Umberto cercava la morte sul campo di battaglia
Il primo Consiglio della Corona nel Regno del Sud
I difficili rapporti con gli Alleati superati dalla diplomazia e dallo spirito di sacrificio del Principe, al quale il generale Clark tributò viva ammirazione
Badoglio si schiera con Croce e Sforza contro la Monarchia
Una lettera di Giorgio VI a Vittorio Emanuele III
Si ricompone l’Esercito: prima di condurre i reparti al combattimento di Monte Lungo il Principe di Piemonte sorvola le posizioni nemiche da bassissima quota, scampando miracolosamente al fuoco antiaereo
Sabato 11 settembre 1943, ore nove e tredici: Brindisi nuova e incerta capitale d’Italia registra questa sua data di nascita. Quel giorno, infatti, inizia la sua fragile vita lo Stato italiano che Badoglio ha voluto trasferire al Sud. Il Re tiene consiglio nel salotto dell’ammiraglio Rubartelli, comandante la piazzaforte. Sono presenti, il Principe di Piemonte, il Capo del Governo, i ministri De Courten e Sandalli, i generali Ambrosio, Roatta, Puntoni e il ministro della Casa Reale, Acquarone. Nessun altro.
E’ una strana riunione dove tutti sembrano impacciati, scorati, tristi. Solo il Re è calmo e tranquillo, quasi che quel piccolo ambiente borghese, quel salotto modesto ma accogliente, si addica ai suoi gusti di uomo semplice. Inforca gli occhiali e legge: è un messaggio di Eisenhower. Contiene le direttive per una immediata collaborazione tra le truppe alleate e il governo italiano. Badoglio, ad una precisa domanda del Sovrano, si affretta ad assicurare che tutte le richieste di Eisenhower sono state accolte.
Il Re chiede ai presenti se ci sia qualcuno che abbia qualche osservazione da fare: ma nessuno parla.
Allora il Re propone di lanciare un proclama agli Italiani. A sua volta Badoglio dichiara di volere anche lui rivolgere un messaggio al popolo. Vittorio Emanuele guarda alquanto sorpreso il maresciallo. Vorrebbe dire qualcosa, però finisce con l’approvare la proposta del Capo del Governo con un lieve cenno di assenso.
Un proclama agli Italiani
Poi la riunione si scioglie. Ma nessuno sa dove andare, nessuno sa che cosa fare. Il Re che di buon mattino ha visitato i lavori di fortificazione intorno alla città, si trova anche lui, forse per la prima volta in vita sua, a non sapere come impiegare il tempo. Preferisce allora ritirarsi in una delle varie stanze che l’ammiraglio Rubartelli gli ha messo a disposizione nella palazzina dell’ammiragliato. Il Principe di Piemonte, che durante quel breve Consiglio della Corona non ha detto una sola parola, è il primo ad andarsene. Uno dei suoi aiutanti ha scovato una vecchia Lancia ancora efficiente. L’ammiraglio Rubartelli ha prontamente fornito la benzina necessaria non senza aver raccomandato alle persone del seguito di consigliare Sua Altezza a non allontanarsi dalla città. A pochi chilometri da Brindisi si spara. Né il pericolo è minore dove non si combatte. Centinaia di operai fino allora impiegati in lavori di fortificazione, potrebbero improvvisare manifestazioni ostili o comunque antipatiche. Meglio perciò rimanere all’ammiragliato, come fanno tutti gli altri, Badoglio in testa.
Ma Umberto di Savoia non è certo 1’uomo adatto ad accettare consigli di prudenza. Inutile parlargli di mitragliamenti aerei, di scontri di avanguardie, di manifestazioni ostili. A Brindisi è al sicuro, ma è come se fosse se confinato in una fortezza. Parte perciò subito e non rientra se non a notte inoltrata quando già si parla di mandare qualche reparto volante alla sua ricerca.
Umberto coi cittadini e i soldati
Da quel giorno la vita del Principe è una sola: girare di continuo, senza una meta, alla ricerca di reparti italiani, nel desiderio continuo di avere contatti diretti coli soldati e cittadini. Mesagne Ostuni, Grottaglie. Copertino, Cisternino, Fasano, Locorotondo, Martina Franca, Taranto non sono che alcune delle prime località visitate. Dovunque entusiasmo indicibile. Le popolazioni si riversano per le strade e improvvisano commoventi manifestazioni. Non meno commoventi sono i contatti che ha il Principe con i nostri soldati che egli incontra per la strada disarmati, laceri, scalzi o con qualche reparto rimasto miracolosamente compatto intorno a un superiore che ha saputo mantenere il prestigio e la fiducia nei suoi uomini.
