Odor di tartufo
C’è nell’aria un odor di tartufi che s’avverte fin dalla strada. Il giardino ne è pieno. Il grosso poliziotto dalla divisa azzurra e dai bottoni d’oro, cui il governo portoghese ha affidato il non difficile compito di vegliar sulla sicurezza di Umberto di Savoia fiuta stupito il profumo per lui misterioso. Un profumo denso, pesante, che il vento ogni tanto porta via, ma subito si riforma, vien giù dalle finestre, dalla loggia di villa Italia in cascate invisibili.
Entro nella villa, sembra d’essere alla fiera d’Alba. Odor di tartufo nel vestibolo dove una fila di pallidi principi di casa Savoia sgrana gli occhi e dilata le nari dentro le belle cornici dorate; odor di tartufo nell’anticamera, e nuvole profumate trascorrono il cielo d’una vecchia, grande stampa nella quale s’ammira la ” Représentation de la Bataille donnée deuant Turin le 7 de Septembre 1706 ” ; odor di tartufo lungo la scricchiolante scala di legno cara ai giochi delle principessine, odor di tartufo nello studio del re, il quale mi porge una lettera imbevuta di odor di tartufo, viene proprio da Alba, gliela manda un vecchio piemontese che due mesi or sono, di passaggio per Lisbona, venne a fargli visita, e nell’accomiatarsi prese un solenne impegno. «Le manderò da Alba uno dei più grossi tartufi che mai si siano visti, da riempir di profumo tutta Lisbona ».
«Ha più che mantenuto la promessa», dice ridendo Umberto. «Il postino che ha portato qui il pacco non finiva di meravigliarsi e non finisce ancora. Guardi». Mi faccio alla loggia. Il portalettere, un omino dal grande mantello, ha disteso questo sugli scogli, al sole, ed ogni tanto lo va annusando per sentire quand’é che potrà rimetterselo senza tirarsi dietro tutti i ragazzi di Cascais. Ma distenderlo al sole è stata un’imprudenza, al calore il profumo si fa più acuto e vince per un lungo raggio intorno lo stesso intenso odor di salsedine.
«Non passa giorno», dice Umberto lasciando sulla balaustra della loggia la lettera del vecchio piemontese perché perda, all’aria, il terribile sentore , «non passa giorno che non m’arrivino dall’Italia lettere e regali. Non sempre tartufi, naturalmente. I doni più vari, dai libri agli oggetti d’arte, dai giocattoli per le mie bambine alle specialità d’ogni paese. Quand’é Pasqua, mi mandano da Roma l’agnello di zucchero, da Palermo quello di pasta di mandorle, da Milano la colomba. Sono meno solo di quanto si possa credere. Passo, un’ora tutti i giorni a ringraziare, a rispondere ai saluti e agli auguri».
« Risponde personalmente? ».
«Sì, rispondo personalmente, benché qualcuno del mio seguito trovi sconveniente questo contravvenire alla norma, ch’è di rispondere – salvo rarissime eccezioni – per interposta persona. Dicono che i re, più si tengono lontani, inaccessibili, e più il loro fascino ne guadagna. Ma io sono un re in esilio, e non credo che farei bene ad aggiunger nuova distanza a quella che già mi separa dal mio Paese ».
Gli chiedo il permesso di dare un’occhiata alle lettere e ai biglietti scritti stamattina, ammucchiati sulla tavola e non ancor messi in busta. Poche parole, ma ogni volta diverse, mai la medesima frase convenzionale. La scrittura è grossa, chiara, ordinata. La firma Umberto – sempre decisamente sottolineata. La carta da lettere reca in alto lo stemma dei Savoia. I biglietti, di cartoncino, hanno in un angolo la fotografia di Villa Italia.
Leggo il ringraziamento a una signorina di Parma per una cravatta, oh certo una vecchia signorina tanti son gli anni, già, da che la cravatta è fuori di moda, ed il ringraziamento ha la galanteria di quel tempo, di quando la cravatta venne esposta nella vetrina come una novità, e trent’anni dopo l’ha comprata la vecchia signorina per il re in esilio, «da mettersi la domenica», dice la lettera profumata alla violetta, «per la Messa».
