I nostri figli
E sempre la domanda mi veniva alle labbra, e sempre la ricacciavo giù temendo di dispiacergli. Alla fine, l’ultimo giorno, mi decido, e senza tanti giri di parole gli chiedo perchè Maria José non viva con lui qui a Cascais. Mi ringrazia d’avergli posto francamente e semplicemente una domanda che tutti evitano di rivolgergli, o perché la ritengano troppo delicata o per la convinzione di saperne molto più di lui sull’argomento gliela faccia apparir superflua. Gli dispiace di non potermi rispondere più di questo: che per ora, almeno, sua moglie non può lasciar la Svizzera dove risiede quel professor Franceschetti che, con sì buoni risultati, la cura dei disturbi di cui soffre alla vista.
Ho l’impressione che parli della moglie con distacco, e che non si curi troppo di nasconderlo.
«L’autunno scorso sono stato a trovarla ed abbiamo fatto insieme quel viaggio in Francia di cui i giornali han pochissimo parlato, forse perché smentiva tutte le voci di separazione e addirittura di divorzio che così largamente e con tanto compiacimento avevano riportato in precedenza. Abbiamo visitato insieme l’abbazia di Hautecombe, dove son le tombe dei principi di casa Savoia, e nel 1831 vi fu seppellito il re Carlo Felice. Venne fondata nel 1101…».
L’amor della storia lo riprende. Ma non si dilunga. Avverte che sarebbero fuori di luogo, torna a Maria José.
«Andrò presto, spero, a farle nuovamente visita. Non cosi spesso, purtroppo, come certo farebbe ogni buon marito il quale non si trovasse, però, nella speciale condizione di chi, come me, deve avere il buon gusto di non mettere troppo spesso in imbarazzo i governi delle nazioni confinanti con l’Italia, per i quali ogni mia richiesta di soggiorno è una non piacevole occasione di conflitto fra il desiderio che pur avrebbero di concedermi frequente ospitalità e i doveri di buon vicinato con la Repubblica».
«Ma il principe Vittorio Emanuele… ». «Capisco. Non soltanto lei, del resto, pensa che mio figlio verrebbe forse meglio educato nella tradizione di Casa Savoia se vivesse presso di me. Ma a Ginevra, dove vive con la mamma, non gli mancano i buoni insegnamenti, ed il collegio che frequenta è il medesimo che ebbe per allievo Carlo Alberto. Infine è ancora un ragazzo, non ha ancora tredici anni, benché all’aspetto ne dimostri di più. Lei lo ha veduto, lo scorso settembre, a Cannes. Eravamo allora tutti riuniti, mia madre, le mie sorelle, mio figlio».
Si, lo ricordo. Un bel ragazzo, alto, biondo, delicati i colori del volto, le mani lunghe e sottili, e negli occhi celesti la fredda luce che lo rende così somigliante a Maria José. Era a messa con suo padre nella chiesa di Notre Dame de Bon Voyage. Lo sentii lontano, straniero, lontano anche da suo padre cui non sorrideva mai. «Mia madre, le mie sorelle, mio figlio», ripete Umberto, al quale il pensiero dei bei giorni di Cannes illumina d’un sorriso il pallido volto.
« I giornali parlarono, naturalmente, d’una riunione per la divisione delle sterline giacenti a Londra, per le quali era ancora in corso, a quel tempo, la vertenza con la Repubblica. Qualcuno immaginò anche dissapori, discordie. A nessuno venne in mente che ci fossimo dati convegno per rivederci, per riabbracciarci ».
Tace un poco, poi aprendo, finalmente, il cuore: «Noi ci vogliamo bene, sa. Gli avvenimenti ci han separati, ci han dispersi: non, però, negli affetti, nei quali la famiglia dei Savoia rimane e rimarrà sempre tenacemente unita».
Gli luccicano gli occhi.
«Li ha mai visti, in certe cartoline colorate, quei nostri ritratti, con mio padre, mia madre, e tutti noi figli stretti in gruppo l’uno all’altro, e sopra di noi sventolava la bandiera? Cosi siamo ancora, come quand’io ero il principino vestito alla marinara e le mie sorelle erano pettinate con le trecce, cosi siamo ancora, stretti in gruppo l’uno all’altro, anche se mio padre e Mafalda non ci son più. Sa che le lettere che mi scrivono oggi le mie sorelle non son per nulla diverse da quelle che mi scrivevano tanti anni fa, nell’età in cui sull’amore tra fratelli non è scesa ancora la prima ombra? Vorrei potesse leggere le lettere che ancora scriviamo a nostra madre, e che ella gelosamente conserva cosi come tutto conserva di noi, le ciocche dei nostri capelli, i nostri primi quaderni, i primi fiori che le donammo, povera donna che a Cannes, essendoci noi affettuosamente raccolti intorno a lei, di una cosa si doleva, di non aver le braccia grandi quanto il cuore per poterci abbracciare tutti insieme. Ed abbracciava, aprendole più che poteva, anche gli assenti».
Il re s’è lasciato troppo andare. Un improvviso silenzio, pochi istanti gli bastano per ricomporsi, ed e’ sorridendo, ma di un mesto sorriso, che riprende a parlare di sua madre e dice:
«Oggi non è che una piccola, vecchia signora vestita di nero che vive sola in mezzo ai ricordi. Conserva tra le cose più care una scatola d’avorio piena, oggi, di polvere; ed è la polvere delle foglie e dei fiori che mio padre, quand’erano in villeggiatura a San Rossore, le portava ogni mattina tornando dalla passeggiata.
