L’AUTISTA DEL RE RACCONTA IL VIAGGIO A PESCARA
All’alba del 9 settembre 1943 la colonna si mette in cammino con l’incertezza dell’itinerario
Umberto sembrava fosse in attesa di una occasione favorevole per far ritorno a Roma
Il Re teneva affettuosamente la destra della Regina fra le sue mani
L’automobile viene fermata a un blocco stradale
Badoglio tremava e andava ripetendo di tanto in tanto: “Se i tedeschi mi prendono chissà a quale di questi alberi mi impiccheranno”
«Mia moglie mi chiese: “Scappi via così, senza neppur mangiare un boccone? Aspetta almeno che ti prepari un panino”. Non le risposi. Corsi al garage, feci il pieno di benzina, controllai l’acqua del radiatore, l’olio, verificai la pressione delle gomme, poi partii non senza aver detto a mia moglie e a mia figlia che mi avevano seguito fin presso la macchina: «Tornerò presto, state tranquille». Ma lo dissi senza convinzione, stranamente preoccupato».
Giovanni Baraldi si ferma un attimo soprappensiero poi aggiunge: «lo stesso non riuscii allora a spiegarmi quell’indicibile orgasmo che mi aveva preso non appena da Villa Savoia il generale Puntoni, aiutante di campo del Re, mi aveva telefonato perché andassi di nuovo a prendere il Sovrano che avevo ricondotto dal Quirinale soltanto mezz’ora prima ».
Uno stato di servizio eccezionale
Giovanni Baraldi ha ora 63 anni. E’ un uomo apparentemente tranquillo che parla poco e solo di rado si lascia andare in confidenze. Quando lo fa misura le parole perché «ormai il passato è passato». Ha solo una grande paura: «teme di avere grane » giacché egli continua a prestare servizio come capo garage al Quirinale. E’ lui, infatti, che ripara la macchina del Presidente della Repubblica, quando qualcosa al motore non va. Gli dà una mano, a volte, lo stesso autista del Presidente, Francesco Franchini, che fu anche lui autista di Casa Savoia e guidò per alcuni anni la macchina dell’allora Principe di Piemonte. Baraldi vanta uno stato di servizio eccezionale: dal 11 gennaio 1928 al 6 maggio ’45 è stato l’unico autista di Vittorio Emanuele III. E’ certamente per coloro che vogliono, come noi, cercare il lato umano della tragedia che ha colpito l’Italia dopo l’8 settembre 1943, uno dei personaggi minori e forse dei meno significativi. La storia, però, non è fatta solo di personaggi clamorosi, è fatta più spesso di piccoli episodi sovente destinati a rimanere inediti. Ma sono proprio queste testimonianze quelle che servono a far comprendere meglio il lato umano di personaggi discussi ma indubbiamente eccezionali. «Nessun genio resta tale», è stato scritto, «innanzi al suo cameriere». E’ una bella frase ma che non è sempre esatta. Infatti se resta valida per molti personaggi, si mostra non vera quando la si riferisce ad un sovrano come Vittorio Emanuele III che seppe conservare intatta, anche davanti ad avvenimenti paurosi e sfortunati, la sua massima dote: quella imperturbabile serenità, quella generosità di tratto, quella bontà riflessiva che gli storici sogliono chiamare – regalità.
Un regalo e un invito
Baraldi non ha rivelazioni sensazionali da fare. «Il Re», egli ripete, «era un militare; non si lasciava andare facilmente in confidenze, soprattutto con me che ero il suo autista. Due sole volte ebbe nei miei riguardi uno slancio di affettuosa confidenza. La prima volta fu nel ’36 dopo le manovre di Sicilia. Mi regalò un paio di gemelli d’oro che comprò a Livorno dai fratelli Cinti. La seconda volta fu nel ’38. Un giorno Sua Maestà (eravamo a San Rossore) mi disse: “Oggi vestiti in borghese. sei mio ospite”. E mi portò col treno reale a vedere il Palio di Siena ».
Baraldi, dunque. è un testimone modesto ma sincero, anche perché è un uomo semplice che si è trovato ad essere spettatore di avvenimenti eccezionali che solo in parte ha compreso. Se qualcuno, per esempio, gli domanda quale itinerario egli abbia percorso portando il Re e la Regina verso Pescara all’alba del 9 settembre 1943, egli è pronto a giurare di aver lasciato la Tiburtina subito dopo il Passo di Ponte Bove, di aver abbandonato sulla sinistra Tagliacozzo per certe strade di montagna strette, tutte curve e buche.
