Merlinge, dicembre 1953
«Questi personaggi del mio libro» dice improvvisamente Maria José «mi sono venuti incontro senza che nemmeno io sappia dirle come e quando. Ho finito per vivere con loro, ormai: sono entrati nella mia vita d’ogni giorno come io sono entrata nella loro vita del XV secolo».
Ci troviamo nell’ampio studio dell’ultima Regina d’Italia. È una stanza rettangolare sita al piano elevato della gentilhommière che Maria José possiede, da qualche anno, nella campagna di Ginevra, sulla riva sinistra del lago Lemano. Qui dentro, in questa tranquilla stanza stipata di libri, Maria José ha passato lunghe giornate di lavoro. Spesso l’ex regina interrompeva appena la consultazione di testi e di documenti, per una rapida colazione. Nell’aprile del 1950, quando io potei dare, per primo, notizia del libro di Maria José, persona del suo immediato entourage mi diceva: Sua Maestà rimane otto o dieci ore al tavolo di lavoro, tanto che siamo tutti un po’ preoccupati per lo sforzo visivo cui si sottopone. Ma in quelle ore si sente davvero fuori del tempo, in un altro mondo».
Nello studio notiamo subito alcune preziose carte conservate sottovetro: una pergamena, indirizzata da un Duca di Savoia al Conte di Villafalletto. E allora il presente scompare e noi restiamo soli con le memorie del passato, fuori del tempo e, direi quasi, dello spazio. Perché né questa casa da gentiluomo di campagna, né la barra di confine tra Svizzera e Francia, poco distante, esistevano quando i personaggi di cui l’augusta donna mi parlava signoreggiavano l’uno e l’altro lato della frontiera. Le terre e le città, che, oggi, fanno parte del cantone svizzero di Ginevra e del dipartimento francese dell’Alta Savoia, appartenevano, allora, tutte quanto al Conte Verde, al Conte Rosso e al primo Duca sabaudo, Amedeo VII, cioè a quei personaggi che l’ex Regina sente vivere» nella sua vita quotidiana e che sono al centro del suo libro.
Quel libro è la rievocazione di un momento assai importante della storia di Savoia. d’Italia e d’Europa: il momento dell’apogeo di quei conti sabaudi con nomi che i francesi direbbero à panache. E di sciarpe e pennacchi verdi e rossi, che sembravano vaticinare i colori italiani erano veramente adornati Amedeo VI, il Conte Verde e Amedeo VII, il Conte Rosso.
Dei due o tre volumi di cui sarà composta l’opera (l’autrice stessa non sa ancora quale sarà l’ulteriore sviluppo della materia) è stato condotto a termine solo il primo e sta per esser consegnato all’editore Arnoldo Mondadori. Con questo primo volume si giunge a quell’assai singolare personaggio che fu Duca e antipapa, ma un antipapa riconosciuto dal Papa legittimo quando venne posto fine allo scisma, tanto che il duca di Savoia Amedeo VII, antipapa sotto ilnome di Felice V, ebbe riconosciuto il diritto di farsi chiamare Santità fino al termine dei suoi giorni.
«Un personaggio davvero enigmatico» osserva Maria José «la cui vita mi ha attratto ancor più di quella degli altri, come pure mi attrae straordinariamente la vita di Margherita d’Austria, la moglie di Filiberto il Bello, duca di Savoia».
Siamo ormai afferrati dalle pagine di storia sabauda che Maria José rievoca mentre ammira un prezioso in folio che le ho portato per consultazione, avendolo avuto in prestito da Maurice Sandoz, il bibliofilo e collezionista di rarità di cui le cronache si sono largamente occupate per il furto del miroir chantant, il famoso specchio con una rosa che racchiude un uccellino canoro e che Napoleone avrebbe regalato alla contessa Maria Walewska, secondo una leggenda assai diffusa nel mondo dell’antiquariato ma che sembra destituita di fondamento, poiché appare certo che il leggiadro oggetto fu ultimato nel 1818, quando cioè Napoleone era a Sant’Elena.
«Le dirò, anzi» riprende la Regina «che Amedeo VII e Margherita d’Austria sono divenuti due personaggi centrali del mondo dove gli storici hanno finito per farmi vivere, un mondo davvero straordinario e in cui sia i miei amici archivisti, sia gli accademici della Fiorimontana e della Chablaisienne, le due società storiche savoiarde, si muovono a loro agio e fanno muovere le statue di pietra di Altacomba e di Brou, sepolcreti dei Savoia, come esseri viventi».
Maria José s’interrompe di nuovo e poi dice: « Sa lei che gli accademici di quelle società sono così puristi da non ammettere che si dica savoyard, ma savoisien perché savoiardo avrebbe un significato peggiorativo, per quanto sia ormai nell’uso francese? E io debbo stare sempre attenta a non sbagliarmi, con loro».
La nostra conversazione si è svolta in italiano, ma quel richiamo a parole francesi ci porta a una breve divagazione.
«Ho sempre paura di sbagliarmi anche in italiano » osserva con gentilezza questa signora divenuta italiana quando già conosceva benissimo la nostra lingua « e ho fatto tanti esercizi, per non aver troppo l’erre moscio, che è così antipatico nella conversazione italiana… Pensi che mi sono anche adattata a quello strumento che usano le artiste di canto e che si mette sul… gosier… ecco, vede, non ho trovato subito la parola gola! »
E Maria José volge uno sguardo implorante a due fotografie dedicate a lei, da Gabriele d’Annunzio e da Benedetto Croce, e che sono poste fra gli scaffali della biblioteca della sua stanza di lavoro. Ampi scaffali che coprono quasi interamente le pareti e s’innalzano fino al soffitto.
