Il Re in un angolo
La sacrestia della chiesa parrocchiale di Cascais è una piccola stanza nuda con un grande orologio tarlato fermo ad un’ora di chi sa quale anno lontano, un vescovo di gesso colorato sotto una campana di vetro, e quel magro odore d’incenso delle chiesette povere, che ne bruciano soltanto un granellino la domenica e scaltramente vi aggiungono un pizzico di polvere di magnesio per fare molto fumo. Un tempo la porticina che dà nel presbiterio aveva un vetro, ora non ha che un foglio di carta gialla reso trasparente con un po’ d’olio di lampada per far passare almeno una parte della poca luce delle piovose domeniche invernali.
Ci troviamo sulla costa atlantica a una trentina di chilometri da Lisbona. Costeggiando prima il Tago che nell’ultimo suo tratto sembra già un mare, e poi l’aperto oceano, un trenino elettrico, coi bigliettai e i controllori risplendenti di galloni d’oro come generali, porta in poco più dì mezz’ora dalla capitale portoghese al povero villaggio di pescatori che da colui che per troppo breve tempo fu il re d’Italia perché molti non lo chiamino ancora il principe Umberto è stato scelto per trascorrervi il tempo dell’esilio.
Cascais. Le tre o quattro impassibili ville tutte di lucide mattonelle di maiolica, il tetto bianco, i muri gialli, le cornici delle porte e delle finestre rosse ed azzurre nulla tolgono – anzi, per contrasto la accentuano – della miseria delle sdrucite reti distese sui ciottoli della piazza, dei panni sbiaditi e rappezzati sventolanti ai davanzali, del quarto di capra secco e nero da sembrare affumicato appeso a un gancio sulla porta della più piccola e buia delle botteghe, ed uno sciame di mosche dalla grossa testa d’un bel verde rilucente gli vola intorno suonando le trombe a distesa.
E’ domenica. Le scure e magre gambe dei pescatori pendono in lunghissima fila lungo l’orlo della diga inalzata a contener le furie invernali dell’Atlantico, sulle pietre del greto sottostante i gabbiani si disputano gridando gli avanzi della pesca, l’aria è piena dei mille candidi fiocchi di spuma che qui continuamente, al minimo soffiar di vento, nell’azzurro o nel piombo d’un cielo mutevolissimo, si levano e volteggiano come piume. Nella piccola insenatura le barche sono all’ancora o inclinate sul greto.
Arrivai che pioveva. Una pioggia sottile come una nebbia. M’era rimasto negli occhi lo splendore dei bigliettai e dei controllori del trenino elettrico, e l’aria mi sembrava ancor più buia. Il faro del promontorio era acceso. Il promontorio di Cascais è la punta più occidentale d’Europa.
Una breve strada in salita, uno spiazzo, e chiese più semplici di questa, bianca di calcina, che mi si presenta allo sguardo è difficile trovare. Una facciata nuda, 3 finestrine, due campanili che non superano la croce posta sul sommo del tetto. Una povera chiesa di pescatori, tra gridi di gabbiani e leggeri voli di spume. Dentro è piena d’errori d’ortografia. Dipinto su una parete c’è l’Arcangelo Galbriele che entra e dice – « Ave Maria, “gracia” plena », e la Madonna, inginocchiata, gli risponde: «Ecce “ancila” Domini ». Errori gravi, ma del XVII secolo. Così antichi, perciò, che non sembrano nemmeno più errori. Sull’altare c’è un prete piccolo piccolo che sa il latino ancor meno della Madonna e dell’Arcangelo Gabriele. Tante parole, tanti strafalcioni che ripetuti e aggravati dal coro dei fedeli vanno su in cielo, a ogni preghiera, come frotte d’uccelli neri. Ma non importa. Non per questo il buon Dio non guarda sorridendo alla chiesetta sperduta sulle rive dell’Atlantico, fra gridi di gabbiani e volteggi di spume.
M’avvicino al solito gruppetto che in tutte le chiese del mondo, tutte le domeniche, s’attarda sulla porta.
« Non è forse questa la messa delle undici? ».
« Sì “senhor” è questa».
«Non viene forse qui, ogni domenica, a quest’ora…? ».
« ” O Rey d’Italia ? ” ».
Sì dicendo, il cortese pescatore vestito di nero, un vecchino tutto rughe, s’inchina e si toglie il cappello.
I pescatori di Cascais, i contadini di Cintra, i cittadini di Lisbona lo chiaman tutti cosi, o Rey d’Italia” come se Umberto fosse ancora re, come fosse qui non in esilio, ma a godersi un po’ di riposo nella solitudine della villa col giardino di sabbia e, intorno, fra i sassi, i magri pini curvati dal vento.
Poco repubblicani come sono, fa piacere ai portoghesi d’avere in casa un re, anche straniero, non importa, e la mattina della domenica dinanzi alla chiesetta di Cascais c’è gente che viene di lontano a godersi l’illusione di avere un sovrano da salutare.