Baraldi infine sostiene che il viaggio durò ininterrottamente dalle cinque del mattino alle 17 quando l’auto da lui condotta – con a bordo Vittorio Emanuele III, la Regina, il generale Puntoni e il tenente colonnello De Buzzaccarini – arrivò a Crecchio nel castello dei duchi de Bovino. Com’è noto la realtà è diversa, sia per quanto riguarda l’itinerario sia per quanto si riferisce all’ora dell’arrivo a Crecchio. I Sovrani giunsero (e a questo proposito sono precise le testimonianze del generale Puntoni e del conte Campello ufficiale di ordinanza di Umberto di Savoia) alle 10,30 del mattino, dopo circa cinque ore di viaggio.
Ma a Baraldi è successo quello che capita ai fanciulli quando essi vedono per la prima volta qualcosa di veramente eccezionale: la verità si trasforma, si ingrandisce, si deforma, specie più tardi, nel ricordo. Ben più sicuro è invece l’ex-autista di Vittorio Emanuele quando deve precisare alcuni particolari minori di quel lungo e drammatico viaggio.
La sera dell’8 settembre
Baraldi, dunque, la sera dell’8 settembre aveva condotto il Re come sempre alle 19 a Villa Savoia. Il Sovrano era stato per lunghe ore al Quirinale. Aveva ricevuto Badoglio, Guariglia e numerose altre personalità, Baraldi aveva notato qualcosa di insolito. Un intenso andirivieni di macchine, di generali, di ministri. Ed aveva anche lui pensato che qualcosa di grosso stesse maturando nell’aria. Forse un attacco aereo degli alleati, forse un nuovo sbarco.
Ma il Re, puntuale come sempre, era rientrato a Villa Savoia. Prima di congedare Baraldi gli aveva però detto: «Tieniti pronto. Forse avrò ancora bisogno della macchina». E la chiamata era giunta quasi subito, non appena Baraldi, messa in garage la Fiat 2800 grigio verde normalmente adoperata in quei giorni, si era seduto a tavola per mangiare un boccone con la moglie e la figlia.
Era cosi ripartito da Villa Savoia. Sulla macchina aveva preso posto il Re, come sempre in divisa, accompagnato dal suo aiutante di campo generale Puntoni, quella sera stranamente in borghese e, cosa del tutto eccezionale, Sua Maestà la Regina. Elena di Savoia aveva anche lei una Fiat 2800 nera, normalmente condotta dall’autista Francesco Moneta. Baraldi sapeva però che Moneta era ammalato in quei giorni. Pensò dunque che la Regina avesse voluto accompagnare il Re forse per vedere, come già era accaduto, qualche paese vicino a Roma, colpito improvvisamente da un violento bombardamento alleato.
Confusione al Ministero della Guerra
Invece gli venne ordinato di andare al Ministero della Guerra e di rimanere nel cortile, in attesa di ordini con la macchina pronta. Baraldi cominciò ad attendere. Erano le 20 circa. Da quel momento Baraldi non capì più nulla; udì parlare di bombarda. menti alleati, di attacchi di unità germaniche, di mitragliamenti aerei. Vide sfilare davanti al Ministero della Guerra carri armati e reparti di fanteria che presero posizione nei pressi. Intanto le ore passavano e nessuno pareva ricordarsi degli autisti che attendevano. Oltre a Baraldi c’erano Pierino Masetti che aveva sostituito l’autista della Regina, Francesco Moneta, il sergente maggiore Cozzani, autista del Principe di Piemonte, l’attendente di Puntoni, Maggiorini, con la «1500, del suo generale, c’era l’autista di Badoglio ma soprattutto c’erano tante altre macchine guidate da militari mai visti prima di allora».
Verso l’una di notte Baraldi decise di non ascoltare più chiacchiere e pettegolezzi. Si chiuse dentro la sua macchina e tentò di dormire. Ma l’orgasmo del momento e l’intenso via vai di macchine che entravano ed uscivano lo tennero sveglio un pezzo. S’assopì forse verso l’alba, ma poco dopo qualcuno lo svegliava: era il tenente colonnello De Buzzaccarini. « Si parte, Baraldi ..»
L’autista guardò l’ufficiale con gli occhi assonnati, ma si scosse mise in moto il motore, girò la macchina. Quasi subito scesero dallo scalone del Ministero della Guerra il Re, la Regina, il generale Puntoni, seguiti da numerosi altri ufficiali. Baraldi aprì gli sportelli, si tolse il berretto. Nella parte Posteriore della macchina presero posto Vittorio Emanuele, Elena di Savoia, il generale Puntoni. Sul sedile anteriore, accanto a Baraldi sedette il tenente colonnello De Buzzaccarini Fu questo aiutante di campo dei Re ad indicare la strada all’autista.
