Le ingerenze politiche nelle operazioni militari
* Graziani non poté rivolgersi al Re, come aveva fatto Diaz in un’analoga circostanza, quando gli venne ordinato di iniziare la marcia su Sidi Barrani
*Badoglio non fu in malafede al tempo della campagna di Grecia: forse in cuor suo invidiava il più giovane collega che si preparava ad una marcia trionfale
*La verità sulla difesa della Sicilia: le nostre povere divisioni costiere non avevano altra risorsa che il sacrificio, senza speranza d’arrestare le forze nemiche
Lo Stato maggiore era risolutamente contrario alla campagna di Grecia, a meno che non si predisponesse, con adeguato periodo di organizzazione, «un corpo di spedizione di non meno di 20 divisioni ». Così affermano le pubblicazioni ufficiali del dopoguerra. Vi è poi il verbale della seduta del Consiglio supremo di difesa che presenta un Badoglio consenziente con marginali riserve. Quali delle fonti ha ragione? – domando.
Umberto ritiene che effettivamente ci fu un accordo complessivo al momento della decisione, e che l’opinione dello Stato maggiore fosse quella che era stata data in linea generale: minimo 20 divisioni. Naturalmente con le premesse stabilite da Mussolini e da Ciano (concorso delle truppe balzare all’attacco alla Grecia, valida collaborazione di bande albanesi ed epirote, tacita, acquiescenza delle truppe greche in Epiro, ecc.) anche l’opinione dello Stato maggiore risultava superata. Secondo le prospettive ottimistiche presentate dal ministro degli Esteri e dal Luogotenente in Albania, l’azione non sarebbe stata che una, specie di passeggiata.
«I militari di professione, in genere – dice Umberto – non cadono in illusioni del genere: abituati fin dalla giovinezza ad avere la responsabilità di uomini, sono sempre molto prudenti e calcolano un margine di sicurezza a volte perfino eccessivo. D’altra parte, il calcolo superiore alle reali esigenze, in guerra, si dimostra sempre provvidenziale, in quanto mette al sicuro da ogni sorpresa. Quelli che in quel momento erano i maestri, invidiati, di Mussolini, cioè i tedeschi, avevano per sistema di lanciare sempre due divisioni ove ne bastava una, perché in tal modo il successo era più rapidamente assicurato e, benché ciò sembri illogico, le perdite divenivano minori».
Umberto non accetta la versione che Badoglio fosse in malafede, avendo la certezza che l’impresa fosse pazzesca, al fine di far inciampare Mussolini.
«E’ una versione – egli dice – che corrisponde a una visione romanzesca della realtà. Badoglio, non v’é dubbio, nutriva, una fiera antipatia per Mussolini, ma non sarebbe giunto al punto di far andare allo sbaraglio sei divisioni nostre, fra le più efficienti del momento, per fare dispetto a Mussolini. E’ più probabile che anche Badoglio prendesse per oro colato le incaute promesse fatte dal ministro degli Esteri e dal Luogotenente d’Albania, e forse egli invidiava il più giovane collega che si accingeva a compiere una marcia trionfale nell’antico regno di Pirro».
«Doveva essere una marcia trionfale: fu una delle più squallide esibizioni di incapacità direttiva abbinata con una delle più sublimi esibizioni di valore da parte delle truppe. Il castigo per aver violato le leggi della tecnica militare fu gravissimo. Bastava che Mussolini avesse seguito la norma abituale: proporre il tema allo Stato maggiore e dargli pieni poteri per l’esecuzione sul terreno. Ma egli voleva giustificare di fronte alla opinione pubblica il suo antipatico gesto di aver tolto il comando supremo dalle mani del Sovrano di Vittorio Veneto».
