Come fu negato al Re il ritorno a Roma
Il triste Natale del 1943 a Brindisi
I trasferimenti a Ravello, a Napoli e a Raito tra mille ostacoli e insolenti imposizioni
Vittorio Emanuele nomina Umberto Luogotenente del Regno dopo un aspro dialogo con Badoglio
Un militare inglese spara contro la Regina che pescava
L’affetto reverente degli umili era l’unica consolazione dei Sovrani
Giunge da Buchenwald la notizia della miseranda morte della Principessa Mafalda e il Re commenta “Povera Mafalda, ora sta meglio lei”.
Brindisi 25 dicembre l943: è un Natale ben triste e ben diverso da quelli che un tempo si festeggiavano a Villa Savoia, quando la Regina preparava per i figli e per i nipoti l’albero di Natale, strapieno dì piccoli, graziosi regali, nascosti in scatolette legate con filo d’argento. Ora molti sono scorati, persino il Re, che è sempre quello che dimostra maggiore forza d’animo, appare turbato. Pochi giochi prima, però, durante un allarme aereo, ha fatto ridere di cuore tutti.
Nel rifugio antiaereo
Le sirene avevano annunciato l’arrivo di aerei tedeschi. I Sovrani, come sempre, si erano preparati a scendere nel rifugio dell’Ammiragliato. Era una misura precauzionale ormai quasi inutile. Brindisi a differenza di Bari e di Taranto, non aveva più registrato una sola incursione aerea dopo l’8 settembre. I tedeschi, che pur non ignoravano come questa piccola città fosse ormai la nuova capitale provvisoria d’Italia e la dimora ufficiale del Re, seguitavano a rispettarla quasi di proposito. Ma il Re aveva disposto che, durante gli allarmi aerei, tutti corressero nei rifugi. La cosa seccava non poco specialmente gli aiutanti di campo che dovevano vestirsi di tutto punto, come sempre avveniva quando essi accompagnavano il Sovrano. Anche le signore avevano presa l’abitudine di far con calma un po’ di toilette, giacché nessuna avrebbe osato presentarsi nel rifugio, dove il Sovrano attendeva la fine dell’allarme, in abiti succinti, come prima accadeva quando le incursioni alleate facevano di notte alzare tutti precipitosamente dal letto.
Una sera, dunque, il Re scese nel rifugio, aiutando la Regina che camminava a fatica. Due giorni prima salendo una scala a chiocciola, la Sovrana si era slogata un piede. Il medico aveva voluto, come misura precauzionale, ingessare l’arto fin quasi al ginocchio.
Il Re, mentre la Regina veniva fatta sedere su di una poltrona, si accomodò, a sua volta, su una sdraio. Ad un tratto si udì uno scricchiolio e prima che qualcuno potesse correre in aiuto si vide il Re andare a gambe all’aria. Forse il sostegno non era stato fissate bene o forse la tela si era rotta come spesso avviene in simili casi.
Il Re fu come una molta. Si sollevò con un’agilità che nessuno avrebbe supposto in lui. Rassicurò tutti: non s’era fatto alcun male. Mentre si spolverava commentò “E’ ancora presto perché tiri le cuoia ». E così dicendo si accarezzò la parte dolente accompagnando il gesto con finte smorfie di dolore così buffe che persino la Regina fu costretta a sorridere, malgrado quel banale incidente l’avesse spaventata non poco.
L’albero di NataleMa il buon umore del Re non era più quello di un tempo, quando egli era solito scherzare con i suoi familiari e con pochi intimi, con i quali amava conservare rapporti semplici, cordiali, lontani da ogni freddezza imposta dall’etichetta di Corte. Ora anche il Re è seccato, ma cerca di non lasciarlo indovinare alla Regina.
