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Umberto di Savoia Luogotenente Generale – II parte

By Gennaio 10, 2022No Comments

Gli studi, la carriera militare, il matrimonio

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Re Umberto II Luogotenente Generale del Regno

Re Umberto II Luogotenente Generale del Regno, copertina dell’opuscolo di Nino Bolla

A questo punto, l’interesse nostro e, cer­tamente, pure quello dei lettori, non può non acuirsi verso gli studi classici compiuti da S.A.R. È in quegli anni che si forma il carat­tere, l’indole si rivela, e l’uno e l’altra sono influenzate precipuamente dalle letture fatte e dagli ammaestramenti ricevuti.

Capire Dante è cosa diversa dall’amarlo. Amare Orazio è cosa diversa dal capirlo. E, preferire il Virgilio dell’Eneide al Virgilio delle Egloghe, non è tanto capirlo od amarlo quanto subirne l’influsso magico in un unico senso. Mentre i due aspetti della medesima Arte possono in un temperamento forte e deciso portare al più equilibrato e più umano dei giudizi, sia verso se stessi che verso gli altri.

L’Alighieri attrasse particolarmente il Prin­cipe Umberto. Alcune terzine e taluni versi danteschi indussero il giovane studioso a com­menti personali ch’ Egli discuteva con il pro­prio professore: «Quando si lessero i canti relativi a Cacciaguida ebbi dallo Scolaro Augusto riflessioni savie sul mirabile confronto fra la semplicità di Firenze antica e la ripro­vevole intemperanza della nuova…».

Riflessioni significative — specie nel mo­mento politico attuale — se appaiate a quelle relative alle teorie di Niccolò Machiavelli. «Giudicava troppo ardite le concezioni del Principe, salutari forse alla rigenerazione dell’Italia di allora, non però consigliabili come mezzo atto a sostenere abitualmente un po­tere dinastico». Nessun accenno al Superuomo et similia; eroi umani, vale a dire autori umani: Ariosto, Tasso, Panini, Alfieri, Foscolo, Leo­pardi, Manzoni, Pascoli… Ammirazione parti­colare per Galileo Galilei, genio tanto sfortu­nato quanto grande.

Dei latini, oltre Virgilio (la gloria di Roma è gloria dell’Italia) amava Plauto,

Riflessioni significative — specie nel mo­mento politico attuale — se appaiate a quelle relative alle teorie di Niccolò Machiavelli. «Giudicava troppo ardite le concezioni del Principe, salutari forse alla rigenerazione dell’Italia di allora, non però consigliabili come mezzo atto a sostenere abitualmente un po­tere dinastico». Nessun accenno al Superuomo et similia; eroi umani, vale a dire autori umani: Ariosto, Tasso, Panini, Alfieri, Foscolo, Leo­pardi, Manzoni, Pascoli… Ammirazione parti­colare per Galileo Galilei, genio tanto sfortu­nato quanto grande.

Dei latini, oltre Virgilio (la gloria di Roma è gloria dell’Italia) amava Plauto, Terenzio, Catullo, Tibullo, Properzio… Da notare, e sottolineare, l’aver S.A.R. particolarmente gustato nelle satire di Orazio «le sferzate alla nobiltà superba»; in correlazione al fatto della tra­scrizione intesta ad un esemplare del Suo albero genealogico della terzina in cui Dante così apostrofa la nobiltà del sangue:

« Ben sei tu manto che tosto raccorce; sì che, se non s’appon di die in die,
lo tempo va dintorno con le force » .

La prima nobiltà è quella dell’animo; la prima aristocrazia è quella dell’intelligenza, che è privilegio dato da Dio, non da semplici uomini.

Degli autori greci, oltre Omero (le avven­ture di Ulisse, precorritrici e annunziatrici delle avventure di Enea!) Eschilo, Sofocle, Aristofane, Erodoto, Tucidide, Senofonte, Demostene… interessarono il Discepolo, avido di sapere, per un domani in cui il sapere sopra tutto avrebbe dovuto appoggiarlo.

Cesare — quello vero, l’Unico! — entu­siasmò lo Studente sabaudo per il genio strategico e la semplicità nel narrare le sue grandi operazioni militari.

E militare — come tutti i suoi Predecessori — volle essere anche il discendente dei Savoia. Quattordicenne, entrava nel Collegio Militare di Roma; diciassettenne, s’ arruolava volontario nell’ Esercito. L’arma? La più glo­riosa e la più modesta al tempo stesso: la Fanteria, non a torto chiamata Regina delle battaglie.

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Data l’alta statura, S.A.R. venne destinato ai Granatieri, quei magnifici soldati che, re­gnando e guidando Vittorio Emanuele III, fra il 1915 e il 1918 insieme con gli Alpini ed i Bersaglieri formarono la stupenda triade eroica per cui lo stesso nemico giunse al riconosci­mento ammirato.

Allievo della Scuola Militare di Modena nel 1921, il Principe Umberto ha percorso i vari gradi susseguenti, fino a quelli massimi, accet­tando entusiasta la più rigida disciplina.

