Un vivo risentimento verso la monarchia serpeggiava fra i reparti italiani che subito dopo l’8 settembre avevano varcato la frontiera per sottrarsi alla deportazione in Germania ed erano stati internati dagli svizzeri.
Maria José poté constatare di persona, venendo a contatto con quelle poche migliaia di connazionali, i primi sintomi del contrasto che dopo la guerra avrebbe diviso la nazione.
Pro e contro i Savoia. Per rispetto alla neutralità elvetica, la principessa di Piemonte doveva astenersi da qualsiasi attività politica; nondimeno ebbe accordato da Berna il permesso di compiere un giro attraverso i campi degli internati militari e di informarsi di quelle necessità che per tramite della Croce Rossa poteva soddisfare. In alcuni, a sua visita venne accolta con inarata freddezza. Ma vi furono altri campi dove l’arrivo di Maria José diede luogo a manifestazioni di rispetto e di simpatia.
Un piccolo ricevimento
Fui testimone della cordiale accoglienza che le fecero ufficiali e soldati del piccolo campo di Siselen, dove io ero internato. Era un uggioso, umido pomeriggio di fine settembre. Maria José, accompagnata dal marchese Resta Pallavicino, giunse verso l’imbrunire, a bordo di una vecchia Citroën con la targa della Croce Rossa svizzera: era pallida, stanca, infreddolita e malinconica. Vestiva di nero, calzava scarpe nere basse e un paio di calzini bianchi che dovevano appartenere al suo equipaggiamento di crocerossina. L’espressione del viso quando ella scese dall’automobile, rivelava la sua incertezza circa l’accoglienza che poteva esserle riservata. Gli ufficiali avevano raccomandato ai soldati, alcuni dei quali erano maldisposti, di non mancare almeno agli elementari doveri di cavalleria. La grazia, la semplicità dell’augusta visitatrice conquistarono anche i meno favorevoli. Tutti si comportarono in modo superiore a ogni speranza. E quando l’ufficiale più alto in grado ordinò il saluto alla voce, un ’’Viva il Re!” spontaneo, sincero partì da tutti i petti. Non avevamo nulla da
offrire alla principessa, volendo improvvisare un piccolo ricevimento. In riserva, nella dispensa della nostra mensa, non c’era che una bustina di caffè in polvere. Le chiedemmo se lo gradiva. « Sì, sì, grazie», rispose con entusiasmo. E allora, davanti a lei. con un pentolino d’acqua bollente, venne confezionata all’istante una tazza di caffè. Maria José la bevve con manifesta voluttà, come la bevanda più squisita che avesse mai gustata.
Resta Pallavicino le faceva segno che si era fatto tardi, che bisognava andar via, ma Maria José indugiava, provava evidente piacere a rimanere fra italiani amici. I suoi occhi lucevano di commozione. Due giorni dopo, giunse a Siselen un grosso pacco. Conteneva un apparecchio radio, maglie, sciarpe e calze di lana; e anche una scatola di caffè in polvere (merce razionata); il tutto, accompagnato da un biglietto di Resta Pallavicino. Non ricordo le parole esatte, ma il biglietto ci pregava di gradire i ringraziamenti di Sua Altezza per la gioia che, quel pomeriggio, le avevamo procurata.
Maria José, nei diciotto mesi trascorsi in Svizzera, incontrò anche numerosi rifugiati politici italiani. Potè, per esempio, vedere Luigi Einaudi col trasparentissimo pretesto prendere da lui lezioni di economia che poi seguì con interesse.
La prima volta che il futuro primo presidente della repubblica si recò da lei in visita à Oberhofen per trascorrervi un week-end. era così sprovvisto di indumenti che il marchese Resta Pallavicino dovette prestargli uno dei suoi pigiama.
«Sul finire della guerra» racconta Maria José, « mi venne consentita una maggiore libertà di movimento c potei far ritorno nella Svizzera francese, a Glion, sopra Losanna. C’era un campo di internati italiani, che giocavano come i bambini coi miei figli. Vittorio, Maria Pia, Gabriella si facevano portare a spasso con lo slittino. Erano diventati amiconi di tutti, chiamavano ognuno per nome. Un giorno, recandomi a Berna, conobbi un italiana di grande talento. Concetto Marchesi. Avevo letto la sua Storia della letteratura latina, conservo quel libro nella mia biblioteca. Marchesi era un conversatore piacevolissimo, mi trattenni a parlare a lungo con lui. Era presente il conte Gallarati Scotti ».
Il 29 aprile 1945, quando l’impazienza di far ritorno in Italia la indusse a rivarcare a piedi il confine, scalando le montagne in compagnia di una guida valdostana, Maria José si trovò faccia a faccia con i partigiani comunisti: « Il mio ritorno in Italia », racconta, « fu avventuroso. Salii a piedi sino al colle del Gran San Bernardo. Lì trovai una macchina per proseguire. Arrivai ad Aosta scortata da comunisti in motocicletta, ma non ebbi la minima molestia. Si sparacchiava da tutte le parti, lungo la strada. Ricordo quel viaggio ancora con emozione. I valdostani erano sempre stati gentili con noi. trovai gentilezza e sorrisi anche in quei giorni. Sempre scortata dai comunisti in motocicletta, passai senza inconvenienti tutti i posti di blocco. Mi fece impressione vedere, nei paesi, le donne che avevano ’collaborato
coi tedeschi rasate a zero e le ciocche dei loro capelli per terra. Ad Aosta, volli assistere al Te Deum nella cattedrale, sebbene qualcuno me lo avesse sconsigliato, temendo che la mia presenza potesse sollevare incidenti. Non accadde niente.