Partenza all’alba
Erano le 5.10. Albeggiava appena. « Uscimmo »; ci ha raccontato Baraldi, dal cancello di via Napoli, percorremmo via Nazionale , piazza dei Cinquecento, passammo da porta San Lorenzo ed imboccammo la Tiburtina. Nessuno parlava. O meglio Baraldi udì solo quanto gli diceva, di tanto in tanto, De Buzzaccarini perché la macchina reale aveva internamente uno spesso vetro divisorio che isolava l’autista. Un piccolo citofono serviva per gli ordini, quando il Re non preferiva aprire lo sportello interno e parlare direttamente con l’autista.
A causa della luce ancora indecisa (in settembre il sole sorge alle 5,30), Baraldi – che non poteva adoperare i fari, perché gli era stato ordinato di procedere con le luci piccole di città schermate – non tenne un’andatura sostenuta; sui sessanta di media. Gli venne allora spontaneo pensare a quando il Re gli diceva: «Baraldi su, fatti onore». Allora lui pigiava l’acceleratore e filava a 150 chilometri all’ora. E mai gli era successo un incidente. Una sola volta si era fermato per strada, nel ’35, davanti a Grosseto. Aveva bucato chissà mai come. Le gomme acquistate dalla Real Casa per la macchina del sovrano erano di un tipo speciale appositamente costruito dalla Pirelli. Avevano una tela in più del normale ed erano, inoltre, imbevute in una sostanza speciale che doveva preservarle dalle normali bucature: ogni 4000 chilometri, infine, i pneumatici venivano sostituiti Ma quel giorno a Grosseto parve che qualcuno avesse fatto il malocchio a Baraldi. Cambiata la gomma ripartì; mezzo chilometro più avanti pssssss: nuova bucatura.
Fu quello l’unico incidente capitato a Baraldi in 17 anni di quotidiano servizio accanto al Re, giacché l’autista non considera incidenti» l’essere stato presente all’attentato di Milano (marzo 1928) e a quello di Tirano quando un esaltato sparò con una pistola contro il Re che aveva alla sua sinistra il ministro albanese Verlaci. Baraldi udì le pallottole fischiare e sentì la macchina sbandare per un pneumatico bucato come un colabrodo.
”Cercheremo di arrivare a Pescara”
Ma quella mattina dove si andava? Lo chiese, con estrema timidezza a De Buzzaccarini: «Cercheremo di arrivare a Pescara», gli rispose l’aiutante di campo. Ma perché quel «cercheremo»? Mentalmente Baraldi fece gli scongiuri suoi soliti. Sarebbe stato proprio il colmo se quel giorno la macchina si fosse fermata in panne.
Intanto erano arrivati a Settecamini, a dodici chilometri da Roma. ]Baraldi guardando nello specchietto retrovisivo vide le luci di un’altra vettura. « Siamo seguiti », disse a De Buzzaccarini. Il colonnello aprì lo sportello e cercò di guardare fuori, poi osservò: «Sarà una delle due macchine della Real Casa, o quella che porta, assieme a Pierino Masetti, la cameriera Rosa Gallotti o quella che reca i bagagli dei sovrani, Oppure sarà la macchina di sua Altezza».
Cosi Baraldi seppe che in quel viaggio non era solo, che altre macchine seguivano la vettura del Sovrano. in. fatti subito dopo la Partenza della « 2800 » del Re, era partita una « 1100 » con Badoglio il duca Acquarone e il colonnello Valenzano, nipote e segretario particolare dei maresciallo. Tutte queste persone erano in borghese. Dieci minuti più tardi erano partite altre tre macchine, due della Real Casa con i bagagli dei Sovrani e i camerieri Pierino Masetti e Rosa Gallotti. Alle 5,20 era partita una – 1500 » del generale Puntoni, con a bordo l’attendente Maggiorini e l’ordinanza del tenente colonnello De Buzzaccarini. Il generale Puntoni, come s’è detto, aveva in precedenza preso posto nella vettura del Sovrano. Ultima a lasciare il Ministero della Guerra verso le 5,30, era stata l’Alfa Romeo d’ci Principe di Piemonte con a bordo, oltre al Principe e al suo autista sergente maggiore Cossani, l’aiutante di campo e i maggiori Campello e Litta, ufficiali di ordinanza: tutti in divisa. Verso le 6 era partita l’ultima macchina dell’autocolonna reale, con a bordo il generale Gamerra, primo aiutante di campo generale del Principe e due ufficiali superiori dello Stato Maggiore.