Quando veniamo a parlare della campagna di Libia, iniziata con la pseudo vittoria di Sidi Barrani e chiusa con la omonima durissima sconfitta, Umberto si richiama alla rampogna che la storia fece a Crispi per il famoso telegramma che spinse Baratieri a dare battaglia ad Adua. Le ingerenze del potere politico non giovano mai all’efficacia delle azioni militari; e Vittorio Emanuele III sostenne autorevolmente il generale Diaz quando questi rispose molto seccamente al presidente Orlando, che nel maggio 1918 sollecitava, una offensiva di alleggerimento sul Piave, di non poter tenere in conto altri elementi che quelli che a lui, capo di Stato maggiore, risultavano preminenti; e che una offensiva prematura sul Piave, che si sarebbe poi scontrata con una offensiva austriaca in corso di preparazione, non avrebbe alleggerito nulla sul fronte francese.
Graziani non ebbe la fortuna che ebbe Diaz, in quanto non poteva appellarsi al comandante supremo che questa volta era la stessa persona del Capo del governo. Se il comandante supremo fosse stato il Re, Graziani avrebbe potuto rivolgersi a lui per chiarire la impossibilità, anzi l’assurdità di una avanzata su Sidi Barrani. Mussolini aveva bisogno di una avanzata qualsiasi per movimentare le cartine geografiche pubblicate dai giornali. Egli prescindeva da quella scienza che integra e rende valida la strategia che si chiama «logistica», senza la quale si può vincere uno scontro ma si perde una campagna. Graziani, che ebbe il torto di limitarsi a protestare, ma ubbidì, lanciò la sua armata nel deserto, esponendola a essere assalita da tutte le parti. Come avvenne, anche questa volta Mussolini aveva agito come Crispi e Graziani aveva seguito l’esempio di Baratieri, impegnando la sua armata in condizioni che sapeva benissimo non idonee per un successo solido. La politica aveva interferito nella guerra con effetti chiaramente disastrosi.
Il criterio politico prevalse anche per la campagna in Africa orientale. La situazione nostra in quella immensa regione – la cui pacificazione non era stata completata dopo quattro anni dalla vittoria – era tutt’altro che facile, in quanto all’eventualità della guerra si prospettava un pieno e completo isolamento: il che poteva anche essere non grave per quanto riguardava l’alimentazione, ma era gravissimo per i rifornimenti di armi, munizioni e mezzi meccanici. La logica delle cose veniva riassunta dalle disposizioni generali impartite dallo Stato maggiore: difensiva attiva, economia di uomini e di mezzi. Viceversa il Comando Supremo (Mussolini) diede ben presto ordine di attaccare in tutte le direzioni, verso il Sudan, verso il Kenia e verso a la Somalia britannica (Somaliland). Umberto dice che in questo caso si trattò d’una esigenza diversa, in quanto si pensava, ancora in quel momento a una fulminea vittoria germanica, e Mussolini voleva occupare del territorio britannico per avere «qualcosa in mano» al momento delle trattative di pace. Indubbiamente se avessimo avuto ali adatte a tal volo, in quel momento, un’azione dall’A.O.I. verso il Sudan in concomitanza con una robusta azione dalla Cirenaica sarebbe stata cosa superba. Ma sapevamo benissimo che tutto quel che potevamo fare era di grattare appena l’epidermide dell’Impero britannico.
Lo stesso Badoglio cadeva nell’ottimismo tanto rimproverato agli altri, poiché scriveva alla fine del settembre 1940 che «i tedeschi ritengono di poter condurre felicemente lo sbarco in Inghilterra e quindi concludere la guerra entro il mese di ottobre». Impartiva intanto disposizione per una grossa e azione offensiva che il Duca e d’Aosta avrebbe dovuto compiere contro i centri della valle del Nilo. Il Duca d’Aosta però non aveva il carattere di Graziani, e rispose esponendo la sua situazione e chiedendo 100 aeroplani, di cui 70 da bombardamento, senza di che non avrebbe mosso una sola divisione: il che in quel settore, fece saggiamente, e ciò giovò alla successiva epica difesa.