Rimasi in mezzo alla folla, c’erano molti partigiani con le sciarpe rosse, nessuno mi fece uno sgarbo o disse una parola che potesse offendermi. Proseguii per Racconigi e anche lì, non so perché, dei comunisti armati vollero scortarmi quando andai a Messa. Due o tre giorni dopo, con un aereo che era venuto a prendermi, partii per Roma».
Ispettrice generale delle infermiere della Croce Rossa, si era preoccupata, prima di lasciare la Svizzera, di procurare alla organizzazione, attraverso un prestito di banchieri elvetici garantito dalla Croce Rossa Internazionale di Ginevra, i mezzi per funzionare efficacemente. Tutta l’Italia era in rovina. Centinaia di migliaia di profughi avevano bisogno di un tetto, di viveri, di medicinali. Maria José avrebbe voluto liberamente accorrere dove la sua opera, la sua presenza potevano essere utili. « Invece », dice, « non si poteva fare abbastanza. Il Re ed io abbiamo costantemente questa preoccupazione. Ci siamo prefissi di non far nulla che possa sollevare discordie fra gli italiani ».
Al balcone del Quirinale
Nei mesi della luogotenenza e nelle settimane del breve, contrastato regno di Umberto, Maria José fu interamente, lealmente vicina al marito, ammirò la dignità e la forza d’animo di lui, fu con lui pienamente solidale, rifiutando di prestarsi a soluzioni di ripiego. Certamente allora Maria José volle mantenere ciò che si era prefissa alla vigilia del suo matrimonio con Umberto: di affrontare con lui le difficoltà, i pericoli, le incertezze che molti le avevano prospettato prima che lasciasse il Belgio. « Non ho voluto -, mi ha detto, – neppure per un istante far pensare che la nostra famiglia potesse essere divisa e che potesse esistere la minima diversità di vedute sulle questioni dinastiche, tra me e mio marito ».
Era in visita ai sinistrati di Cassino, fra le macerie della città distrutta. il giorno in cui Vittorio Emanuele III abdicò. Il sindaco che la guidava nella visita era un repubblicano. L’umore della popolazione era cupo, c’era il pericolo che qualcuno lanciasse un sasso, facesse un gesto ostile. Poi la calma, sorridente gentilezza di Maria José conquistò gli animi. Coloro che si tenevano in disparte cominciarono ad avvicinarsi, l’atmosfera si scaldò. Maria José prolungò la sua visita sino a pomeriggio inoltrato, instancabile, senza avere toccato cibo. Ripartì per Roma senza sapere di essere già diventata Regina.
«La Regina di maggio, Non mi dispiace che mi abbiano chiamata così », dice Maria José; «dopo tutto, non suona male. Maggio è il mese dei fiori, un mese gentile. E l’Italia, in maggio, è così bella. Ricordo la fugace impressione di esultanza che provai quando il Re ed io ci affacciammo al balcone del Quirinale, con i nostri figli, per salutare la folla che ci acclamava. E ricordo anche i lividi che mi fece mia figlia Titti, che aveva tre anni e mi dava dei pizzichi terribili nelle gambe perché voleva che la prendessi in braccio ».
Quella giovane coppia che ereditava il regno in un’ora così incerta non poteva più fare molto per tentare di conservarlo. Per la prima volta, nella storia della dinastia, Umberto II dovette rinunciare alla formula: ’’Per grazia di Dio e per volontà della nazione, Re d’Italia”. La nazione avrebbe dato il suo responso tre settimane dopo.
L’esito negativo del referendum venne appreso da Maria José quasi contemporaneamente alla decisione di Umberto di farla partire subito, con i figli, e tutti i principi di casa Savoia, per il Portogallo. La Regina e i principini, con un seguito ridotto al minimo, lasciarono il Quirinale il 5 giugno 1946, verso le quattro pomeridiane. Fu una partenza organizzata in fretta. Non si poté, lì per lì, provvedere a tutto. Umberto aveva promesso a De Gasperi che la moglie e t figli si sarebbero messi in viaggio appena si fossero conosciuti i risultati elettorali, eppure la contessa Spalletti, dama di servizio in quei giorni, era autorizzata ad accompagnare Maria José nel Portogallo. L’ordine era che si fermasse a Napoli; il permesso che anche lei prendesse imbarco sul Duca degli Abruzzi, pronto a salpare nella rada, fu strappato al generale Infante, primo aiutante del Re, all’ultimo momento. Maria José, lasciando Roma, non ebbe neppure il tempo di prendere commiato dagli amici che le erano più cari. Zanotti Bianco fu informato di ciò che accadeva quando già il piccolo corteo delle macchine che conducevano la Regina e i suoi ragazzi verso l’esilio filava sulla strada di Napoli: egli raggiunse il gruppo dei partenti col primo treno, precipitosamente.
Maria José era persino sprovvista della valuta necessaria per le prime occorrenze in terra straniera. A Napoli, Fernanda di Miranda le diede un po’ di sterline e Zanotti Bianco alcuni franchi svizzeri. « Il Re mi aveva raccomandato di recarmi a Capodimonte, dalla duchessa di Aosta madre, per informarla che doveva partire con noi», racconta la Regina. « Feci del mio meglio per persuaderla. ’’Finché le mie vecchie ossa reggeranno”, mi rispose lei, non mi muoverò di qui”. Era furiosa, ed aveva ragione. Rimase, e fece bene, perché sino alla fine dei suoi giorni nessuno le recò molestia. Fui io a portarle la notizia che il referendum era stato negativo per la monarchia. Stentava a crederci: le erano stati riferiti i primi risultati conosciuti a Napoli, che davano la Monarchia vincente».