« Sì, “senhor” viene tutte le domeniche, alle undici precise, con le tre principesse, Maria Pia, Maria Beatrice e Maria Gabriella. Ma oggi non ci son che le due piccoline, perché la grande è in viaggio. Dicono sia, andata a trovare la mamma ». Si sa tutto, qui, di quel che avviene nella vicina villa. Qui tutti seguono con affettuosa curiosità la vita di questa famiglia che sino a ieri regnava sull’Italia, e oggi altro della patria lontana non le è rimasto se non, chiuso nel cuore, il ricordo, ed un nome da dare a una casa sugli scogli dell’Atlantico: villa Italia; di questa famiglia per la quale celebravan la messa vescovi e cardinali, ed oggi, nella chiesetta d’un villaggio di pescatori, non ha che un povero, piccolo prete che, quanto a latino, ne sa ancor meno della poco istruita Madonna dipinta sulla parete.
Quando Umberto di Savoia appare con le figliuole sulla piazza della chiesa, gli uomini salutano togliendosi il cappello, le donne chinando il capo, e le ragazze porgono fiori alle principesse. Maria Gabriella, ch’è la più piccina, arriva in chiesa che ne ha perduti metà, tanti sono i fiori e sì brevi le braccia.
« Vuol vederlo? E’ nel presbiterio, a destra dell’altare, tra il fianco dell’arco e la parete. Il suo posto preferito. Fa tanto piacere a lui trovarlo libero, quanto a noi lasciarglielo. Ma non le conviene passar tra la calca; faccia il giro della chiesa ed entri di fianco, dalla porticina della sacrestia; dalla sacrestia si affacci sul presbiterio, e senza nemmeno entrare lo vedrà subito. Lo conosce, non è vero? Anch’io lo conosco», sorride il vecchio pescatore. « La mia casa è sulla strada di Cintra, e “o Rey d’Italia” viene spesso a trovarmi. Debbo a lui la mia barca e le mie reti nuove ».
Il grande orologio tarlato fermo ad un’ora di chi sa quale anno lontano, il vescovo di gesso colorato sotto la campana di vetro, il magro odore d’incenso, e nell’angolo tra l’arco e la parete vidi uscire, assorto, dall’ombra, il viso lungo e pallido dell’ultimo re d’Italia. Seguiva i propri pensieri o le frotte d’uccelli neri che il piccolo sacerdote dalla cotta sdrucita mandava in cielo a ogni preghiera?
Umberto di Savoia assiste attentamente e devotamente alla messa, segnandosi e inginocchiandosi ogni volta che il rito lo prescrive. Legge le preghiere in un vecchio libretto nero dal taglio d’oro, regalatogli da sua madre quand’era ragazzo. Nell’ombra che ne accentua il pallore del volto ed ancor più lo affila, e impressionante la somiglianza con Carlo Alberto, del quale ho veduto ieri a Oporto l’ultima dimora ed il giardino di fronte al mare, dove solo una volta, uscito per breve tempo dal mortale abbandono d’ogni forza in cui giacque per tutto il tempo del breve esilio, solo una volta riuscì a trascinarsi. C’è un quadro che lo raffigura, all’ombra del tiglio che tuttavia fiorisce nel giardino, in atto di preghiera. La preghiera di chi altro non aveva da chiedere a Dio se non la morte. Diversa è la preghiera di Umberto. Vedo in lui, pur nella medesima solitudine, pur di fronte al medesimo mare, chi ancor forte, ancor giovane, ancor senza errori, non crede ancora finita la propria missione su questa terra.
Ma quali speranze, io pensavo osservandolo in quell’ombra, ma quali speranze può serbare nell’animo quest’uomo ch’è l’unico italiano cui sia vietato di riveder l’Italia, che quando mori suo padre nemmeno gli fu permesso d’attraversarla in volo per abbreviare il viaggio, che vive qui, su questo estremo lembo d’Europa, dove sembra che la terra abbia termine e cominci un mare infinito, qui fra i gabbiani, gli scogli e quattro pescatori che altro non possono fare per lui se non, ogni domenica, lasciargli libero un angolo della più povera e più disadorna delle chiese, un angolo buio tra l’arco e la parete, nient’altro che quanto basta ad un uomo per inginocchiarsi e pregare? Quale sarà il suo destino? Rivedrà la sua patria questo re in un angolo? Potrà mai ritornare in Italia “o Rey d’Italia”?
Mi vide, mi riconobbe, sorrise, ed uscito di chiesa sostò un poco sulla porticina, come per dirmi: « Venga, la aspetto ». Ma l’udienza era per il giorno dopo, finsi di non accorgermi dell’invito, m’allontanai; e non fu uno sgarbo, tutt’altro: stretto come avevo il cuore, non avrei saputo che dirgli.
Pioveva. Si sentiva continuo il grido rauco dei gabbiani. Poi il re in esilio si mosse. Lo guardai allontanarsi alto, diritto, giovane che sembra abbia trent’anni, ma di fronte alla distanza che lo separa dalla patria era piccolo e sperduto.
Fino a che non sparì alla svolta della discesa che dalla chiesa porta verso il mare.