Le ho raccontato con quanto pudore e come silenziosamente. Raro che mio padre e mia madre si parlassero, reputando qualsiasi parola si fossero detta insufficiente ad esprimere il profondo, sublime amore che h univa. Avevano superato, nei loro rapporti sentimentali, ogni manifestazione esteriore. Bastava loro uno sguardo per intendersi: attraverso gli occhi si leggevano nell’anima. Si sono amati come credo che pochi al mondo si siano mai potuti amare».
C’è nella voce d’Umberto di Savoia, in queste ultime parole, qualche cosa che mi parla di un cruccio segreto, di una ferita sempre viva, della quale la rievocazione di tanto amor coniugale inasprisca il dolore.
Ma per un istante. Poi subito, passando dal tono doloroso all’amaro:
«E la gente non riesce a trovare altro motivo al riunirsi di questa famiglia che la rissosa spartizione di un’eredità» .
E dall’amaro al sorridente: «Il più vecchio e la più piccina dei Savoia», dice mostrandomi due ritratti sulla mensola del camino: Massimiliano di Sassonia che ha novant’anni e Maria Beatrice che ne ha sei.
La vedo spesso, Maria Beatrice, con Maria Gabriella, più grande di lei di tre anni, giocare nel breve giardino. Il padre le chiama Ella e Titti. Titti somiglia a lui, Ella a Maria José. O le sento, in casa, correre su e giù per la scala di legno, con mille scricchiolii, e risatine e gridi soffocati. Hanno libero accesso nello studio del padre, le tavole a colori dell’enciclopedia le attirano molto. In questo siamo uguali, il re ed io: abbiamo tutti e due quattro figli, e tutti e due piene di strappi le tavole a colori dell’enciclopedia.
Umberto è padre affettuosissimo: segue le figliole negli studi, gli piace d’assistere ai loro giochi, quand’è invitato a cena fuori si siede ugualmente a tavola con esse c finge di mangiare. E non esce se non le ha salutate, gia in letto tutte e due nella loro bella stanzetta, con un bacio sulla fronte, una carezza sui capelli e una parola misteriosa che nessun altri conosce, di quelle parole che dicono le mamme, la sera, all’orecchio del figli che quasi già dormono. Ma la mamma non c’è, ed è il padre che si china, la sera, all’orecchio di Maria Beatrice e di Maria Gabriella e dice loro la parola misteriosa.
C’è sulla scrivania, nell’angolo a destra, un libriccino rilegato di verde, tutto consumato tante volte è stato letto. «I Lusiadi» di Camoens. Sul frontespizio una data e una dedica: « 15 settembre 1947. A mio padre ‑ M. P.». Maria Pia. A questo nome il viso di Umberto si illumina tutto di dolcissimo orgoglio. Se le due principesse piccoline sono il sorriso che rallieta la mesta vita del re in esilio, Maria Pia ne è il conforto, il sostegno. Di un’intelligenza straordinaria, di una sensibilità non comune, questa ragazza che non ha ancor sedici anni, ma è già, per l’animo e per l’aspetto, una donna, è la compagna indivisibile di suo padre, al quale somiglia fisicamente e spiritualmente. La sua cultura è straordinaria, non soltanto relativamente all’età. Studia sotto la guida di un’istitutrice, ma il suo vero, educatore è suo padre. «Ne sto facendo una Savoia». Il figlio è troppo lontano. Tutti gli affetti, tutte le speranze sono in Maria Pia. E’ la sola sua confidente, è l’unica creatura al mondo di fronte alla quale Umberto di Savoia deponga la faticosa maschera di re e si mostri col suo vero, volto, quel volto che nessun altri conosce.
E’ l’ultima mia visita, questa, al re in esilio. Ed è finita. Riparto per 1’Italia. No, non qui sul cancello, questa volta, come ieri sera, mi stringerà la mano. M’accompagnerà fino alle prime case di Cascais. La sera è bella. Non un tremolio di stelle, tanto l’aria è limpida è ferma. E la prima casa di Cascais, per chi venga da villa Italia, è la chiesa, quella stessa chiesa nella quale, arrivando dall’Italia, lo vidi, dalla porticina della sacrestia, inginocchiato in un angolo buio, a destra del1’altare. Una chiesa povera povera. Piena d’errori di latino. « Ave Maria, “gracia” plena », e la Madonna risponde: « Ecce “ancila” Domini» . Una facciata nuda, tre finestrine, intorno gridi di gabbiani e leggeri voli di spume.
E’ ancora aperta, vi entriamo. Non la illumina che la lampada ad olio, dinanzi all’altare, pendente dalla volta dell’arco. Il vento, che qui dentro è di casa, gonfia le tendine dei confessionali, e la lampada oscilla. Ora in luce, ora in ombra, c’inginocchiamo.
«Preghiamo per i nostri figli », dice Umberto di Savoia. «Ne ha quattro anche lei. Ma li ha tutti con sé».
E poco dopo, sulla soglia della chiesa, ci salutiamo. Assai semplicemente, senza parlare. Come se ci dovessimo riveder domani mattina. O mai più. Una stretta di mano, poi lui da una parte, io dall’altra. E ancora sento il rumor di quei passi che s’allontanano nel silenzio.