«Il giorno che nessuno più mi scrivesse, che non m’arrivasse più nemmeno una di queste cravatte impallidite, e che a nessuno dovessi più rispondere», dice Umberto, «sarebbe il più triste della mia vita, e perderei ogni speranza ».
« Lei mi ha detto », ardisco rammentargli, «d’essersi affidato alla volontà di Dio. Né speranza né disperazione. Sarà quel che Dio vorrà che sia. Il mestiere di re, ricorda?».
Sorride.
«Ricordo. Ma ci sono in me il re e l’uomo. Il re s’è affidato a Dio. L’uomo può desiderare che Iddio non voglia lasciarlo morire in esilio».
Gli chiedo che cosa pensi di re Leopoldo il quale ha accettato la clausola che subordina il suo ritorno sul trono all’ottenimento di almeno il cinquantacinque per cento dei voti.
«Mio cognato ha certamente le sue buone ragioni per aver accettato una condizione simile. Ad ogni modo penso che il suo primo atto, se, com’è assai probabile, ritornerà a Bruxelles, debba esser quello di abdicare in favore del principe Baldovino ».
«Lei ritiene che Leopoldo III abbia molte probabilità di uscir vittorioso dal “referendum”. Ma gli errori che ha commesso o che si reputa che abbia commesso, e soprattutto il suo nuovo matrimonio riuscito così sgradito ai belgi che adoravano la defunta regina Ingrid, non diminuiranno queste probabilità?».
«Senza dubbio. Ma mio cognato è forte dell’appoggio della Chiesa. Un ” referendum ” sfavorevole significherebbe non soltanto l’allontanamento di Leopoldo, ma l’indebolimento della monarchia. E la Chiesa non può privarsi di questo baluardo nella lotta che va conducendo contro il comunismo».
«Perché, allora, nel 1946 … ?».
«Guardi», dice il re affacciandosi alla loggia, «il postino è sempre giù, sulla scogliera, ad annusare il mantello».
«Il suo parere sulle elezioni regionali?». « Un esperimento assai pericoloso, del quale, del resto, gli stessi accesi fautori di ieri avvertono oggi tutta la grave responsabilità. I monarchici, naturali custodi dell’unità d’Italia, è già da tempo che avrebbero dovuto denunciare al Paese i rischi dello spezzettamento regionale. Invece hanno taciuto, lasciando soli i liberali a battersi per il principio dell’unità ».
«I monarchici, forse, hanno pensato: ” Tanto peggio tanto meglio “. Una repubblica nazionale, difatti, potrebbe col tempo consolidarsi, se non nella coscienza, nelle abitudini degli italiani, mentre da diciannove repubbliche regionali non può che nascere il desiderio del ritorno all’unità, e perciò alla monarchia ».
«Voglio crederla in errore. Il criterio del tanto peggio tanto meglio non è da buoni italiani, perciò non può venir seguito dai monarchici. Questi, ripeto, hanno il dovere di far di tutto, prospettando al Paese i pericoli dell’ordinamento regionale, perché la Repubblica rinunci a un esperimento che in primo luogo riuscirebbe di danno alla Nazione».
Un breve silenzio, poi: «Ora voglio mostrarle qualche cosa d’altro che non i saluti e gli auguri, che pure mi sono carissimi».
Va a uno scaffale, prende alcune grosse cartelle, ne apre una, n’esce e si spande sulla scrivania un centinaio di lettere.
« Legga. Purché, naturalmente, mantenga il segreto ».
Sono chiare, aperte, non richieste espressioni di fede, oh non già di umili cittadini, non già di povere vecchie signorine di provincia che mandan cravatte sbiadite dal tempo. Umberto sorride. La mia meraviglia di fronte a certi nomi, a certi gradi, a certi uffici, a certe dignità, lo diverte. Lascia che per qualche minuto i miei occhi passino da uno stupore all’altro, poi, riponendo le lettere nella cartella: «Basta. Lei, ne sono certo, sa mantenere i segreti. Ma c’è un limite a tutto, e non voglio indurla in troppa tentazione. E uscito di qui, non prenda appunti, la prego».