L’epopea dell’A.O.I. ebbe fine (lasciando l’amaro in gola a tutto il popolo italiano), che era stato prima illuso dalle brillanti vittorie di Cossala, Gallabat, Moiale e dei Somaliland. Le vittorie conquistate per ragioni politiche, e non susseguenti a una logica militare, portano sempre un fondo di amarezza e di delusione. L’amarezza per la perdita dell’A.O.I. fu tanto più grande in quanto Amedeo di Savoia fu fatto prigioniero (aveva declinato la offerta di essere condotto in salvo con un aereo, per restare coi suoi soldati) e finì tristemente in un ‘ospedale di Nairobi.
Sul fronte russo
– La campagna di Russia – domando a questo punto per distrarre il pensiero di Umberto dal ricordo triste della fine di Amedeo d’Aosta – fu anch’essa una campagna politica?
«Soprattutto politica – risponde – per tante ragioni. Anzitutto, la ragione ideologica: a Mussolini piaceva i1 fatto di mandare truppe fasciste a combattere nel paese del comunismo. Ma soprattutto a Mussolini interessava non lasciare mai solo i1 socio di Berlino. Mi risulta che lo Stato maggiore, il cui capo era allora, ai primi di giugno del 1941, il gen. Cavallero, mosse una infinità di obbiezioni, perché l’andamento della guerra gli faceva già temere, per la prudenza tipica dei militari, la possibilità di dover difendere lo stesso suolo nazionale: e in tale previsione non sembrava saggio distaccare in un fronte così lontano una massa considerevole di truppe, che avrebbero dovuto essere equipaggiate con grande sforzo e rifornite poi con uno sforzo logistico anche maggiore. Ma la volontà di Mussolini fu inflessibile: dovunque egli presagisse un trionfo, là dovevano essere i nostri soldati. Sventura volle che egli, nella sua disperata caccia a una vittoria, dovunque non incontrava che insuccessi ».
Ricordati i brillanti successi riportati dal CSIR al comando del gen. Messe, Umberto riferisce un fatto che non depone certo a favore del vantato cameratismo italo-tedesco.
Il 22 giugno 1941, nella sede di un comando germanico sul fronte russo, veniva stipulato un accordo per il quale l’alleato si impegnava a fornire al nostro Corpo di spedizione i viveri della razione germanica, però nei limiti (molto inferiori) della razione italiana, come se le nostre truppe in quelle condizioni ambientali non avessero anch’esse bisogno di un elevato numero di calorie. Con lo stesso accordo l’alleato si impegnava a fornire anche altri materiali indispensabili, compresi i carburanti e la legna da ardere. Per un paio di mesi viveri e materiali furono consegnati ai nostri reparti, poi a cominciare dal mese di settembre le consegne divennero sempre più saltuarie fino quasi a cessare del tutto; il che costrinse il nostro Corpo a provvedimenti eccezionali, malgrado i quali tuttavia le truppe subirono qualche disagio. I tedeschi riuscivano a cavarsela requisendo senza cerimonie tutto quanto trovavano nei centri conquistati; ma alle nostre truppe ciò era vietato sia dal citato accordo che da quel senso morale e umano, che non è mai stato smarrito dal nostro soldato, per non affamare la popolazione civile superstite.
Umberto si sofferma poi a parlare della direzione di guerra tenuta da Hitler, che era ancora più folle e scoraggiante di quella tenuta da Mussolini, il quale almeno cedeva di tanto in tanto sia al consiglio del Sovrano che a quello dei generali che più gli erano vicini. Hitler non ascoltava nessuno, i suoi ordini erano verbi messianici, anche quando erano veri e propri delitti contro il senso strategico: come fu per l’avanzata verso il Caucaso e per quella su Stalingrado, due azioni che scoprivano largamente il centro dello schieramento, dove infatti Stalin riuscì poi a colpire. Umberto cita la famosa frase di Clemeneceau a proposito della guerra e dei generali, e la trasforma così: «La guerra é una cosa troppo seria per lasciarla dirigere agli uomini politici» .