Fa un caldo asfissiante e dappertutto manca l’acqua perché i tedeschi in ritirata hanno fatto saltare in più punti l’acquedotto pugliese. Ogni tanto, si incontrano reparti alleati. Qualche soldato canadese riconosce il Principe e lo guarda stupito come una bestia rara. Qualche altro, più ardito, ferma la macchina e chiede un autografo. Il Principe è sempre regale e gentile con tutti, tanto che ben presto il suo arrivo è desiderato anche dai soldati alleati.
Un giorno il Principe si spinge fino a Potenza dove nessun ufficiale italiano è stato più visto dai primi di settembre. Potenza ha subito dopo l’evacuazione tedesca e dopo la firma dell’armistizio tre violenti bombardamenti aerei che hanno provocato centinaia di vittime e danni materiali gravissimi. La notizia dell’arrivo di Umberto di Savoia si sparge rapidamente. Una folla immensa si riversa per le strade. Tutti vogliono vedere il Principe, tutti vogliono parlare con lui, L’entusiasmo è tale che ne è contaminato lo stesso, freddissimo, governatore inglese della città certo maggiore Middleton alla fine si decide anche lui e si presenta al Principe. Poi è la volta di due giornalisti canadesi che tempestano il Principe di domande. Vogliono sapere com’era vestito l’8 settembre, quando fu l’ultima volta che vide Mussolini, quali sono i suoi hobbies, qual il suo piatto preferito.
La guerra è un lusso
Rientrando a Brindisi, il Principe mostra ad un aiutante di campo gli enormi cumuli di materiale bellico che si incontrano dovunque ai lati delle strade, poi osserva: « Se avessimo avuto noi la decima parte di tutta questa roba… ». Vorrebbe aggiungere qualche altra osservazione ma si trattiene. Il suo aiutante, però, ne indovina i pensieri e a sua volta, conclude: « Se avessimo avuto noi tanto materiale avremmo fatto scappare a gambe levate gli inglesi dal Mediterraneo e dall’Africa».
Umberto di Savoia sorride tristemente, poi dice: «Solo i popoli ricchi possono permettersi il lusso di dichiarare le guerre». Poi, quasi volendo a tutti i costi scacciare un pensiero che torna assillante, egli aggiunge, indicando qua e là case diroccate, binari divelti, ponti saltati: « Se per liberare l’Italia gli Alleati dovranno usare questo stesso rullo compressore, poveri noi! -Meglio sarebbe stato allora seguitare la lotta fino alla fine completa, dal momento che non avremmo subito rovine maggiori».
Il Principe è triste e scorato. Sembra anzi che cerchi la morte a tutti i costi. Persino il generale americano Clark, comandante la V Armata, ha questa impressione. In un suo libro di Memorie, tradotto anche in italiano e pubblicato dal Garzanti si legge (a pagina 426: « Di verità nei parve più di una volta che Umberto fosse continuamente travagliato dal sentimento della necessità di riparare al danno recato all’onore dell’Italia dall’alleanza fra Hitler e Mussolini. Più di una volta mi attraversò la mente l’idea che come rappresentante di Casa Savoia non solo egli fosse pronto a morire in battaglia contro i nazisti, ma che in molte occasioni egli si esponesse quasi deliberatamente alla morte ».
Clark ha ragione. Come spiegare altrimenti certi gesti di Umberto tutti improntati a un estremo coraggio, a un eccessivo ardimento? Un giorno va ad Aversa. Lo accompagna il maggiore Campello. Duecento metri prima di arrivare in città quattro aerei da caccia tedeschi a volo radente si gettano sull’auto reale che è per caso preceduta da una jeep alleata. La macchina del principe non viene colpita. La jeep invece viene incendiata e si rovescia. Cozzani, l’autista del Principe, frena bruscamente, schizza fuori dal suo posto di guida e si butta lungo disteso il ciglio di un fossato. Il Principe è l’unico a non avere perso la testa. E’ anzi calmissimo. Corre verso la macchina alleata che s’è rovesciata seppellendo due soldati. Un altro militare ha avuto la gamba destra squarciata da una pallottola. Umberto soccorre tutti, rincuora i feriti. Poi, aiutato dal maggiore Campello e dall’autista Cozzani, li carica sulla sua macchina e li porta a gran velocità a un posto di pronto soccorso. Quando riprende il viaggio, commenta con Campello: «Anche questa è andata!».