A Tivoli una prima fermata fece battere il cuore a Baraldi. Una luce rossa si accese in mezzo alla strada. Si intravidero soldati. Tedeschi o italiani? «Per fortuna», osserva Baraldi, «erano i nostri». Così proseguimmo immediatamente.
Un ordine del Re
Ma quell’incontro che Baraldi e forse anche il Re, la Regina, il generale Puntoni, il tenente colonnello De Buzzaccarini, considerarono di buon auspicio, venne diversamente giudicato in una altra macchina, in quella del Principe Ereditario.
Mentre a bordo della «2800» del Sovrano nessuno parlava, nell’auto del Principe era iniziata una discussione animata. Umberto di Savoia seguitava a ripetere che quella frettolosa partenza era un tremendo errore». « Forse sarebbe stato meglio, osservava il Principe, – che io fossi rimasto a Roma. Ma ho dovuto obbedire all’ordine del Re». Fu a questo punto che il maggiore Campello. con eccessivo slancio, disse vivacemente: « Altezza Reale, forse vale la pena trasgredire agli ordini; di mezzo c’è l’Italia, c’é la salvezza dello stesso istituto monarchico ».
Tanta spregiudicatezza di linguaggio sulle labbra di Campello non aveva meravigliato il Principe. Con Campello egli era in dimestichezza sin da quando entrambi bambini di tre anni erano soliti giocare nei giardini del Quirinale; perché la contessa Campello, come dama di Corte della Regina Elena aveva potuto, per desiderio della Sovrana, portare il suo figlioletto a giocare con Berto », così i Reali chiamavano il loro unico maschio.
Un falso allarme
All’improvviso parve che il Principe prendesse una decisione drammatica. Il suo autista frenò e disse con non celata preoccupazione: «Hanno fermato la macchina del Sovrano».
Campello chiese: «Se sono tedeschi che facciamo? » Umberto di Savoia rispose rapido: «Giriamo la macchina e torniamo a Roma ».
«Purtroppo» , osserva oggi con estrema amarezza il conte Campello, « si trattava di un falso allarme. La macchina del Re proseguì. E noi lo stesso, alla nostra volta fermati dalla identica pattuglia che aveva bloccato l’auto del Sovrano. Forse», osserva Campello, « se invece di trattarsi di nostri soldati avessimo incocciato una pattuglia tedesca, la storia d’Italia sarebbe cambiata. Il Principe sarebbe tornato a Roma. Avrebbe organizzato la difesa della capitale? Sarebbe caduto in mano dei tedeschi? Sarebbe stato ucciso? Fatto prigioniero? Tutte le supposizioni avrebbero potuto avverarsi, ma una cosa è certa: il destino di Casa Savoia sarebbe stato un altro».
Dopo quell’incidente, sull’Alfa Romeo bel Principe si fece silenzio. Nessuno aveva voglia di parlare. Ma passata Tivoli, fra San Polo e Vicovaro (a 38 chilometri da Roma), il sergente maggiore Cozzani notò un’altra macchina, facilmente riconoscibile, ferma sul lato destro della strada. Era una delle «2800» della Real Casa, quella che portava i bagagli e la cameriera personale della regina. La fedele Rosa Gallotti che doveva poi seguire Elena di Savoia fino a Montpellier. Che cosa era successo? L’autista Masetti spiegò che si trattava di un guasto, non facilmente riparabile. Il Principe di Piemonte osservò: «A Vicovaro telefoneremo perché qualcuno di Villa Savoia provveda». Venne infatti telefonato, ma i bagagli dei Sovrani giunsero con estremo ritardo, pochi istanti prima dell’imbarco da Ortona per Brindisi.
Badoglio in “panne”
Verso Avezzano nuovo alt. Questa volta in panne era la macchina di Badog1io. Il Principe decise allora di prendere sulla sua Alfa il vecchio maresciallo che tremava dal freddo e il colonnello Valenzano. Badoglio andava ripetendo: «Se i tedeschi mi prendono chissà a quale di questi alberi mi impiccheranno!». E intanto osservava gli alti, diritti pioppi che fiancheggiano la Tiburtina lungo la Piana di Avezzano.