Tanto Hitler che Mussolini avevano adottato questo strano criterio militare, per cui si manovra soltanto se si attacca, non se ci si difende. Così si spiega la tragedia di Stalingrado. Così si spiega quello che avvenne all’ARMIR (che aveva sostituito il CSIR) che era stata schierata dai tedeschi sulla linea del Don, senza avere alcuna facoltà di manovra, ma dovendo difendere passivamente il proprio settore. Nella catastrofe generale del fronte tedesco la nostra Armata, che si era battuta con successo, fu anch’essa travolta. Anche questa trovata «politica» di Mussolini era finita in un disastro, mentre la difesa del suolo nazionale rimaneva indebolita alla vigilia del collaudo.
Ed eccoci a El Alamein. Umberto pensa che le cose abbiano avuto lo stesso andamento: a una avanzata fatta senza le necessarie scorte, doveva seguire una pronta manovra di ritirata, non appena la sorpresa fosse mancata, come mancò. A che serviva tenere un grosso esercito sospeso nel vuoto del deserto, a oltre quattrocento chilometri dalle basi e a settecento chilometri dalla base principale, se i rifornimenti erano impossibili e non soltanto difficili? Un Comando Supremo nelle mani del Re, ove il pensiero tecnico-militare avesse prevalso, non avrebbe esitato a fare arretrare il grosso delle forze in modo da poterle mantenere in efficienza, lasciando a reparti veloci il compito di molestate il nemico. Mussolini e Hitler furono concordi nel dire che bisognava restare a El Alamein e subire il martirio della superiore preparazione nemica, come se il subire una dura sconfitta fosse più propagandistico del ritirarsi vittoriosi. Quel che ancora oggi stupisce Umberto é che non sia stata mai fatta balenare a Mussolini l’idea che, salvando con un balzo indietro il grosso delle truppe italo-tedesche, avremmo avuto sottomano ben altre forze mentre si profilava l’intervento massiccio dell’America e si poteva già pensare al suolo nazionale in pericolo. Ciò non fu fatto, sempre per ragioni politiche. Il che ci costò la perdita di gran parte delle nostre truppe, di gran parte del materiale e di ogni residua speranza sull’esito della guerra.
Ogniqualvolta tento, nei nostri colloqui, di accennare all’eventualità che qualcuno possa aver tradito o agito subdolamente, sia pure «per liberare l’Italia dal fascismo e dal dittatore», Umberto si rifiuta sempre di prendere in considerazione la cosa. Non ammette, come tema di discussione storica, che dei cittadini possano aver facilitato la vittoria straniera allo scopo di vincere la lotta politica interna. Se non si sentivano legati al giuramento di fedeltà a Mussolini, dovevano ricordarsi di aver giurato fedeltà al Re. Respinge sempre l’argomento.
Il « bagnasciuga »
A un tratto, però, prende un foglietto di appunti e dice: «Ecco una frase che merita di essere ricordata: “E’ necessario che il paese aiuti con entusiasmo la guerra, non solamente perché è guerra santa a pro di fratelli contro stranieri, non solamente perché dalle nostre battaglie dipenderà il posto che la Patria occuperà in Europa, ma perché dalla somma delle forze portate in campo deriva la nostra salute contro pericoli disonorevoli di interventi stranieri che sarebbero pagati con disonoreveli concessioni “. E’ una lettera di Mazzini del 13 giugno 1866. Che ne dice?» .
Ritorniamo all’esame della guerra che è ora in casa. Dico a Umberto che molti, in base al discorso di Mussolini che fu detto del «bagnasciuga », credettero che veramente la Sicilia fosse un fortilizio imprendibile. Umberto fa comprendere subito ch’egli è di diversa opinione.