La Sovrana, a sua volta malgrado non si possa muovere, ha voluto lo stesso preparare l’albero di Natale nel salottino che l’ammiraglio Rubartelli le ha messo a disposizione. Prima però di abbellire il solito pino con festoni multicolori e con piccole lampadine elettriche, la Regina si è preoccupata perché tutti a Brindisi possano passare un Natale tranquillo e sereno per quanto lo permettano le circostanze. Così ha incaricato la signora Rubartelli e la fedele Rosa Gallotti (che la segue dovunque dal 1925) di girare le case dei poveri portando doni e aiuti in denaro. L’antivigilia di Natale la Regina, mentre parla con la signora Rubartelli, domanda, quasi che un pensiero subitaneo le sia tornato alla memoria: « E Badoglio ha anche lui il suo albero di Natale? ».
La signora Rubartelli allora racconta come sullo yacht dove Badoglio, Acquarone, Valenzano e qualche altro hanno da più di un mese stabilito la loro casa galleggiante nessuno abbia ancora pensato all’albero di Natale. L’imbarcazione avrebbe dovuto a suo tempo essere destinata come regalo del nostro Governo a Re Zog d’Albania. Gli avvenimenti successivi avevano mandato a monte quel dono divenuto ormai inutile e inopportuno, così lo yacht dopo vicende, varie era stato ancorato a Brindisi e qui miracolosamente salvato dalle requisizioni e dai bombardamenti. Badoglio, consigliato dal suo segretario Valenzano, lo aveva chiesto ed ottenuto, ma aveva dovuto accettare di dividerlo con il duca Acquarone anch’egli scontento della stanza che gli era stata assegnata nella casermetta dei sommergibilisti
La riconoscenza di Badoglio
La Regina allora commenta «Bisogna provvedere». Poi vuole che Rosa Gallotti le porti un certo scatolone pieno di carta argentata, di stelle dorate, di code inanellate, simili a quelle che i ragazzi mettono agli aquiloni. Consegna tutto alla signora Rubartelli e dice: «E’ per per l’albero di Badoglio». Infine aggiunge: «Poveretto anche lui é lontano dalla sua casa, dalla sua famiglia, dai suoi figlioli».
Badoglio ricambia a suo modo preparando un messaggio augurale rivolto alla Nazione in cui però il Re viene ignorato di proposito. Vittorio Emanuele lo previene. Incide, a sua volta, un messaggio e ordina che venga subito trasmesso da Radio Bari. Poi vuole che il testo, riprodotto in migliaia di volantini, sia lanciato su Roma da alcuni aerei; perché non è certo che gli Alleati permetteranno che venga messo in onda il saluto che il Re d’Italia ha preparato per i suoi sudditi.
Venti giorni dopo Brindisi cessa di essere la capitale provvisoria d’Italia.
I Sovrani si trasferiscono a Ravello nella villa del duca di Sangro, nota come « l’Episcopio» per essere stata un tempo la dimora del Vescovo. Forse il Re avrebbe continuato a rimanere in Puglia se Badoglio non avesse a sua volta deciso di trasferirsi a Salerno per essere più vicino agli alleati e sempre più staccato dal Sovrano. Però ha fatto male i suoi conti: il Re non lo segue a Salerno, ma gli resta vicino, a trenta chilometri circa, sulla costiera amalfitana.Ma Ravello non è più il meraviglioso e tranquillo paese di un tempo, dove Wagner scrisse l’Incantesimo di Parsifal e Ibsen ideò gli Spettri. Villa Rufolo e Villa Cimbrone sono invase dagli Alleati. Dovrebbero essere posti di riposo per i reduci dal fronte. Sono invece carnai di soldati di tutte le razze, perennemente ubriachi e sempre in cerca di donne. Unica oasi di pace la villa del duca Riccardo di Sangro, in via San Giovanni del Toro, n 16.
Un barbiere per li Re
Fu questa la seconda dimora del Re dopo l’8 settembre. La colonna reale formata da cinque vetture giunse a Ravello l’11 febbraio verso le ore 16 e 30. A ricevere gli ospiti era il duca di Sangro.