La cartella ritorna nello scaffale. Umberto e allegro come un ragazzo. Sentirsi non dimenticato lo fa felice.
«Intendiamoci», soggiunge, «non che io creda che sia tutt’oro colato. Ma oggi non voglio dubitare di niente e di nessuno. Ha visto, nel vestibolo, il registro delle firme dei visitatori? Da che son qui è il sesto che si riempie. Non v’è italiano, si può dire, che passando per Lisbona non venga a farmi visita. Anche operai, anche contadini, ed è difficile ch’io non conosca il loro paese, ch’io non sappia loro minutamente descriverlo. Si stupiscono. ” Oh, tornasse!, mi dicono. Molti non vengono solo per curiosità o per affetto, ma per chieder consiglio, aiuto, assistenza. C’è chi si rivolge a me prima che alla Legazione. ” Ma perché non andate là? domando. ” Perché venite da me? “. “Perché m’hanno detto”, rispondono, che il re d’Italia è buono, e chi chiede a lui non chiede mai invano. Quel che posso, faccio. Quel che non posso riesco spesso a fare ugualmente, valendomi delle buone amicizie che ho qui in Portogallo. Una volta, dopo avermi pregato di trovargli lavoro, un operaio mi confessò: “Io, però, ho votato per la repubblica”, e non poteva capacitarsi ch’io non gliene volessi affatto e che mi impegnassi ugualmente di fargli avere un posto».
Si sentì picchiare leggermente all’uscio, come un gattino che raspasse. Era la principessa Maria Beatrice che veniva a chiamare il padre per il pranzo.
«Nel vestibolo», dice il re congedandomi, «guardi il registro delle firme».
Questi registri che vanno riempiendosi delle firme di tanti italiani sono un po’ il suo orgoglio e il suo conforto. Tra poco anche il sesto sarà pieno, ed e pronto, vicino, il settimo, già aperto alla prima pagina. Migliaia di nomi, molti con l’indirizzo segnato accanto, e sono i nomi di quelli che, venuti senza farsi annunziare e non avendo trovato il re in casa, gli chiedono, in compenso, un biglietto con la firma.
Sfoglio alcune pagine. Ogni tanto un nome noto fra centinaia di sconosciuti. Ed eccone uno, con la data del 23 ottobre 1949, notissimo. Anzi, due: Gino e Adriana Bartali. Lo scorso autunno, difatti, il celebre campione venne a correre in pista a Lisbona, e chiese un’udienza a Umberto di Savoia. Bartali fa collezione di papi, di presidenti, di re. Nel ’48, se non m’inganno, dopo la vittoria nel Giro di Francia venne ricevuto da Pio XII e da Einaudi. Sì presentò senza cravatta, col colletto aperto, in sandali. I capi di Stato, ormai, non vanno a guardar tanto per il sottile quando si tratta di ciclisti o di calciatori. Un personaggio come Bartali dà oggi a chi lo riceva assai più lustro che non gli darebbe Einstein o Fleming, lo scopritore della penicillina. Perciò i presidenti se lo contendono e lo riceverebbero anche se fosse in maniche di camicia.
«Qui a villa Italia», domando al domestico che m’accompagna alla porta, «come s’e presentato? S’era abbottonato il colletto? Aveva la cravatta?».
«Ma naturalmente!» esclama il domestico, e mi guarda meravigliato, come chi dicesse: ” Ma che domande viene a farmi? E’ mai possibile che ci si possa presentare a un re senza cravatta e col colletto sbottonato?”.
Ed eccomi in istrada. Il portalettere e il poliziotto dalla divisa turchina e i bottoni d’oro si sono addormentati sulla riva del mare, sdraiati sul morbido muschio di uno scoglio liscio e piano. Accanto, agitato ogni tanto dal vento, il mantello nero perde lentamente il suo odor di tartufo.