«La difesa della Sicilia incomincia – era stata in pratica soltanto abbozzata. La linee costiera era difesa, quasi simbolicamente, da un velo di truppe delle divisioni dette appunto “costiere”, il cui armamento era del tutto inadeguato, e Mussolini doveva saperlo. Si trattava, per tutto il vasto perimetro dell’isola, di cinque divisioni costiere, le quali disponevano soltanto di batterie da posizione, salvo un gruppo da 100/22 a traino animale per tutta riserva di fuoco manovrabile. Fatta eccezione per le piazzeforti marittime di Augusta e Siracusa, le artiglierie erano del tipo normale e per di più antiquato; la loro gittata non poteva in alcun modo infastidire navi nemiche di minimo tonnellaggio. Come artiglierie controcarro non erano disponibili che pezzi da montagna, la cui efficacia contro i carri anglo-americani era assolutamente nulla. Non esistevano mezzi di collegamento moderni: le divisioni dovevano servirsi del telefono ordinario; il che significava non poter telefonare dopo un qualsiasi bombardamento che interrompesse le linee. Pochi automezzi a disposizione, niente carri armati, niente cannoni semoventi, nemmeno qualche autoblinda, in sostanza si trattava di truppe condannate a farsi sommergere sul posto, senza alcuna possibilità di manovra nemmeno parziale. Su non meno di milleduecento chilometri di costa considerata adatta a uno sbarco, la densità della difesa era di 26 uomini per chilometro, una batteria antisbarco ogni dieci chilometri, un pezzo anticarro, cioè in funzione anticarro, ogni tre quattro chilometri».
«Ma – osservo – non si era fatto credere che si erano fatti in Sicilia lavori di fortificazioni formidabili?»
«Ne erano stati progettati – dice Umberto – fin dal principio della guerra, ma erano stati portati avanti fiaccamente nei primi anni, quando si sperava che quei lavori fossero inutili. Per compiere quei lavori. Roma avrebbe dovuto far arrivare in Sicilia una quantità di cemento calcolata nella misura di circa diecimila tonnellate al mese: ebbene, nell’aprile 1943 si vide che in tutto ne erano arrivate, in tre anni, cinquantamila tonnellate. Il governo avrebbe voluto correre ai ripari, ma ormai il dominio aereo degli alleati non consentiva un traffico importante attraverso lo stretto di Messina. Né il Comando dell’isola poteva affidarsi alla produzione siciliana, che era ormai ridotta, al lumicino per mancanza di combustibile. Mancavano del resto tutti gli elementi indispensabili, ferro, legname, macchinari e maestranze adatte. Per cui la difesa dovette accontentarsi di lavori del vecchio tipo campale, e tutto il sistema delle “posizioni di arresto” rimase sulla carta ».
«Vi era anche, a disposizione del Comando della difesa dell’isola un gruppo di divisioni di manovra: Aosta, Assietta, Napoli e Livorno, più due divisioni tedesche, una delle quali corazzata. Le divisioni tedesche erano armate benissimo; quanto alle divisioni italiane, pur armate ancora quasi come nel 1918, seppero, dice Umberto, battersi con incredibile valore».
«Perché mai Mussolini – domando – sapendo quel che sapeva della nostra debolezza in Sicilia e sapendo quel che doveva sapere della strapotente forza avversaria, fece un discorso così ottimista come quello del bagnasciuga? »
«In Mussolini – risponde Umberto – deve aver prevalso lo spirito polemico e ottimista dell’uomo politico che cerca di far credere a una verità che gli è favorevole; mentre lo spirito di un capo militare avrebbe portato, caso mai, a un appello quasi angoscioso all’unione di tutte le forze contro il pericolo della invasione straniera. Mussolini preferì far sperare un giorno di più gli italiani: e il danno fu anche suo, perché fu l’ultimo colpo al suo prestigio, dopo tutte le sconfitte cui aveva dovuto presiedere» .