In disparte emozionato ed attonito c’era anche don Pantaleone Manzi il custode dell’«Episcopio». I Sovrani prima di congedare il loro seguito e di ritirarsi nelle loro stanze indugiarono a lungo sulla terrazza che strapiomba, quasi a picco, sul mare. Quel meraviglioso spettacolo naturale che solo a Ravello è possibile gustare parve rasserenare gli animi. Ma la più felice di tutti fu indubbiamente la Sovrana perché scoprì in un angolo del salone un piano a coda da concerto, di recente riparato e portato al «corista» in modo perfetto. Il duca di Sangro non aveva dimenticato che un pianoforte era per la Regina il più gradito dei doni.
«I Sovrani – racconta Giuseppe Vilani, attuale custode dell’Episcopio – rimasero in questa villa fino al 18 giugno 1944, appena quattro mesi, dunque. Ma furono mesi intensi, pieni di avvenimenti ». Villani ha sposato la figlia di don Pantaleone Manzi e, dopo la morte del suocero, è divenuto il nuovo custode della villa. Durante la permanenza dei Sovrani Villani capitava all’ Episcopio poi dare una mano a Don Pantaleone. «Un giorno Mio suocero racconta Villani mi disse»: “Il Re vuole un barbiere. Te la senti di fargli la barba? Io da ragazzo avevo fatto il barbiere più tardi però avevo preferito abbracciare la carriera militare. Avevo fatto l’artigliere in Piemonte infine, ero passato nei carabinieri. L’8 settembre mi aveva sorpreso a casa in licenza. Così ero rimasto a Ravello con mia moglie Flora e con mio suocero don Pantaleone. Ma non avevo mai più preso in mano rasoi e pettini. Accettai però lo stesso di radere il Re. Non volevo. davanti a mio suocero mostrarmi incapace.
Signo’ siate tanto bella
Ma la notte prima di iniziare il nuovo mio incarico di barbiere del Re non riuscii a chiudere occhio. Al mattino mi alzai talmente pallido che mia moglie mi chiese Ti senti male? Per tutta risposta stesi la destra: tremava. Gesù pensai cono faccio a radere il Re? E’ se gli taglio la faccia? Per farla breve dirò che quando li Sovrano sedette davanti a me io ero tanto emozionato che non m’accorsi neppure che il Re s’era già sbarbato
Fu il Re a dirmi “tagliatemi i capelli a zero Allora la mia emozione lasciò il posto alla confusione più profonda. Io non possedevo una tosatrice. Dovetti correre fuori, dal primo barbiere che mi capitò davanti agli occhi, e farmi prestare quanto mi era necessario. Radere una testa farla simile a una palla di bigliardo, lo so, non è un lavoro difficile. Ma per me fu una esperienza ancora più emozionante degli esami che dovetti superare quando divenni appuntato, o del sì che pronunciai in chiesa quando presi moglie.Mentre tosavo e radevo il Re dovevo di tanto in tanto rispondere a qualche domanda: dove avevo fatto il militare? quali città avevo visitato? A volte per ottenere da me una risposta il Re doveva ripetere la domanda. Assorto com’ero ed emozionato io non capivo proprio nulla .