In piedi sulla prima linea
Ai primi di febbraio 1944 la testa di ponte stabilita dal reggimento inglese Durham, a Sujo, sul Garigliano, parve venisse sopraffatta da un susseguirsi di massicci attacchi mossi dalle truppe di Kesselring. Il difficile rifornimento di questa posizione strategicamente importantissima era affidato ai fanti italiani che facevano parte della 2101 divisione ausiliaria. Presi di mira da mitragliatrici e da mortai tedeschi piazzati a Castelforte, i nostri portatori subivano perdite rilevantissime. In quei giorni visitò la zona il Principe Umberto. Incurante, come sempre, del pericolo, volle cercare di individuare i centri di fuoco nemici più pericolosi. Immediatamente la sua alta figura, ritta su di un costone, venne notata dai tedeschi. Quasi subito si scatenò una tempesta di cannonate e di mitragliate. Gli ufficiali alleati che accompagnavano Umberto si buttarono a terra gridando: « down down! », e cioè: «Giù giù!» .
Ma il Principe cercò riparo solo quando, miracolosamente illeso, dopo aver scrutato col binocolo la vampa dei colpi in partenza, riuscì a segnare sulla sua carta topografica i centri di fuoco. Fu così possibile sollecitare l’intervento dell’artiglieria alleata che distrusse le postazioni individuate da Umberto con una energica azione di controbatteria. Da allora i nostri soldati poterono arrivare verso la testa di ponte senza subire perdite eccessive.
Episodi del genere non sono unici. Chi è stato vicino al Principe in quelle torbide giornate è pronto a ricordarne molti altri. Non per nulla tra i soldati alleati, Umberto di Savoia diviene popolarissimo proprio perché (così gli confessa ingenuamente un militare statunitense nessuno aveva mai visto – un generale con tante stellette così sprezzante del pericolo così vicino alla linea di fuoco . Ancora una volta lo precisa la testimonianza del generale Clark (vedi . La V Armata Americana , pag. 404 editore Garzanti): « La cooperazione del Principe Ereditario fu sempre vivissima. Egli passava molto tempo con le truppe avanzate pronto a dividere i loro disagi e ad incoraggiarle al combattimento. Un giorno gli americani vollero testimoniare questa loro ammirazione ricevendo il Principe Ereditario al quartier generale. Umberto accettò l’invito. Poche ore prima della preannunciata visita, il maggiore Campello si senti chiamare al telefono, Campello, che parla benissimo 1’inglese e che conosce gli Stati Uniti per avervi a più riprese trascorso lunghe vacanze, si sentì domandare da un ufficiale superiore: «Poiché noi vogliamo ricevere Sua Altezza con tutti gli onori militari ci vuol dire esattamente quale grado riveste il principe?» «Quello di Maresciallo d’Italia», rispose Campello, «Lo stesso grado di Badoglio», tornò a domandare incredulo l’ufficiale alleato. «Certo!» , rispose nuovamente l’aiutante di campo. «Ma se è così giovane», concluse ingenuamente l’interpellante. Dieci minuti dopo altra telefonata: era sempre lo stesso ufficiale americano. «Abbiamo letto il vostro regolamento. Noi dovremmo all’arrivo del Principe suonare la Marcia Reale. Ciò ci pone in un grave imbarazzo. Come lei sa il generale Badoglio non gradisce che venga suonato questo inno… ,
Badoglio contro la “Marcia Reale”
Campello cadde dalle nuvole. Ignorava che ci fosse una simile inutile e cattiva disposizione. Forse l’ufficiale americano era caduto in un equivoco o forse questo era proprio un desiderio di Badoglio. Quelli erano momenti nei quali tutto era possibile. Persino che il capo di un governo monarchico proibisse o comunque sconsigliasse di suonare la Marcia Reale! D’altronde pochi giorni prima il generale Clark non era stato nominato dottore honoris causa dall’università di Napoli con la formula (inventata dal Rettore Omodeo) «in nome del popolo», invece di quella solita « in nome di Sua Maestà il Re?»