Esigentissimo in servizio, affabilissimo con tutti fuori servizio, chi ha avuto la ventura di conoscere S. A. R. e dipenderne o momentanea­mente comandarlo, non ha potuto non amarlo. Noi Italiani, ipercritici per natura, difficilmente «idolizziamo»; l’idolatria imposta, è regresso, non progresso: possiamo subirla, non accettarla, e al momento opportuno ci ribelliamo. Ma a chi lo merita, devoti sempre. (La politica non ha nulla a che vedere con la devozione. La gente interessata è la meno devota, perché oggi è dovuta a questo e domani a quello con una volubilità che ripaga chi l’interesse serve o dell’interesse si serve).

È noto l’interessamento fattivo del Principe nei riguardi delle Forze Armate, in ispecie per la Fanteria. S’occupò del perfezionamento delle Scuole Militari, da quella di Modena alle minori. L’opera assistenziale fra le truppe, affinché le condizioni del nostro soldato miglio­rassero, trovò in S.A.R. il più alto appoggio. Particolare cura Egli pose in favore dei sottuf­ficiali, spina dorsale dei reparti, e in pro’ dei marescialli carichi di famiglia. Fece costruire Ospedali militari, altri ne aiutò, sempre. Opera generosa, silenziosa, senza quella pubblicità giornalistica spettacolare monopolizzata da al­tri, che spesso ha illustrato proprio ciò che mancava.

6.

L’ 8 gennaio 1930 Umberto di Savoia s’ u­niva in matrimonio nella Città Eterna con la Principessa Maria Josè del Belgio. Roma-Amor! Mai vincolo nuziale era apparso sotto segni propiziatori più felici: figlia dell’eroico e compianto Re Alberto I, il quale aveva affrontato con il suo ammirevole popolo la prima ondata dei barbari moderni, andava sposa all’erede di una Dinastia che sempre servì, nella disciplina e nell’ordine, le più nobili idee di libertà e di giustizia.

Particolare d’indubbio significato politico in­terno: ogni Provincia volle quel giorno inviare una sua rappresentanza. Devozione singola, nella più perfetta delle unioni nazionali. («La Monarchia ci unisce, la Repubblica ci divide», disse in altre ore serissime Francesco Crispi. Ed era un Uomo, quello, che se ne intendeva!).

Nata il 4 agosto 1906 ad Ostenda, dal reale discendente della Casa Sassonia-Coburgo-Gotha e dalla Regina Elisabetta dei Principi di Ba­viera, Maria Josè – come il popolo la chiamò in Italia, nel Collegio della SS. Annunziata al Poggio Imperiale, respirando quella magata atmosfera di arte e di purezza di stile per cui Firenze è assurta a simbolo di creatrice del nostro idioma e custode del nostro più squisito sentire. La pittura e la musica ebbero la predilezione della Augusta Ospite. Bella d’ una bellezza tutta grazia che sovrasta la leg­giadria (qualità, quest’ ultima, essenzialmente esteriore, mentre quella riceve la luce dall’ in­timo); buona, d’ una bontà spontanea che sboc­cia dall’ animo come un fiore non appassibile, Maria Josè del Belgio diventando Principessa di Piemonte ha unito il proprio destino a Colui che la bellezza fisica e la bontà d’ animo, unite al gran nome, fanno un eletto della nostra nazione. Nazione di poeti e di guerrieri, di filosofi e di eroi, e, purtroppo, anche di avventurieri. Grandi avventurieri, sia pure momentaneamente. Ultimo della serie, quel Mussolini che sfidò persino la più immeritata delle fortune. Non a caso ho ricordato questo nome, cui sono legati tanti dolori e tanti lutti; perché è bene si sappia, e già si sapeva, come il cosiddetto «duce» considerasse ostile l’atteggiamento fiero e dignitoso del. Principe Ereditario: tentando in conseguenza quella grassazione alle leggi statutarie che nei disegni reconditi del tribuno avrebbe dovuto permet­tergli al giusto momento — la sorte volendo —di tentare un assalto alla Hitler, che il destino sventò; o che gli permise, dopo l’8 settembre, con la più ridicola delle repubbliche, la quale avrebbe fatto e farebbe ridere se da troppi cigli non fossero sgorgate, e non sgorgassero ancora, lacrime di sangue. Tale assalto, il megalomane di Piazza Venezia lo avrebbe tentato anche prima se lo stupore addolorato del popolo italiano dinanzi alla improvvisa deci­sione di dare nel 1940 il colpo di grazia” alla Francia in ginocchio («o grande Francia, senza di te il mondo non potrebbe esistere») si fosse tramutato in una ostilità più palese da parte della Monarchia. Ma se la buonafede non è una finzione, bisogna riconoscere che eravamo oramai tutti invischiati nella sottile tela di ragno che il camaleontico dittatore, socialista nazionalista fascista comunista eccetera, aveva ordita da solo in quel salone del Mappamondo il quale – usiam o pure una bruciante ironia, indice più di stoicismo che di superficiale spi­rito – potrebbe chiamarsi nella species fatti salone del Gabbamondo.

Non il Principe ubbidì a comandi superiori, o riferì disciplinatamente su operazioni bel­liche; ma il militare, che ha come legge d’onore di compiere il proprio dovere, quale che sia. È più duro eseguire un ordine non sentito, che rimanere assenti dal dramma e volerlo giudicare in seguito con un diritto non acquisito dalle prove sofferte e superate. Solo il sangue versato può lavare ogni colpa; non il silenzio ingannevole o la comoda lontananza, o le facili parole di poi, di cui son piene – come del senno tardivo – le cronache odierne.