Giuseppe Villani non fu il solo ad essere emozionato davanti a Vittorio Emanuele. Un po’ tutti a Ravello perdevano la bussola quando il Sovrano si fermava a chiacchierare del più e del meno con le persone più umili. L’unica a non avere la minima soggezione era una donna, una certa Raffaella Crisone. Abitava a Minori dove faceva la fruttivendola. O meglio aveva abitato a Minori perché poche settimane dopo l’arrivo dei Sovrani a Ravello si era anche lei installata all’ Episcopio, e nessuno era riuscito a farla sloggiare. Le cose erano andate così: il 20 marzo 1944 la Regina aveva voluto compiere un giro nei dintorni: la macchina, giunta nei pressi di Minori, aveva avuto una panne. Mentre l’autista stava cercando di riparare il guasto, s’era avvicinata una donna con un canestro di arance , « Signo’», aveva detto alla Regina «favorite assaggiate pagherete domani, dopo che avrete mangiato questi meravigliosi portogalli». Poi la fruttivendola aveva chiesto con una certa ingenua furbizia: « Signo’, siete tanto bella: chi siete?». « Sono la tua regina», aveva risposto con un dolcissimo sorriso la Sovrana. La fruttivendola era rimasta per un attimo senza parola. Aveva sgranato gli occhi poi aveva soggiunto: « Gesù, Gesù . Ed era scappata via».
Intrighi attorno al Sovrano
Elena di Savoia era rimasta offesa e un po’ amareggiata. Perché quella fuga? Che anche a lei stesse per accadere quello che era successo ad altre regine nella sorte avversa, abbandonate da quelle popolane che le avevano sempre acclamate e benedette? Dunque era vero quanto dicevano i nemici della monarchia che ormai in Italia Casa Savoia non raccoglieva più le simpatie di un tempo, quelle, spontanee manifestazioni di entusiasmo e deferenza che avevano sempre accompagnato la presenza dei Sovrani e del Principe Ereditario?
Rientrò a Ravello più triste del solito. Anche il Re non era di buon umore quel giorno (lunedì 20 marzo) nessun ministro era venuto per la firma. Perché queste inspiegabili assenze? Forse perché tutti si erano sentiti punti nel vivo due giorni prima quando Vittorio Emanuele aveva voluto riunire nel salone dell’«Episcopio» il capo del Governo e i ministri in carica. La riunione era cominciata con un esame generale della situazione politica, poi il Re aveva cominciato a parlare. Da un po’ di tempo in qua gli continuavano a giungere voci di intrighi, di nuove manovre in seno al Gabinetto: si tornava a chiedere l’abdicazione e la creazione di una Luogotenenza che avrebbe avuto persino l’appoggio di elementi estremisti. Si voleva insomma, salvare Badoglio e sacrificare il Re. Ma Sua Maestà aveva da tempo deciso: egli avrebbe accettato di prendere risoluzioni tanto gravi solo dopo la rioccupazione di Roma, solo dopo il suo rientro al Quirinale.
Quasi tutti i ministri, Badoglio compreso, avevano lasciato l’«Episcopio» evidentemente seccati. E si erano vendicati, a loro modo, non presentandosi (com’erano ormai soliti fare ogni lunedì) per la firma dei normali decreti.
L’affetto di “Zi’ Raffaella”
Verso sera, mentre i sovrani contemplavano dalla terrazza della villa il tramontare del sole (uno spettacolo a cui Vittorio Emanuele aveva ormai presa l’abitudine di assistere) s’erano udite delle grida di donna e un parlottare sommesso, rotto da altre urla femminili. Che cosa era successo? Don Pantaleone Manzi aveva chiarito l’ incidente. Una donna avrebbe voluto a tutti i costi parlare con la Regina. Ma era stata energicamente allontanata.
« Perché mai? », aveva chiesto la sovrana. « Forse quella poveretta aveva bisogno di qualcosa Cercatela dunque». Don Pantaleone, non aveva perso tempo. La donna infatti era sempre lì, sulla breve gradinata che rompe la via San Giovanni del Toro.Era Raffaella Crisone, la fruttivendola di Minori. In presenza della Regina la donna s’era buttata ai piedi della Sovrana piangendo e lamentandosi. Non voleva nulla. Voleva restare con la Regina. Aiutarla, farle le faccende domestiche. Elena di Savoia aveva sorriso. E Raffaella Crisone era rimasta. La sua presenza aveva anzi finito col rallegrare persino il Re. « Zi Raffaella», aveva la lingua lunga e una vivacità di espressioni dialettali veramente simpatiche. Un giorno però ne aveva combinata una delle sue. Trovata chissà dove una comune oleografia della Sovrana (quella con in capo il diadema e al collo la collana che già apparteneva alla Regina Margherita), l’aveva portata in duomo e messa, non vista da nessuno, su di un altare, Più tardi il sagrestano, scoperta l’insolita immagine aveva cercato di toglierla dall’altare Ma Zi’ Raffaella che vegliava era intervenuta. Ne era nata una discussione violenta terminata con urla e graffi. Ma l’immagine della Regina era rimasta sull’altare.