La nostra difesa
Che fosse ottimista convinto, non è possibile: non a lui mancava la possibilità di avere notizie precise; il egli doveva sapere che contro due poderose armate nemiche, fornite di materiale che era il non plus ultra della modernità schierate in dieci divisioni, più due brigate e due “gruppi di combattimento” dotate di 6.000 carri armati invulnerabili per i nostri pezzi anticarro, e di 1.800 pezzi d’artiglieria per lo più pesante, protette da una flotta colossale, sotto l’ombrello protettivo di non meno di diecimila aerei, tutti efficienti e modernissimi, le nostre povere divisioni costiere non avevano altra risorsa che il sacrificio senza speranza,.
«Pensi – prosegue Umberto – che tutta la zona sud-est della Sicilia era affidata a una, sola divisione costiera, la 206, che doveva tenere 132 chilometri di costa. Questa divisione aveva per rito 2111 fucili – mitragliatrice due per chilometro circa; 474 mitragliatrici, cioè poco più tre per chilometro; 46 pezzi anticarro cioè uno ogni tre chilometri e per di più inadatti allo scopo; 65 pezzi d’artiglieria da posizione. Contro di essa si scatenarono quattro divisioni nemiche, con l’armamento che sappiamo! E tuttavia, quei poveri soldati, sottoposti a un bombardamento apocalittico dall’aria e dal mare per ore e ore, privi di mezzi antiaerei per cui gli aeroplani nemici si abbassavano a mitragliarli da poche
decine di metri, seppero resistere, e non so come lo poterono, per ventiquattr’ore.
Ventiquattro ore spaventose: lo sa che taluni reparti resistettero fino a che cadde l’ultimo uomo, e che intere compagnie sono state sepolte accanto alle posizioni che avevano difeso con inaudito valore?».
«Meriterebbe che uno storico andasse a frugare fra le brulle colline del sud della Sicilia e interrogasse anche le pietre: vi troverebbe materia per un saggio sull’eroismo disperato. Passo passo, le truppe accorrenti venivano travolte, anzi «macinate» dalla valanga nemica; si sentì subito il peso della mancanza dei collegamenti, poiché tutti i movimenti avvenivano in ritardo e il nemico arrivava un quarto d’ora prima di noi sulle posizioni. Naturalmente l’azione delle divisioni tedesche fu molto più efficace in rendimento; ma i tedeschi disponevano di carri armati che reggevano il confronto con quelli avversari». Umberto afferma che il valore delle nostre truppe fu tale da far passare in seconda linea gli errori del Comando Supremo, le imprevidenze del governo e le incertezze dei comandi di grande unità, che d’altronde erano rimasti privi di ogni contatto con i reparti combattenti. «Il fatto storico é che poche divisioni italiane, male armate, non sempre bene comandate, tennero testa a un nemico enormemente superiore. Nei piani degli invasori, l’isola avrebbe dovuto essere conquistata in venticinque giorni; ce ne vollero quaranta per raggiungere lo Stretto, e non gli fu nemmeno possibile impedire che gran parte delle truppe superstiti, italiane e tedesche, varcassero il canale con quasi tutte le artiglierie e gli automezzi».
Accenno all’inerzia della flotta al momento dell’invasione, ma Umberto mi fa subito osservare che è inutile dare la colpa a destra e a sinistra. dal momento che il supremo comandante delegato aveva voluto, proprio lui, accentrare a Roma tutte le facoltà di disporre. In ogni modo le cose stavano ormai per mutare radicalmente, anzi mutarono mentre la Sicilia era solo per metà in mano nemica. Ma le cose non mutarono soltanto perché vi fu un’ondata d’indignazione in tutta l’opinione pubblica contro una direzione di guerra insensata e facilona, bensì anche perché ormai era vana illusione pensare di opporsi a truppe armate modernamente, servendosi del fucile modello 1891 e del cannone 75 veterano del Piave. In quelle condizioni continuare la guerra significava voler far distruggere tutta la gioventù italiana, per non dire delle stragi che il nemico continuava a fare nelle nostre città.