Un tavolo ci è di fronte e ci separa dal caminetto dove arde un fuoco di legna per togliere, alla temperatura della vastissima stanza, quel senso anonimo del riscaldamento a termosifone. E sul tavolo c’è un volume del Corpus Nummorum Italicorum, l’opera che illustra e commenta la preziosa raccolta numismatica di Vittorio Emanuele III, donata allo Stato italiano al momento dell’abdicazione, il 9 maggio 1946. Quel volume ci riporta alla storia della Savoia nel quindicesimo secolo o, più precisamente, ad Amedeo VIII e a Margherita d’Austria che, come si diceva, sono i personaggi che più attraggono Maria José quelli che le sono venuti incontro « senza che nemmeno se ne accorgesse », per riprendere le sue stesse espressioni.
La Regina, prima di dedicarsi alla storia, aveva cominciato ad appassionarsi, quando la sua vista non destò più troppe preoccupazioni, agli studi d’antropologia, sotto la guida di Eugène Pittard, uno dei maggiori studiosi della materia, il quale solo due anni fa ha lasciato, ottantenne, la sua cattedra all’Università di Ginevra.
Come dall’antropologia Maria José sia saltata alla storia è difficile dirlo e la spiegazione migliore a me sembra proprio quella stessa fornita dall’ex Regina: vivendo in una terra che fu la culla della Casa in cui è entrata, si è vista rivivere intorno gli uomini che fra l’antico regno di Borgogna e il potente Ducato di Milano dovevano creare uno Stato Che ebbe la sua parola da dire, signoreggiando i grandi valichi alpestri.
Quella parola. – Maria José ha colto giusto – poté essere articolata da quando, con Amedeo VI Conte Verde, nacque l’idea di una patria comune a tutti i savoiardi e i singoli capi ed i diversi popoli di quelle terre si vollero raggruppare o furono uniti per altrui volontà, intorno alla dinastia e alla rossa bandiera dalla croce bianca dei Savoia. Sono
gli anni che vanno dalla peste di Firenze, descritta dal Boccaccio nel Decamerone (1348) e che non fu meno terribile nelle fredde Alpi, al ritiro di Amedeo VIII dal papato o meglio dall’antipapato (1449).
Il Conte Verde, primo signore savoiardo, il quale lotta duramente contro i Visconti di Milano, contro i Turchi e i Napoletani, fonda l’Ordine dell’Annunziata, si fa riconoscere « vicario perpetuo ed ereditario» dell’Imperatore per l’Italia, ha dato molto da fare a Maria José. «Vede, sarebbe stato facile lavorare su Carlo Emanuele I, specialmente adesso che è venuta in luce tutta la sua corrispondenza col generale d’Albigny, la quale dimostra anche ai ginevrini come il vero responsabile del tentativo d’impadronirsi di Ginevra nel 1602 (quest’anno ricorre appunto il 350mo anniversario) sia stato quel comandante. Ma ho preferito ricostruire un periodo nel quale scarseggiano i documenti e la ricostruzione è più appassionante.
Questo Maria José mi dice non tanto per vantare la sua fatica, quanto per giustificare il lavoro di finitura che sta facondo del primo volume, il quale solo adesso, dopo quasi tre an-ni di pazienti ricerche, può dirsi interamente compiuto.
È stato certo un lavoro improbo.
E non solo per quanto riguarda la figura splendente del Conte Verde e quella enigmatica di Amedeo VII, ma anche per il breve regno del Conte Rosso. Tutto quello che è stato scritto sul preteso avvelenamento di Amedeo VII non risponde infatti a verità. Neppure rispondono a verità certi particolari della cronaca di Monstrelet in cui si afferma che Amedeo Vili, prima di essere antipapa, si ritirò nel castello di Ripaille per far vita religiosa insieme a alcuni nobili, ma in realtà per darsi ai bagordi.
Tanto che da quella cronaca è nato il modo di dire francese faire ripaille per significare far gozzoviglia.
Non è detto che, terminato questo primo lavoro. Maria José non affronti la fatica di un secondo libro; per esempio su Margherita d’Austria, moglie di Filiberto il Bello, alla cui memoria fu sempre fedelissima quella principessa, che fu l’educatrice di Carlo V, l’Imperatore sui cui regni non tramontava mai il sole, da quando i possedimenti del nuovo mondo vennero ad aggiungersi a quelli di Spagna e d’Austria. Maria José, infatti, ha passato lunghe giornate nella chiesa oratorio di Brou, vicino a Bourg-en-Brcsse, che Margherita volle erigere in ricordo del suo bellissimo marito.
Sepolto fra la madre Margherita di Borbone e la moglie Margherita d’Austria, che furono i due grandi affetti della sua vita, Filiberto il Bello sarà forse il nuovo personaggio il quale idealmente si alzerà dalla pietra del monumento di Conrad Meit, che è una sinfonia di gotico francese e borgognone, di ceramiche e di marmi italiani, di vetrate policrome. Lo storico francese Edgar Quinet lo chiamò «l’ultimo canto del menestrello».