Campello dunque non approfondì le indagini, ma rispose seccato: Se non volete suonare la Marcia Reale suonate allora l’inno di Mameli o Bandiera Rossa. Quet’ultimo inno lo sentirete dai comunisti chissà quante volte. E riagganciò il microfono con un colpo secco.
Quando Umberto arrivò al Comando americano trovò schierato il reparto d’onore. E quasi subito a banda militare intonò la Marcia Reale. Era la prima volta, dalla proclamazione dell’armistizio che una banda alleata suonava la Marcia Reale.
Fu quello uno dei pochi episodi positivi che Umberto di Savoia registrò nei suoi rapporti con i nostri ex nemici. In realtà gli americani mostrarono quasi sempre nei riguardi del nostro Principe Ereditario una assoluta deferenza, tanto che qualche ufficiale superiore con la spregiudicatezza propria degli yankees osservò, parlando con Umberto: « Noi non riusciamo a capire come possa lei tollerare che individui del suo governo o comunque molto vicini allo stesso maresciallo Badoglio, possano svolgere una propaganda sistematicamente ostile alla Monarchia ».
Il riferimento era chiaro e riguardava soprattutto il conte Sforza e Benedetto Croce. Sforza era sbarcato a Brindisi il 21 ottobre. Quello stesso giorno, rispondendo ad alcune domande rivoltegli dal giornalista Matthews, aveva dichiarato la propria aperta avversione alla Monarchia. Al Congresso di Bari aveva poi rinnovato i suoi velenosi attacchi contro il Re tanto che Umberto di Savoia parlando con il conte Campello aveva osservato, alludendo al fatto che Sforza era insignito del Collare dell’Annunziata: « mio padre dovrebbe togliergli il Collare». Era stata quella la prima volta che il conte Campello aveva udito il Principe censurare una «cosa che il Re avrebbe dovuto fare».
Una lettera di Giorgio VI
Ma Sforza aveva trovato subito l’appoggio di due persone diversissime tra loro, ambiziose e influenti: Badoglio e Croce. Il 30 ottobre in un comunicato firmato appunto oltre che da Sforza anche da Badoglio e da Croce era stata chiesta ufficialmente e pubblicamente l’abdicazione del Re.
Per tutta risposta Vittorio Emanuele III aveva mandato in visione a Croce una lettera estremamente significativa: era di Giorgio VI d’Inghilterra. Riaffermava l’appoggio della Corona inglese a Vittorio Emanuele e il desiderio che nessun mutamento dinastico si verificasse in Italia. Inoltre, ai Comuni, i maneggi di Sforza avevano trovato aspre censure. Una sola voce si era levata in difesa del conte, quella del deputato Ivor Thomas. Ma Eden lo aveva messo rapidamente a posto osservando che sì, il conte Sforza aveva lottato contro il Fascismo ma negli Stati Uniti « dove aveva trovato molto dura la sua battaglia contro Mussolini ». Alla replica di Ivor Thomas (che aveva osservato avere lo Sforza a lungo lottato in Francia assieme con i fuorusciti italiani). Eden aveva caricato la dose: « La battaglia contro Mussolini deve essere stata altrettanto dura anche là ..
L’atteggiamento di Eden nei riguardi di Sforza non voleva affatto essere una difesa della Monarchia Italiana. La missione alleata comandata dall’inglese Mac Farlane aveva, per esempio, fatto di tutto per umiliare il nostro Re e per rendere sempre più amari i suoi giorni e quelli del Principe Ereditario, anche quando Umberto, divenuto Luogotenente del Regno, mostrava chiaramente di essere, a breve scadenza, il nuovo sovrano d’Italia, dal momento che nessuno tra gli Alleati era disposto a sostenere Vittorio Emanuele III. Eden si era comportato come un tipico inglese al quale riusciva incomprensibile la pretesa dei fuorusciti italiani di spostare l’armistizio dal suo alveo di conclusione di una guerra perduta per portarlo ad essere un atto rivoluzionario. Che gli italiani avessero fatto la guerra augurandosi di perderla ed adoperandosi addirittura per perderla, all’inglese comune appariva incredibile.
Ma questo atteggiamento non significava affatto che il Governo inglese volesse sostenere il nostro Re. Anzi, tutto lasciava indicare che a Londra ci si augurava, malgrado la lettera di Giorgio VI (il prezioso documento, a quanto ci risulta, non è affatto andato perduto ma è conservato in una banca), la caduta di Vittorio Emanuele e la fine della Monarchia Sabauda, una monarchia che era la più antica e la più illustre d’Europa.
