato troppo sangue. Devono avere la pace”.
Fin qui il racconto di Barzini sullo stato d’animo del re, alla vigilia del referendum, sulle sue attitudini verso l’evento, qualunque fosse stato il risultato. Non sorprende quindi la sua rassegnazione appena velata di malinconia il giorno in cui De Gasperi andò a comunicargli i dati della consultazione popolare. Le prime giornate romane sotto il regime repubblicano furono idilliache. L’atmosfera era quella ideale per un ordinato passaggio dei poteri. Ma nel giro di 48 ore i monarchici tentarono disperatamente di salvare l’istituzione alla quale erano legati. Il 7 giugno, lo stesso giorno in cui Umberto si recava dal Pontefice in visita di congedo, venne presentato un ricorso alla Corte di Cassazione, che per legge doveva proclamare i risultati e decidere sulle contestazioni. Il ricorso sosteneva questo: non bastava che il voto repubblicano prevalesse su quello monarchico, occorreva che avesse la maggioranza assoluta sul complesso dei votanti, compresi quanti avevano messo nelle urne schede bianche o comunque annullate in seguito, per qualche errore. In realtà per il referendum parlava di maggioranza degli «elettori votanti» senza peraltro prevedere l’ipotesi di un voto che non fosse favorevole né alla Monarchia, né alla Repubblica, perché nessuna delle due parti aveva raggiunto e superato la metà degli elettori. L’eccezione fu in seguito respinta dalla Cassazione, ma la manovra rinfocolò le speranze dei fedeli di Casa Savoia, si accompagnò alle voci secondo cui le elezioni avevano registrato da parte dei repubblicani brogli e falsificazioni.
Le carte erano state rimescolate, il clima di concordia, di correttezza andava inquinandosi. Ci furono giorni, tra il 10 e il 13 giugno, in cui il Paese parve sull’orlo della guerra civile. Se non fosse stato per la riluttanza del sovrano a dar ascolto ai suoi consiglieri più estremisti e più agguerriti e per l’abilità manovriera di De Gasperi probabilmente sarebbe accaduto il peggio. Rimane ancora oggi un mistero per chi abbia votato De Gasperi. Il marchese Falcone Lucifero non ha dubbi: il presidente del Consiglio votò e credette fino all’ultimo nella causa dei Savoia. Altrettanto categorico è il ministro Romita nell’affermare il contrario. La figlia dello statista. Romana Catti, nel suo libro De Gasperi, uomo solo, racconta: «A casa nostra il metodo democratico veniva altamente rispettato e noi ragazze usammo ogni arma lecita, in questo sistema di battaglia, incollando striscioni con su scritto “vota repubblica” nella camera della mamma e della zia, monarchiche più per difesa che per convinzione. Mio padre ed io votammo Repubblica, la zia votò per la Monarchia, mentre la mamma non fece mai capire per chi aveva votato, lasciando a noi repubblicani l’illusione della maggioranza». Il piccolo mistero dunque rimane.
IL CONTEGGIO DEI VOTI
Alle ore 18 del giorno 10 giugno nella sala della Lupa a Montecitorio la Corte di Cassazione annunciò i risultati del referendum. Il consesso era presieduto da Giuseppe Pagano, un magistrato di grande rettitudine e di noti sentimenti monarchici, come la maggior parte dei suoi colleghi. Egli si limitò a riferire i dati del referendum e a comunicare che in un’altra seduta avrebbe comunicato i risultati ancora mancanti e deciso sulle contestazioni. Si apprese così che la Repubblica aveva avuto 12.672.767 voti, la monarchia 10.688.905. I voti in bianco o nulli superavano il milione e mezzo. Le cifre definitive correggeranno di poco queste provvisorie. Un’analisi dei risultati rivelò anche l’esattezza di molte previsioni della vigilia: in tutte le province a Nord di Roma, meno due (Cuneo e Padova), prevalse la Repubblica. In quelle a Sud, con la sola esclusione di Latina e di Trapani, ebbe la maggioranza la Monarchia. Le punte repubblicane più elevate si ebbero a Ravenna (88 per cento), Trento (85 per cento), Forlì (84 per cento), Grosseto, Reggio Emilia e Ferrara (80 per cento) e in generale Emilia e Romagna (77 per cento). Le più alte maggioranze monarchiche si registrarono nelle province di Lecce (85 per cento), Caserta (83 per cento), Napoli e Messina (77 per cento).