Una giornata drammatica
Raffaella Crisone fu vista l’ultima volti a Ravello il, 18 giugno 1944, quando i Sovrani lasciarono il paese per quello che sarebbe stato il terzo e più amaro dei loro trasferimenti: Villa Maria Pia a Posillipo. Tredici giorni prima, il Re, pressato da tutti, definitivamente abbandonato dagli Alleati, aveva dovuto accettare le imposizioni di Mc Farlane e quelle di Badoglio; ed aveva firmato il passaggio dei poteri e la nomina del Principe Ereditario a Luogotenente del Regno. Era stata una cerimonia non priva di drammaticità Mac Farlane era giunto con Badoglio verso le 15; era in pantaloni corti e in maniche di camicia. Senza preamboli aveva chiesto il passaggio dei poteri, tanto più, aveva. aggiunto testualmente che la presenza di Vostra Maestà a Roma è sconsigliabile. Poi, nella Capitale non si può airivare né per via aerea vie per strada…
Il Re aveva fatto un impercettibile movimento con le labbra. Poi rivolto a Badoglio aveva detto: « Sta, bene, firmerò. Ma prima desidero che quanto mi è stato comunicato oralmente mi venga messo per iscritto dal Capo del Governo». Badoglio, con voce falsamente dimessa, aveva risposto: «Manderò la lettera, secondo i desideri di Vostra Maestà». Ma il Re aveva replicato: «Voglio la lettera subito, altrimenti non firmerò proprio nulla».
Così Badoglio aveva, dovuto scrivere una lettera infelice, un documento che gli storici un giorno giudicheranno con estrema severità quando passati gli odi e i rancori, sarà possibile renderlo noto, assieme a molti altri, tutti attualmente in possesso di Umberto, a Cascais.Una “lettera di fuoco”
Da quel giorno il Re aveva cercato di proposito di non muoversi da Ravello. Intanto aveva disposto perché venisse preparato il suo trasferimento a Napoli a Vi1la Maria Pia. Non era stato facile ottenere dagli alleati il necessario permesso. Ad un certo momento era persino sembrato che anche il Luogotenente fosse contrario allo spostamento deciso dal vecchio Sovrano ormai già prossimo all’abdicazione e all’esilio. Il Generale Puntoni primo aiutante di campo del Re assicura che la Regina decise anche lei di intervenire. Scrisse una «lettera di fuoco» al figlio. Umberto si affrettò umilmente a rispondere smentendo le voci e assicurando che aveva pregato persino il Santo Padre di usare la sua alta autorità per appianare quella spiacevole disputa. Il generale Puntoni ha poi chiarito ai nostri lettori (vedi puntata precedente) che il «fuoco» era diretto solo ed esclusivamente agli alleati, unici veri responsabili della situazione.
Alla fine il Re la spuntò. Il 18 giugno 1944 lasciò Ravello per Napoli e prese alloggio in una palazzina che fa parte dell’intera tenuta Rosebery, ribattezzata « Maria Pia » dai Principi di Piemonte. Questa villa in uno dei più bei punti di Posillipo era stata regalata Mussolini nel ’29. Il suo proprietario, Sir Archibald Philip Primrose Rosebery, ministro e storico inglese di parte liberale, l’aveva voluta donare al Capo del Governo italiano, quale testimonianza di simpatia e dì deferenza. Mussolini, a sua volta, l’aveva ceduta allo Stato. Trasferita al demanio nel 1930, era stata saltuariamente abitata dai Principi di Piemonte e ribattezzata « Maria Pia ».