Che proprio questo fosse l’atteggiamento degli inglesi lo si vide l’11 novembre, genetliaco del Sovrano. Dal 1° ottobre Napoli era stata «liberata». Il Principe di Piemonte era stato tra i primi ad entrare in città, malgrado gli alleati avessero cercato di impedirgli il viaggio. L’entusiasmo dei napoletani per Umberto di Savoia era stato veramente indescrivibile, tanto che i più accesi repubblicani si erano ben guardati dallo spuntare fuori. Avevano preso coraggio nei giorni successivi quando si erano accorti che potevano contare sull’appoggio inglese e sulla tacita indifferenza degli americani. Qualcuno anzi (non facciamo nomi per carità di Patria) aveva avuto una peregrina idea: organizzare un’ aviazione repubblicana. Gli alleati avevano lasciato fare. Ma il Principe era energicamente intervenuto ed era riuscito a bloccare quella pericolosa iniziativa che avrebbe visto sui cieli italiani due striminzite aviazioni azzurre, una a tinta monarchica, l’altra a ispirazione repubblicana.
Un Te Deum deprimente
L’11 novembre, dunque, il cardinale Ascalesi celebrò il Te Deum nella chiesa di San Francesco di Paola, a Piazza Plebiscito. La chiesa era deserta, giacché il Prefetto si era ben guardato di avvertire la cittadinanza della cerimonia, con un pubblico manifesto. Né aveva voluto presenziare alla Messa. Si era invece fatto rappresentare da un modesto funzionario. Assenti totalmente le autorità alleate. Alle undici in punto arrivò in Chiesa il Principe Ereditario: poco dopo su di una «topolino», trovata in prestito, giunse la Duchessa d’Aosta Madre.
Umberto, data un’occhiata in giro, si inginocchiò innanzi all’altare maggiore. Forse pregava, forse pensava con amarezza a tutto quanto stava succedendo, se ad una Messa e a un Te Deum solenne celebrati per festeggiare il genetliaco del Sovrano non si erano trovate più di trenta persone disposte a presenziare alla cerimonia religiosa. La Duchessa d’Aosta, invece, investì il funzionario della Prefettura con una sfilza di domande: perché il Prefetto non era intervenuto? Perché non erano stati affissi i manifesti sulle cantonate? Perché non era intervenuto neppure il Vice Prefetto? Il funzionario si fece rosso. Balbettò qualcosa, ma non seppe dire che: «Ci scusi, ci scusi… ».
Uscendo dalla Chiesa, Umberto osservò: « Per fortuna che non c’era mio padre! ».
Ma anche a Brindisi, dove in quel momento era Vittorio Emanuele, le cose non erano andate diversamente; salvo un po’ più di forma. «Alla mensa del governo», ricorda il generale Puntoni, «Acquarone fece portare dello spumante, ma nessuno, nemmeno il Capo del Governo, sentì il dovere di brindare alla salute di Sua Maestà». A farlo fu lo stesso aiutante di campo, guardando in faccia tutti, ma specialmente Badoglio che sembrava seccato e imbarazzato.
In questo clima, in questo ambiente il Principe di Piemonte mostrò di avere un carattere degno delle migliori tradizioni sabaude. Finse di ignorare le villanie degli inglesi; cercò, a poco a poco, di appoggiarsi agli americani sperando di guadagnare alleati alla causa monarchica. Inoltre si buttò anima e corpo ad organizzare il nuovo esercito italiano. Badoglio era riuscito ad ottenere dal Re, dopo continui scontri verbali la dichiarazione di guerra alla Germania Ancora oggi molti si domandano l’opportunità di quel gesto che venne a suo tempo instentemente richiesto da Eisenhower.
Comunque, una volta dichiarata la guerra, occorreva portare tempestivamente alcuni reparti al combattimento. Ma i primi a nicchiare erano gli Alleati i quali avrebbero voluto che ai nostri reparti fossero solo affidati compiti secondari non comunque operativi. Al nostro comando era stato detto schiettamente che se le truppe italiane si fossero trovate davanti ai tedeschi, sul fronte di Cassino, sarebbero scappate a gambe levate. E nessun alto ufficiale inglese o americano era disposto a mutar parere.