La Corte di Cassazione in quel pomeriggio del 10 giugno aveva compiuto la proclamazione prevista dal decreto legislativo sul referendum oppure si era trattato di una operazione interlocutoria, non vincolante? In altre parole l’Italia era ancora monarchica o era già repubblicana? Intorno a questa controversia si accende uno dei capitoli più tempestosi di quelle giornate. Dapprima parve che il re intendesse cedere l’esercizio dei propri poteri a De Gasperi, affidandogli una specie di luogotenenza, poi questa decisione rientrò. Tutto quanto avvenne In quei giorni è abbastanza oscuro ancora oggi. Confrontando testimonianze, rileggendo le cronache, se ne ricava un senso di confusione, di precipitazione, di paura, di sospetti. Il Consiglio dei ministri sedette praticamente in permanenza, mentre De Gasperi faceva la spola tra il Viminale e la Reggia, di ora in ora più angosciato per la imprevedibile piega degli avvenimenti. Trascrivo dal libro di Romana Catti De Gasperi lo squarcio di un colloquio che il presidente del Consiglio ebbe con il re nel momento più acuto della crisi: «lo scompaio», disse Umberto, «vi affido l’esercito, la marina, mi astengo da qualsiasi gesto che possa scatenare la guerra civile. Non potete chiedermi di più… ».
IL DRAMMA DI DE GASPERI
«Anch’io», rispose De Gasperi, «ho fatto di tutto per salvare l’unità d’Italia che oggi è in pericolo. Non possiamo restare nell’equivoco».
Ma il re si alzò e puntando le mani sul tavolo disse: «E cosa ho fatto io in questi mesi? Ho firmato la sentenza di esilio, ho dato costante prova di lealtà; ora non posso abbandonare il posto fino a che la decisione non sia divenuta definitiva. Sarebbe una fuga che mi verrebbe rinfacciata dai miei sostenitori e anche dalle sinistre… Non casca il mondo se passa qualche giorno ».
Il dramma di De Gasperi esplodeva nelle riunioni di gabinetto davanti all’oltranzismo dei ministri repubblicani. Nenni in una pesante aria di tragedia gridava: «Non c’è nessuno che possa contrastarci». Scoccimarro, comunista, sosteneva che Umberto doveva essere arrestato come usurpatore; Togliatti che era guardasigilli si era attestato almeno ufficialmente su una linea piuttosto prudente, ma stando a quello che ha riferito più tardi un suo portavoce trovò interessante una proposta di Scelba. Il futuro ministro dell’Interno avrebbe sostenuto che De Gasperi non doveva più andare al Quirinale a rendere omaggio a un semplice cittadino. Si doveva invece convocare Umberto al Viminale e se il cittadino Savoia Umberto si rifiutava avrebbe offeso il nuovo capo dello Stato e si potevano mandare due agenti a prelevarlo…».
Le ore scorrevano frenetiche. Il 12 giugno fu la giornata più tempestosa, più densa di pericoli. Una violenta dimostrazione monarchica per le vie di Napoli culminò con una sassaiola contro la sede del PCI. Scoppiò un conflitto tra dimostranti e forze dell’ordine, ci furono barricate per le strade. Il bilancio della giornata fu impressionante: sette morti e una sessantina di feriti. Anche in altre città d’Italia ci furono dimostrazioni, ma senza episodi di violenza rilevanti. Era chiaro comunque che sarebbe bastato un nonnulla a scatenare una bufera.