Don Mimì e le alici
Qui dunque, giunse il Re in un pomeriggio afoso. Trovò tutto mutato. I mobili rovinati le pareti scrostate e rabberciate qua e là. Il Sovrano decise dì prendere alloggio in una dependance la cosiddetta «villa a mare». Le persone del seguito si installarono nella foresteria. Al Luogotenente venne conservato, per desiderio del Re, l’appartamento che di solito Umberto aveva occupato nella villa vera e propria, durante i suoi soggiorni napoletani.
Ma se tutto pareva cambiato c’era qualcosa che non aveva subito mutamenti l’entusiasmo dei napoletani per il Re e la Regina. Fra i primi ad accorrere alla villa (sempre affidata a don Gennaro Giraudo, custode fedele e, all’occorrenza, pescatore del Re) furono don Mimì Morra, don Raffaele Gíanella e l’ostricaro Quacchiariello. Don Mimì Morra, proprietario del «Giuseppone», uno dei ristoranti più celebri di Posillipo, era di casa a Villa Maria Pia quando c’erano i Sovrani e i Principi di Piemonte. Tutti i martedì e i venerdì, infatti, egli era chiamato a friggere le alici, operazione tutt’altro che facile per chi non è nato all’ombra del Vesuvio.
« Alla Regina, ricorda don Mimì Morra «piacevano tanto le alici. Ma non quelle mosce bensì quelle che noi napoletani sappiamo friggere a modo nostro. Io arrivavo nelle cucine della villa con i miei due chili di alici. Allora il cuoco del Re si tirava in disparte e mi lasciava fare. Dopo il pranzo la Regina di solito mi cercava. Alllora io ne approfittavo per raccomandare qualche caso pietoso: una povera donna che non poteva pagare l’affitto, un padre di famiglia che s’era visto costretto a portare al Monte di Pietà materassi e coperte».
Don Mimì parlava a cuore aperto perché conosceva la Regina da tempo. Nel 1922 maestro di casa a bordo della Dante Alighieri s’era trovato a dover accompagnare i Sovrani in Spagna ospiti di Re Alfonso. Verso il Golfo del Leone la nave era stata investita da un cattivo tempo che « Dio ne voleva a il cuore», per dirla con le stesse colorite parole di don Mimi’. Tutti a bordo s’erano sentiti indisposti . Solo i Sovrani non avevano sofferto il mal di mare A tavola, don Mimì mentre rollava tutto e beccheggiava, s’era era trovato a spiegare alla Regina come dovevano essere fritte le alici. E la Sovrana ridendo gli aveva detto: «Quando verremo a Napoli la manderemo a chiamare. Sarà lei a friggere il pesce per noi»,
Proibito pescare
Era stata di parola. Don Mimì l’anno dopo s’era sentito invitare a Villa Gallotti. La Regina era ospite con il Principe ereditario allora tredicenne della duchessa d’Aosta. E lui, don Mimi’, aveva dovuto friggere le alici. Due gemelli d’oro, un orologio da polso una penna stilografica e alcune fotografie testimoniano il lungo affetto della Regina per don Mimì Morra.
Né minore simpatia ebbe la Regina per «Zi’ Raffaele» Gianella, detto « o’ buvarese» un pescatore anch’egli di Posillipo che era solito accompagnare i Sovrani durante le loro consuete partite di pesca, prima che la guerra mutasse uomini e cose. Tornata a Villa Maria Pia nel 1944 la Regina aveva chiesto notizie di «Zi’ Raffaele e dell’ostricaro Quacchiariello un altro personaggio tipico della Posillipo minore. Erano entrambi lì, fuori dai cancelli della villa, in attesa di essere chiamati.