Umberto di Savoia riuscì, con tatto e diplomazia ad ottenere dal generale Clarck una promessa: le nostre truppe avrebbero combattuto. Ma anche tra gli americani doveva valere quel tal proverbio nostrano che afferma esservi tra il dire e il fare di mezzo il mare. Passarono diverse settimane. Ormai alcuni reparti erano pronti a sostenere il combattimento. Però seguitavano a venire impiegati nelle retrovie con compiti che gli americani attribuivano solo alle truppe di colore: scaricare automezzi, piantare tende, preparare ospedali da campo, disinfettare paesi.
Umberto di Savoia decise di uscire da questa penosa situazione. Egli aveva conosciuto il generale americano Edgar E. Hume uno dei pochi ufficiali stranieri decorati dell’Ordine Militare di Malta. Il Generale Hume (l’episodio che noi raccontiamo è inedito e può solo adesso essere svelato, essendo il generale Hume morto da qualche anno) aveva una ambizione: avrebbe voluto che il figlio, anche lui ufficiale nella Ottava armata, venisse nominato Cavaliere di onore e Devozione dell’Ordine di Malta. Ma per ottenere ciò sarebbe occorso una regolare proposta firmata da due Cavalieri di Malta.
Hume confessò questa sua aspirazione al maggiore Campello, aiutante di campo del Principe e anche lui cavaliere di Onore e Devozione. Campello fece in modo che alla fine del primo incontro tra Umberto di Savoia e il generale americano fosse proprio il Principe di Piemonte a proporre la sospirata nomina del figlio di Hume al gran priore dell’ordine, Maresca. Da quel momento ebbe un alleato potente. E fu in gran parte merito di Hume se si riuscì a superare il punto morto per quanto riguardava la nostra partecipazione militare alla guerra. Prima però fu necessario superare una prova antipatica. Il 26 novembre alla presenza di cinquanta giudici di campo americani ci fu una manovra a fuoco a cui prese parte l’intero gruppo di combattimento italiano agli ordini del generale Utili. I nostri soldati (circa 5.000 uomini) destarono l’ammirazione dei giudici di campo. Così le nostre truppe ebbero il «placet» alleato per affrontare i soldati di Kesselring. A manovra finita, Umberto commentò amaramente: « Prima di lasciarci andare al macello hanno voluto controllare se ci sappiamo fare!».
Una cruenta battaglia
Dodici giorni dopo, i cinquemila uomini del generale Utili entrarono in azione contro i tedeschi a Monte Lungo. Fu un combattimento rapido, condotto con slancio e decisione, come testimoniano le gravi perdite subite, oltre 400 morti. Parlando con il maggior Campello, Umberto di Savoia osservò: «Il compito che ci era stato affidato era sproporzionato per le nostre forze. La mancanza di cooperazione delle truppe americane sulla sinistra e di quelle inglesi sulla destra ha impedito che la posizione conquistata di slancio, si potesse mantenere ».
Lo stesso ufficiale era stato il giorno prima testimone di un singolare avvenimento. Era il 7 dicembre. Il cielo era coperto. Tirava un vento fortissimo. Pure, dalle linee alleate, si era alzato in volo un Piper ,un monoplano lento e leggero come una libellula. L’apparecchio aveva cominciato a sorvolare bassissimo il fronte di Cassino, inseguito dalla contraerea tedesca. «Quel fesso va cercando la morte a tutti i costi» aveva osservato Campello. Ed era rimasto a guardare le inspiegabili evoluzioni del «Piper», con interesse professionale. Campello, infatti, era stato ufficiale degli aerosiluranti. Era stato anzi citato il 25 novembre 1942 nel bollettino di guerra numero 914 per aver affondato nelle acque algerine una nave da trasporto di ventiquattromila tonnellate, il più grosso piroscafo che sia mai stato affondato nei nostri mari.
Un’ora dopo, il lento «Piper» era rientrato con le ali sforacchiate, atterrando proprio non lontano dal punto dove si trovava il maggiore Campello. Con enorme stupore, l’aiutante di campo del Principe di Piemonte aveva riconosciuto l’unico passeggero dell’apparecchio: era Umberto di Savoia che aveva voluto, poche ore prima che i nostri reparti entrassero in azione a Monte Lungo, individuare personalmente le posizioni da battere col nostro tiro di preparazione di artiglieria.