Con Badoglio viaggiava anche il duca Acquarone, Ministro della Real Casa. Si stabilì di attendere il passaggio di un’altra macchina. Poco dopo apparve la «1500» del generale Puntoni. Acquarone la fermò, fece scendere i due attendenti di Puntoni e di De Buzzaccarini con i relativi bagagli, poi assieme con il maggiore Litta ripartì verso Pescara. Umberto di Savoia, intanto, aveva ceduto il suo pastrano militare a Badoglio, Il vecchio maresciallo lo aveva subito indossato e se l’era stretto attorno al corpo. Poi, all’improvviso, aveva rovesciato l’orlo delle maniche per nascondere i gradi di generale d’armata. Umberto di Savoia aveva notato il gesto ma non aveva detto nulla. Più tardi qualcuno disse che il generale Gamerra (che non aveva mai avuto eccessiva simpatia per Badoglio) avesse chiaramente mostrato, scuotendo vivacemente la testa, di non approvare gli eccessivi timori del maresciallo. «E’ forse un male essere prudenti?», avrebbe domandato con aria piagnucolosa Badoglio- Ma la storiella non è vera, anche perché – come abbiamo già detto – il generale Gamerra non era nell’auto del Principe.
Frattanto la macchina di Baraldi, più potente delle altre, aveva acquistato un notevole vantaggio. Il Re, come era solito fare quando viaggiava, aveva anche quella volta tirata fuori una carta geografica al 100 mila e l’andava consultando.
Baraldi ricordò allora che una volta il Sovrano gli aveva detto, mostrandogli una intera carta geografica d’Italia al 500 mila, tutta segnata con un lapis rosso: «Li vedi questi segni? Sono le strade che abbiamo percorso assieme. Sai quanti chilometri abbiamo fatto? Quasi duecentomila». E lui, Baraldi, aveva risposto: «Maestà abbiamo girato tutta l’Italia, in una sola, regione non siamo andati assieme: in Sardegna». Il Re aveva sorriso ed aveva risposto evidentemente divertito: «E avrei dovuto, secondo te, imbarcare la macchina, disturbare chissà mai quanta gente quando invece le prefetture di Cagliari, Sassari e Nuoro mi facevano trovare autisti più bravi di te e macchine più belle della mia?».
Una strana serenità
Intanto Baraldi aveva notevolmente aumentato di velocità. Erano le otto di un mattino chiaro, sereno. Ora la Tiburtina era deserta. Solo qualche carretto, ogni tanto, procedeva per la strada. Non si incontravano più, come era avvenuto un centinaio di chilometri più indietro, alle luci dell’alba, automezzi militari, carri armati, pattuglie rinforzate. Pareva anzi che qui la guerra fosse ormai finita. Una strana serenità era d’intorno.
Nella macchina reale nessuno parlava. Solo De Buzzaccarini diceva qualcosa all’autista. Nell’interno della Fiat 2800 il Re teneva nelle sue mani la destra della Regina con un gesto di affettuosa protezione. Elena di Savoia era stanca. Tentava di sonnecchiare ma una curva, una leggera frenata, bastavano a farle riaprire gli occhi.
Ad un tratto Baraldi chiese al tenente colonnello De Buzzaccarini: «Quanti chilometri mancavano per Pescara? ». De Buzzaccarini, dopo aver dato una occhiata ad una carta geografica che teneva sulle ginocchia, disse: «Una ventina circa ». Baraldi calcolò che (la strada era ormai abbastanza pianeggiante) in venticinque minuti sarebbero giunti a destinazione. Poco dopo, invece, attraverso il citofono, gli giunge la voce del Re: «Baraldi, rallenta. Sulla tua destra ci deve essere un bivio. Prendilo, ma fermati non appena avrai fatta la curva». Ubbidì. Poco dopo il Re scese di macchina subito imitato dal generale Puntoni e da Buzzaccarini. La Regina, invece, rimase nella vettura. Il Re disse: «Aspetteremo qui le altre macchine». Mezz’ora dopo si vide spuntare una «1500». Con sorpresa di tutti si scoprì che la macchina, di proprietà del generale Puntoni, non portava più i due attendenti che erano partiti da Roma, bensì il duca Acquarone e il maggiore Litta. Dopo rapide spiegazioni, il Re disse ad Acquarone: «Lei che è in borghese e che non ha una macchina militare, vada avanti fino a Pescara e veda quello che è successo. Noi l’aspetteremo qui ». Intanto era giunta anche l’Alfa Romeo del Principe di Piemonte. Umberto di Savoia osservò: Invece di attendere lungo la strada non ci conviene arrivare in un posto più sicuro, a Crecchio per esempio, dai duchi di Bovino?». Il Re nuovamente consultò la sua carta geografica, poi concluse: «Sta bene. Andiamo a Crecchio. L’appuntamento è là ».