Così la Regina riprese a pescare. Ma quel suo innocente passatempo incontrò subito le ostilità di un sergente della polizia militare britannica. L’ antipatico incidente accadde a Trentaremi, una spiaggia al Capo di Posillipo, quasi di fronte a Nisida. Il luogo era chiuso alla pesca. Così avevano ordinato le autorità alleate.«Zi’ Raffaele» Gianella ignorava la recente disposizione. Sapeva che quel posto era « buono», era pescoso e là aveva diretto remando la sua barchetta. Ad un tratto la Regina e il pescatore avevano udito alcuni Colpi di arma da fuoco. Da terra un agente inglese riconoscibile per il suo berretto rosso aveva urlato parole incomprensibili e sparava in aria. Zi’ Raffaele» non aveva avuto bisogno di altre spiegazioni. Imprecando in dialetto e invocando S. Gennaro, aveva diretto la fragile sua barca verso riva. Il militare inglese pareva proprio infuriato. Con fare sprezzante, aveva Chiesto all’anziana Signora «Who are you?» E la Regina con calma aveva risposto «The queen of Italy». Ma il poliziotto non si era accontentato della spiegazione e aveva preteso di vedere i documenti di identità che la Regina però non possedeva.
Il Re dove sloggiare
Anche il Re dovette registrare un incidente ancora più grave. Era giunto a Villa Maria Pia da pochi giorni quando le autorità alleate gli fecero sapere che la villa doveva essere sgombrata. Giorgio VI d’Inghilterrra stava per giungere a Napoli. Avrebbe alloggiato a Villa Barracco vicinissimo a Villa Maria Pia il generale Wilson comandante delle forze del Mediterraneo aveva ordinato di far sloggiare Vittorio per evitare un eventuale fortuito incontro tra i due Sovrani.
Ma non furono queste lo spiegazioni che vennero date al nostro Re .Con brutale franchezza gli si disse:« Villa Maria Pia serve per il seguito di Sua Maestà britannica e per i bagagli Questa volta la pazienza giunse al limite estremo. Il Re rifiutò di lasciare la villa. Si decise a farlo solo quando, partito da Napoli il Re d’Inghilterra da diverse settimane, il nuovo trasferimento non rappresentava ormai più una antipatica ingiunzione.
Così il 7 agosto, alle ore 16,45, il Re partì per Raito, ospite del barone Raffaele Guariglia. Ma anche questo trasloco il quarto dopo l’8 settembre venne accompagnato da un nuovo incidente con gli Alleati. La Regina s’era fatta precedere da un autocarro pieno di casse. Il conte di Vigliano e il commendatore Scalici, che avevano personalmente sorvegliato il carico, avevano raccomandato all’autista: «Se la polizia alleata vorrà sapere che cosa ci sia in queste casse, dite subito che si tratta di coperte, indumenti, vestiti e biancheria che Sua Maestà ha destinato alle popolazioni della costiera amalfitana. Era vero Elena di Savoia non aveva voluto che tornasse a ripetersi quanto le era accaduto durante gli altri traslochi. Erano stati trasportati oggetti inutili, ma ai poveri nessuno aveva pensato. Lei, la Regina, era stata costretta a girare un po’ dappertutto per poter acquistare roba per i suoi sempre più numerosi protetti (« Mia moglie , soleva dire il Re, ha le mani bucate. Per aiutare i poveri venderebbe anche i suoi vestiti»).