Umberto la sera del 12 giugno andò a pranzo a casa di Luigi Barzini. Il giornalista racconta: «Verso sera il generale Graziani telefonò a casa che sarebbe venuto a pranzo con un amico. Mia moglie era stata investita pochi giorni prima da un camion polacco. Preparammo un tavolino ai piedi del letto. Si dovette piegare la tovaglia in quattro, perché il tavolino era piccolo. i posti erano quattro: l’amico, Graziani, Bergamini, io. Mia moglie, seduta nel letto, bendata. La giornata era stata tumultuosa e caldissima. Il Consiglio dei ministri sedeva in permanenza. Per loro la Repubblica era già nata, De Gasperi era il capo dello Stato, Umberto un usurpatore.
«Qualcuno a Roma, davanti al Quirinale, sperava ancora in una decisione della Corte, in altro referendum, in un miracolo. Era molto difficile abituarsi all’idea. Io sapevo che non restava al re che una cosa da fare, nelle tradizioni delle monarchie: ritirarsi nelle terre più fedeli, quelle che gli avevano dato la maggioranza, proclamare al paese la illegalità dei referendum per i molti imbrogli e attendere. Era la guerra civile. Sapevo anche che Umberto non l’avrebbe mai scatenata. L’ammiraglio Stone lo aveva avvisato (ma l’avviso era stato superfluo): “In caso di una difesa armata della monarchia non possiamo garantire, con le forze in nostro possesso in Italia, la frontiera orientale”. Tito, secondo le agenzie anglo-americane, stava ammassando truppe alla frontiera giuliana. Ci voleva Poco a scatenare la terza guerra mondiale.
«A notte, quindi, continua Barzini, «mentre i ministri sedevano tempestosamente al Quirinale e Nenni spingeva il riluttante De Gasperi a gesti di forza, il re arrivò a casa mia. rannicchiato in una piccola automobile, accompagnato dal generale Graziani. Umberto era stanchissimo e commosso. Da giorni riceveva moltitudini di persone piangenti, sconosciuti arrivati da ogni parte d’Italia in pellegrinaggio, vecchi generali, veterani, fedeli della Casa, popolani, donne dei popolo, ministri e l’emozione continua l’aveva logorato. Egli si studiava di non far apparire i suoi sentimenti, di comportarsi in modo da consolare noi, da tranquillizzarci. Conversava scherzosamente come un uomo che avesse lasciato dietro le spalle un tavolo da lavoro, le noie, le preoccupazioni e non permettesse che gli disturbassero il pranzo.
UNA NOTTE INSONNE
«Ma gli occhi tristi, stanchi, e pazienti» , riferisce ancora il racconto di Barzini, «lo tradivano. Quella sera non parlammo di gravi problemi. Né io gli chiesi particolari curiosi, né lui aveva voglia di raccontare. L’argomento tuttavia era sempre lo stesso. Vi si passava vicino per quanti sforzi si facessero. Parlò ad esempio del Portogallo. Quando ero ragazzo, disse, a Racconigi una volta all’anno partivano i guardacaccia per andare in Portogallo a prendere pernici e fagiani di una razza particolarmente pregevole delle tenute della famiglia reale portoghese. “Se sei buono”, gli dice. vano, ti mandiamo in Portogallo a trovare la zia”. Egli non era mai stato in quel paese e sempre nel suo ricordo affiorava la promessa mai mantenuta della sua fanciullezza. “Forse”, disse Umberto, “sono stato troppo buono e vado in Portogallo..»
«Più tardi» – racconta ancora Barzini – «andai al giornale. Da un telefono del Tempo gli diedi l’informazione giunta un minuto prima che i ministri avevano deciso di non attendere l’ultima decisione della Corte e avevano nominato De Gasperi. Poi non seppi più nulla. Il re partì il giorno dopo. Nelle fotografie pubblicate dai giornali indossava lo stesso abito che aveva portato la sera prima a pranzo. Non si era coricato tutta la notte. Mi dissero che quando gli presentarono le varie possibilità, arrestare il governo, ritirarsi a Napoli, partire senza passare i poteri, egli scelse l’ultima».