La brandina di Vittorio Emanuele
Sull’autocarro c’era, infine. una cassa su cui spiccava chiaramente, scritto con un pennello intinto nell’inchiostro nero: «Bagaglio personale di S.M. il Re. Nessun oggetto prezioso era contenuto, ma imballata a dovere era la brandina da campo che il Re era finalmente riuscito a riavere da Villa Savoia. Vittorio Emanuele, infatti, aveva conservato l’abitudine, presa durante la prima guerra mondiale, di dormire su di una modestissima branda. In famiglia questa innocente mania era stata spesso oggetto di frizzi;
«La brandina», ci ha raccontato il commendatore Scaldo che fu vicino al Sovrano per oltre quarant’anni e divise con lui le amarezze dell’esilio, « era divenuta leggendaria. Dura come un tavolo, tutta cigolante, la si sarebbe a fatica potuta vendere a un robivecchi. Ma guai a toccargliela al Re! Per questo una delle prime cose alle quali io ero solito pensare ». Conclude Scaldo, « era la branda del Re. Ad ogni trasferimento era quello il primo bagaglio ch’io dovevo spedire ».
Così anche la brandina militare partì verso Raito. Ma appena l’autocarro ebbe lasciato Napoli; appena ebbe imboccata l’autostrada Pompei-Salerno (tutta buche e interruzioni) ecco la polizia alleata bloccare l’automezzo. Malgrado le proteste dell’autista vennero aperte tutte le casse, nessuna esclusa. Perché? Una ignota segnalazione aveva fatto sapere che il Re avrebbe portato a Raito armi e munizioni! La visita durò diverse ore. Le casse vennero scaricate, scoperchiate e abbandonate poi lungo la strada. L’autista riuscì, con l’aiuto di alcuni volonterosi a rifare il carico e a ripartire. Innestando la marcia commentò: «Non hanno trovato le armi del Re. Hanno solo trovato le “armi della Regina”..»
Povera Mafalda
«Le Loro Maestà rimasero nella villa di Raito», ci ha raccontato l’ambasciatore Raffaele Guerriglia, «dal 7 agosto 1944 al 26 aprile 1945. Dopo questa data rientrarono un’ultima volta a Villa Maria Pia. Rimasero a Napoli un altr’anno sempre sognando di tornare a Roma. Invece il 9 maggio 1946 Partirono per l’esilio».
Del soggiorno del Re a Raito, l’ambasciatore Guariglia conserva un indimenticabile ricordo. Per i posteri egli ha anzi murato su di una facciata della villa questa lapide: «Dall’agosto 1944 all’aprile 1945 visse in questa casa Vittorio Einanuele III Re d’Italia e di Albania, Imperatore d’Etiopia.
«Fu un soggiorno triste», rammenta Guariglia, «reso ancora più amaro dalle villanie degli alleati, dagli insulti che continuamente venivano rivolti al al Re su molti giornali italiani e stranieri e da una notizia che letteralmente sconvolse la Regina: la morte a Bunchenwald della principessa Mafalda. La notizia appresa dai sovrani attraverso un breve comunicato apparso sul Giornale di Napoli venne successivamente confermata da altre fonti. Intanto da Roma il 14 aprile del ’45 Umberto di Savoia si era fatto premura di telefonare al Re la tragica notizia, sperando di arrivare prima della stampa anche perché il Luogotenente non attribuiva serio fondamento all’informazione diramata da una agenzia tedesca. Si sperò fino all’ultimo che si trattasse di un’altra principessa d’Assia. Vennero chieste notizie al Papa, agli alleati, al Nunzio apostolico a Parigi, monsignor Roncalli. Purtroppo era vero, La buona, la mite Mafalda d’Assia, la più allegra delle figlie del Re era morta tra atroci sofferenze in un postribolo del campo di Buchenwald dove era stata ricoverata dopo che un bombardamento alleato aveva distrutto gran parte delle baracche degli internati ».
Confermando quella dolorosa notizia, gli Alleati aggiunsero, per conto loro, senza alcun riguardo, altra informazione, con lo sprezzo tipico dei vincitori: non avrebbero più concesso benzina al Re Vittorio Emanuele commentando anche quest’ultimo inspiegabile gesto, osservò « Povera Mafalda. ora sta meglio lei».